lunedì 30 giugno 2025

Ifigenia CCV. Il disincanto totale. Ogni malizia è vissuta o recitata dai figli di tale epoca.

La mattina mi svegliai di pessimo umore. Il sole non c'era. Pensai subito male. "Ieri ho dovuto pregarla perché non mi lasciasse subito, oggi stesso, otto marzo, giornata della donna. L'ho convinta solo del fatto che troppo presto non le conviene. L'ho indotta a pensare che se mi pianta prima dell'esame di recitazione, rischia la bocciatura. Mi ha concesso tre, quattro mesi di proroga dunque, la brava ragazza che per Capodanno volle brindare all'eternità del nostro amore! Cialtrona! Ma se crede di sfruttarmi, di succhiare il mio sangue senza darmi in cambio niente, o nient'altro che i suoi baci da Giuda, si sbaglia! Le succhierò l'anima! La provocherò, la spingerò a manifestare le sue zone estreme: le sublimi e le infime, le oscene e le sante, per metterle nella mia storia e renderla più interessante. Te lo faccio vedere io l'otto marzo, la giornata della donna! Tu sei una femmina dissoluta, una dalle libidini inaudite! Come l'amante del regista interpretata da Sandra Milo in Otto e mezzo di Fellini cui l’alter ego del regista, l’attore Mastroiani dice: ‘Ci vuole un trucco più da porca! Fai la faccia da porca! Cammina molleggiando sui fianconi!’. Dopo due anni e mezzo che mi sfrutti impudicamente, che mi hai isolato per mungermi con mia consunzione quasi totale, adesso ti accorgi che c'è poco altro da spremere e che ti conviene cercartene uno più utile, più funzionale alla tua agognata carriera da istriona. Ora vuole macellarmi, la guitta, la mima volgare. Ma io non sono una mucca né un castrone da mattatoio: saprò capovolgere contro di te la tua intenzione malvagia. Ti provocherò, ti punzecchierò, ti squarcerò fino a farti rovesciare tutto il putridume che hai dentro. E su quella sanie, sul tuo dorso di belva costruirò la storia di amore fallito rappresentativo di questa età malvagia e superba, nemica della virtù (20)".
Lo sbudellamento davanti al fuoco mi aveva riempito l'anima di tali sentimenti cattivi. Ci incontrammo nella sala della colazione. Per provocarla subito, le feci notare che la cameriera era bella, bellissima, una meraviglia di donna: non avevo mai visto una delizia del genere. Reagì soltanto con un "non mi piace", simulando indifferenza. Salimmo al rifugio Le Cune, sperando che il sole rompesse le nubi, ma non eravamo degni della sua presenza lieta, e rimase nascosto fino a sera. Eravamo cattivi e meschini. Lo vedemmo volare basso e stanco solo pochi minuti prima che si annidasse tra i monti. Non osai chiedere niente al dio corrucciato. A metà giornata ci sedemmo su una panchina di ferro posta non lontana dal ciglio di una voragine aperta verso nord est. Si vedeva la Marmolada, la regina delle Dolomiti, mi spiegava la zia Giulia, ma se le chiedevo di portarmi a camminare su quella distesa bianca che mi affascinava rispondeva che era piena di crepacci associando questa parola minacciosa a un’altra assonante che doveva spaventarmi. “Sulla Marmolada sono crepati tanti, anche esperti di montagne e ghiacciai, bambino imprudente anche nei desideri!”
"Anche con certe amanti si crepa, magari dopo avere goduto" pensavo quella mattina. Non ero più un bambino e non mi facevo tante illusioni. Una volta vedevo il tutto nel niente, oramai il niente nel tutto. Il mio disincanto era totale. Eravamo cupi e imbronciati. Parlavamo di nuovo della nostra situazione infelice aggirandoci attorno ai soliti temi: perversioni, tradimenti, emozioni cattive, e così via. Cercavo di provocarla a dire qualcosa di nuovo, onde scriverlo tra gli appunti del capolavoro prossimo; ma quella eludeva le domande, replicando con i luoghi comuni che avevamo codificato insieme negli ultimi tempi a proposito del nostro connubio corrotto. Ad un tratto però, quasi senza volere, riuscii a colpirla in una debolezza essenziale, una zona critica e dolorosa dell'anima, una piaga che, appena sfiorata, la faceva dubitare perfino della sua identità. Dissi soltanto: "Ifigenia, sei più bella, giovane e affascinante adesso di quando ti ho conosciuta". Tutto qui. Ma quella, cadutale la maschera di indifferenza con cui si era protetta fino allora, mi guardò con un'espressione di terrore e di odio, poi disse: "Io non cerco nessuna consolazione del fatto che non sono tanto giovane quanto le ventenni delle quali senti bisogno tu per eccitare i tuoi nervi mal protesi e stremati". Quindi si alzò e si avvicinò al ciglio del precipizio. Avevo fatto come la Medea di Seneca, quando con lucida follia trova il punto debole del traditore Giasone. La madre dolorosa e furente ha visto come può colpire il marito fellone e dice fra sé: "sic natos amat?/Bene est, tenetur, vulneri patuit locus" (549-550), ama così i figli? Va bene, ce l'ho in pugno, si è aperto un varco per la ferita
Dopo essermi congratulato di tale riuso del maestro di Nerone, provai compassione della sua debolezza e mi alzai per andare ad accarezzarla, a dirle che se soltanto mi avesse voluto, non avrei desiderato altro. Ma non potei farlo. Prima che arrivassi a toccarla, Ifigenia scappò nel rifugio. Rimasi fermo dov’ero per qualche minuto. Poi la seguii adagio. La raggiunsi. Piangeva. Le domandai perché. "Ho creduto che tu volessi ammazzarmi buttandomi giù", rispose. La guardai costernato. Non potevo spiegarle più niente. Dissi soltanto: "Ma va". Per tutto il giorno non riacquistò la ragione. Il precipizio l'aveva dentro di sé la ragazza. Era in bilico sul proprio inconscio, un baratro terrificante; oppure era in balia del cavallo nero, contorto e massiccio, peloso fino alle orecchie, come quello maligno della biga platonica (22). 
Ifigenia aveva un'angoscia cieca e regressiva. L'avevo Scatenata con un'osservazione tutt'altro che atroce, eppure insopportabile per la sua debole coscienza di sé. A meno che facesse una delle sue scene per esercitarsi. Nessuna malizia poteva essere esclusa. Da parte sua e pure mia. Comunque fino a sera non fu possibile dirle una sola parola senza insospettirla e farla piagnucolare, o addirittura infuriare. 

Pesaro primo luglio 2025 ore 8, 49 giovanni ghiselli. 
Il mese più luminoso, più bello è passato.

Note 
20 Cfr. G. Leopardi, Il pensiero dominante, 59 e sgg. 
21 Cfr. F. Nietzsche, Il caso Wagner, trad. it. Mondadori, Milano, 1975, capitolo 12 
22 Cfr. Platone, Fedro, 253e. 

Ifigenia CCIV Il dialogo tragico davanti al fuoco. Seconda parte.

Gianni. Sei intelligente tu. Hai un'anima. Quando ti sento parlare così, mi assale la brama del tuo letto, anzi quasi quella delle nozze (16)  con te, e mi rimorde molto avere sciupato l'amore, la stima che tu avevi per me. In quanto hai detto c'è della verità. Però bisogna aggiungere che, nonostante le emozioni malate e passeggere per gli altri due, noi siamo rimasti insieme, e non abbiamo perduto tempo, anzi, abbiamo fatto diverse cose importanti, e ne stiamo facendo ancora. Non mi riferisco soltanto ai nostri concubiti, comunque sempre belli, numerosi e sacrosanti. Io ho scritto un dramma, breve se vuoi, magari di interesse ristretto al popolo non numeroso dei licei classici, o, se preferisci, alla gente grama del ginnasio dove lavoro, ed è fallito pure là dentro. Ma questo non vuol dire che sia brutto e non significativo dei tempi; forse ho avuto fretta a concluderlo, oltretutto in anticipo rispetto ai gusti ora in voga, come hai detto tu stessa. Ma presto riprenderò a scrivere: intanto a commentare l'Edipo re con il mio metodo comparativo e con una prospettiva europea, un lavoro al quale tu mi hai incoraggiato e hai contribuito non poco, quindi porrò mano a un'opera grandiosa un epos dove entreranno le mie esperienze, i miei studi, le mie gioie, i  dolori, la politica, la storia e perché no, il cielo e la terra (17). Dovrò Anche questo a te e al nostro rapporto variopinto per la varietà infinita dei suoi aspetti. Perciò vorrei che non finisse presto, anzi che non finisse mai. 

Ifigenia. Ho capito. Tu scrivi. E io quali capacità posso acquistare, o accrescere, se la nostra storia continua? 

Gianni. Tu ora stai preparando un esame non facile. Da me, quanto meno, ricevi un metodo, un  ritmo e una disciplina di studio. Quanto più impàri, tanto più si allarga la tua umanità, la tua stessa vita, e mi restituisci moltiplicato tutto quanto ricevi. Quei due non ci hanno offerto il loro amore, è vero, però nemmeno noi glielo abbiamo chiesto. Io almeno non l'ho fatto. 

ifigenia. Nemmeno io. Anche in quello che dici tu c'è del vero. E tu pure, sicuramente hai un'anima non ordinaria. Prima citavi l'Ifigenia in Aulide se non ricordo malema'llon de; levktrwn sw'n povqo" m j ejsevrcetai ej" th;n fuvsin blevyanta: gennaiva ga;r ei (18) \ … w\ lh'm j a[riston (19).  Vedi che bravo maestro sei stato? Anche Io probabilmente ti amo. Però l'anno prossimo, anzi, subito dopo l’ esame, andrò a cercare lavoro, a vivere, in una grande città dove nascono le idee, dove si crea cultura, dove si dà e si prende, si fa e si disfa il potere: a Roma, o a Milano. E voglio andarci senza te. Per imparare a cavarmela da sola, o forse piuttosto per avere l'opportunità di incontrare un altro maestro geniale, uno che mi aiuti a crescere nel campo attoriale. Tu mi hai spinta a pensare, a studiare; mi hai donato la vita tua e  hai chiarito la mia a me stessa: te ne sono grata, te ne sarò grata sempre; ma presto avrò bisogno di imparare delle cose che tu non puoi insegnarmi. Io sento la necessità di recitare, come tu il bisogno di scrivere. Perciò è meglio se ci lasciamo presto, o anche subito".

Le stavo seduto di fronte e avevo il fuoco sul fianco destro, piuttosto vicino: sudavo, mi bruciavano gli occhi, mi tremavano le mani al pensiero della fine anticipata e non catastrofica del nostro rapporto. Per fortuna non era destino. Ma allora non lo sapevo: dovevo mettercela tutta per arrivare con lei fino al momento in cui avrei sentito la necessità di cominciare a scrivere. Non mancava molto tempo del resto. Ad un tratto un pezzo di fuliggine o qualcosa del genere mi entrò nell'occhio destro: il più miope, il più debole, e già aspreggiato sia dal fumo, sia dalla lente a contatto che portavo da quindici ore. Cominciai a lacrimare.

"Scusa – dissi – mi è entrato un pezzo di non so che roba in un occhio". Ifigenia  mi accarezzò. La cameriera enorme ci osservava dal banco con i suoi piccoli occhi, affondati nella carne copiosa, e protetti dalle scintille. Dovevo fare pietà anche a lei. Ifigenia disse: "Che tragedia!". "Perché tragedia? – domandai – Se non vuoi più stare con me, puoi lasciarmi anche subito". "Non è così semplice, Nonostante tutto, io credo di amarti; o, quanto meno, mi sento ancora legata a te". Il pezzo di roba uscì dall'occhio straziato che provò sollievo; asciugai la guancia lacrimosa e, recuperato un poco di coraggio, dissi: "Io sono sicuro di amarti poiché ho plasmato il tuo spirito e mi sono lasciato potenziare, raddrizzare, nel mio, debole e sghembo, dalla tua forza di ragazza esemplarmente bella. I tarli, è vero, ancora purtroppo ci sono, ma quale logica ci sarebbe nel lasciarci, prima che i sentimenti positivi siano esauriti e sia compiuta l'opera di educazione reciproca? Pensa a quante cose buone possiamo mettere insieme noi due. Aspettiamo di non avere altro da costruire in comune, arriviamo almeno a superare il tuo esame per il quale sto studiando anche io, tanto che finora non ho trovato il momento opportuno per cominciare la mia, la nostra creazione secondo lo spirito. Non potrò più sopportare me stesso se non riuscirò a dimostrarti di sapere scrivere un capolavoro ispirato da te e degno di me. Dammi questa possibilità di redenzione e riscatto: vedrai che gli errori miei e tuoi, le nostre pene, delusioni e sconfitte, troveranno una giustificazione estetica, nella bellezza voglio dire, e noi ci innamoreremo di nuovo l'una dell'altro, come quando tu eri ingenua, credevi in una vita felice con me, e ci credevo quasi anche io. Quando mi venisti incontro e mi chiedesti aiuto pensai che la mia bambina morta prima di nascere fosse rinata in te e il mio primo pensiero fu di prendermi cura di te. Poi è successo qualcosa: un salto retrogrado nell'abisso degli antichi terrori, e del nostro  passato più travaglioso. Ora finalmente ne parliamo: ne stiamo prendendo coscienza. Perché dobbiamo lasciarci, mentre la vicendevole educazione non è compiuta, e la mia opera non è nemmeno avviata?" Tirai il fiato. Ce l'avevo messa tutta, non potevo aggiungere altro.

La guardai attentamente cercando di piacerle, di essere espressivo e non stralunato, non malato nonostante soffrissi ancora lo strazio della cornea colpita dalle faville ardenti. La studiavo: era bella, cupamente bella; il suo volto veniva acceso e brunito dai guizzi del fuoco. "Se perdo una donna di questo formato - pensai - dove ne trovo un'altra che non me la faccia rimpiangere per tutta la vita?" 

Finalmente la bella disse la sua sentenza: "Va bene. Possiamo restare insieme. Non so quanto. Io adesso devo pensare all’ esame. Dopo si vedrà. Lasciamo fare al destino".

"Manco male", pensai, un'espressione quasi apotropaica, raccolta dai colleghi veneti buoni bicchieri e simpaticamente fedeli alla loro diavlekto~ natia. Non la koinhv letteraria che da noi è la lingua toscana ma un dialetto comunque comprensibile, bonario e simpatico. Un dialetto dall’accento femminile, come è la parola greca hJ  dialekto~, “la dialetta”. Glielo dissi per sdrammatizzare. Poi confermai le sue parole: "Certo che seguiremo le orme del nostro destino onnipotente e già tracciato. Non credo che ci fece solo all’affanno. Seguiteremo ad amare il destino, con la coscienza di essere cari agli dei, favoriti da loro e dai nostri caratteri, mai discordi con il volere del fato. Adesso andiamo a dormire, ché è tardi. Anche questo ritorno è destinato ab aeterno, come perfino il cinguettare di un passero".

Ci alzammo, pagai il conto alla signorina assai grossa e tornammo alla Campagnola. Non mi sembrò il caso di fare alcun'altra proposta. Sicché ognuno andò direttamente in camera sua. Quando mi trovai solo nel letto, dovetti fare i conti con sensi di colpa e di inferiorità che, tutti sommati, davano angoscia. Cercavo di trasformare i sentimenti in ragionamenti. Pensavo: "E' vero che solo attraversando il dolore si può andare oltre il dolore, che sono passato per Esmeralda e altre siffatte, prima di arrivare a Ifigenia,  necessaria al mio scrivere, quanto Päivi lo fu al mio studiare, Helena al mio sentirmi abilitato ad amare le donne belle e fini; però in questo modo con le persone ho rapporti di uso. I miei progressi, se pure ci sono, costano sofferenze oltre le gioie poiché non posso vivere me stesso e il prossimo mio, soprattutto le amanti, senza fare calcoli. Questa è stata una creatura mia, l'ho fatta crescere io: è mia figlia più che se l'avessi messa al mondo: devo provare a considerarla un fine, non un mezzo. Sì, ma se è lei che non vuole essere uno scopo per me? E poi per quale ragione non deve volermi? Perché non le piaccio? O non le convengo? Oppure non si fida di me? Dice che l'ho ingannata e delusa con la storia di Lucia. Ma lei stessa prima mi aveva mentito! Quanto devo penare ancora per la restaurazione del bene prezioso che ho adulterato? Quali altre sofferenze dobbiamo infliggerci per riparare i danni della mutua ingiustizia?" Chiesi aiuto al buon Dio che mi esaudì facendomi addormentare.


Bologna  30 giugno 2025 ore 18, 21giovanni ghiselli

 

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Note

16 Cfr. Euripide, Ifigenia in Aulide, 1410.

17 Cfr. Dante, Paradiso, XXV,1-3

 

18 Euripide, Ifigenia in Aulide, 1410-1411. Maggiormente il desiderio delle tue nozze mi penetra/mirando alla tua natura: infatti sei nobile.

19 Euripide, Ifigenia in Aulide, 1421. O anima nobile.

Edipo a Colono versi 345-360 Traduzione e commento


Edipo 345 “L’una dacché  ha concluso la crescita

346 della bambina  e ha fortificato il corpo,

347 sempre sventurata errando con me

348 fa da guida a un vecchio, spesso per selvaggia

350 foresta e vagando senza cibo, scalza,

351 penando per molte piogge e vampe di sole

352 pospone gli agi di una vita in casa, purché abbia del cibo il padre.

Questa ovviamente è Antigone che viene presentata da Edipo come la santa protettrice dei padri malconci. Una santità della ragazza che si aggiunge a quella già celebre per avere onorato a costo della propria vita il fratello Polinice morto. come si legge precedente tragedia Antigone. 

C’è da dire che quanti pospongono la vita domestica a quella del vagabondo errante,  probabilmente hanno vissuto orribili tragedie familiari sin  da bambini e non vogliono che queste si ripetano nella loro stirpe.

 

Segue l’elogio di Ismene, ragazza dal martirio meno truce.

353 E tu, o figlia, già prima sei venuta dal padre

354 a riferire, di nascosto ai Tebani, tutti i responsi,

355 che furono vaticinati su questo corpo, e fedele custode mia

356  sei rimasta quando venni bandito dalla terra.

Il corpo e la terra menzionate da Edipo dicono che   in questo momento il vecchio cieco  ha forti percezioni somatiche e telluriche anche perché si rivolge alla più pratica delle due amate figlie. Ricorda pure che i suoi nemici usavano i responsi oracolari cercando di avvalersene per i loro intrighi politici.

357 E  ora   quale notizia sei giunta, Ismene,  a portare.

 358 al padre? Quale spedizione- stovlo~-  ti ha allontanato da casa?  

Edipo forse sa già che è in corso una spedizione militare degli Argivi radunati da Polinice contro Tebe difesa da Eteocle. Lo ha saputo o intuito. Tradurre stovlo~ con “ragione” come fa qualcuno significa non rendere questa parola greca con una italiana che le corrisponda. Ho sentito Cacciari che diceva: “gli specialisti a volte lo sono al punto che non capiscono niente”. Mi è piaciuto. Io mi pregio di essere un dilettante. Infatti lo studio della letteratura greca mi ha dato diletto e tante borse di studio in molti sensi.

Ma sentiamo la conclusione di questo discorso di Edipo a Ismene.

359 Ché  di certo non sei giunta a vuoto, questo io

360    so bene,  senza portarmi qualche orrore

Edipo ha saputo o preconizza la storia orribile dei due figli maschi.

 

Bologna 30 giugno 2025 ore  17, 33 giovanni ghiselli

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Questo mese ho avuto una media superiore agli 800 lettori al giorno.

A proposito di dilettanti: mi viene in mente un caro amico professore ordinario, ora emerito, alla Normale di Pisa, una delle persone migliori che conosca.

Quando uscì il mio Edipo re, con Loffredo di Napoli nel 1997, e in pochi mesi superò le 10 mila copie con le adozioni, l’amico mi disse: puoi essere contento: noi spesso non raggiungiamo le 500 copie vendute. Questo mio lavoro è esaurito da anni: sicché non sto facendo pubblicità a un mio lavoro.

Del resto lo utilizzo ancora nelle mie conferenze e se in tanti ancora mi leggono lo devo pure a questo mio primo libro stampato che mi dilettò molto.

 

 

 

 

 

Ifigenia CCIII. Il dialogo dello scorticamento davanti al fuoco. Prima parte.

Cerco di ricostruire il dialogo ricordando, se posso, le parole precise che dicemmo, e, dove la memoria non basta, ricostruendo quanto ciascuno avrebbe potuto dire in modo confacente al proprio carattere e  alla situazione disgraziata nella quale ci eravamo sciaguratamente cacciati.  

Gianni. In questi lunghi giorni di solitudine ti ho pensata a lungo, ma non sempre bene. 

Ifigenia. Lo so. L'ho capito dalla tua telefonata. Mi ha tolto l'equilibrio. Io, dopo Ludwig, avevo trovato un ottimo accordo con la tua immagine: con il tuo aspetto, il tuo pensiero, con tutta la tua persona. Fino al pomeriggio di ieri l'altro, ti amavo di nuovo. Ma poi, con quella uscita da pazzo, hai fatto impazzire anche me. 

Gianni. Spiegati meglio; che cosa vuoi dire? 

Ifigenia. Adesso la mia anima non è più completamente occupata da te e impegnata ad amarti. Io sento degli strattoni che mi fanno vacillare. Ho interessi nuovi, molto forti, e non so conciliarli con l'amore per te. L'ho sentito dopo la telefonata. Con la tua possessività esigente, ansiosa, mi hai fatto paura. Se vuoi, te ne posso dare un'immagine attraverso una metafora semplice ed evidente. 

Gianni. Te ne prego.

Ifigenia . Nella mia testa c'è un tarlo che rode, scava, e tende a distruggere il nostro amore. 

Gianni. Puoi dargli un nome? 

Ifigenia  Sì. E' il tarlo del maestro. 

Gianni. Vuoi dire che sei ancora innamorata, o ti sei innamorata di nuovo, del maestro di danza? 

Ifigenia . No, non di lui. E' un fatto più generale. Gennaro però mi ha dato coscienza del problema. Capisci? E tu, per quale ragione non pensi bene, o non soltanto bene di me? Il tuo assillo qual è? 

Esitai un momento prima di darle la cruda risposta. La osservavo: il fuoco le illuminava la parte sinistra del volto con un bagliore cupo.

Gianni. Io sento il bisogno di amare una vergine. Temo che una donna non possa amarmi se non sono stato il suo primo uomo. Non è vero che se fossi stato io a iniziarti all’amore, tu mi ameresti ancora? 

Ifigenia. Non credo. Però certamente tra noi ci sarebbe  una cosa importante in più. 

Gianni. Ma tu, francamente, adesso hai voglia di fare l'amore con il maestro di danza?

 Ifigenia. No, ti ho detto di no; tuttavia quell'emozione mi ha fatto capire che sento il problema dell'amore del maestro in generale. E' una cosa seria per me. Anche tu d'altra parte, provando un sentimento forte per una ragazza non splendidissima, non tanto intelligente, nient'affatto schietta, pur mentre stavi con me, ed io ero innamorata di te, devi avere capito che vuoi una donna vergine e di buona famiglia come orrendamente si dice. Non è così? 

Gianni. Può essere. Ma adesso non ho in mente nessuna ragazza in particolare. Tranne te, voglio dire. 

Ifigenia. Sì, perché insegni in quarta ginnasio e le tue alunne sono ancora troppo piccole perfino per i tuoi gusti. Aspetta che arrivino altre supplenti giovani, carine, magari rampolle di famiglie benestanti e vedrai!  

Gianni.  Mi valuti ancora meno di quello che sono. Del resto non credo che mi innamorerò tanto presto. E tu a quale maestro tendi ora, a Gimondi? E' lui il problema per te? 

Ifigenia. No. Ma solo perché non mi piace fisicamente. Te l'ho già detto. E' grasso assai. Però, se non avesse la pancia, potrebbe essere un assillo anche lui. Capisci che cosa vuol dire? Il primo regista bravo e di aspetto passabile, mi attirerà; probabilmente me ne innamorerò. Forse adesso io devo stare sola. Tu ieri, con la tua scena  da matto, mi hai terrorizzata. Il nostro amore a questo punto è inquinato. Io ho perso fiducia in te. Credo che se tu avessi potuto fare l'amore con quella supplentina bene educata, cioè lusinghiera, smancerosa e nello stesso tempo riottosa, mi avresti lasciata. Solo che lei, pur girandoti intorno, non è stata abbastanza oblativa con te. Ti prendeva in giro appunto, ti canzonava. Durante la gita scolastica a Roma, ti ho visto corteggiarla in modo così sfacciato  che se ti avesse corrisposto anche solo a metà, vi sareste abbracciati davanti a me. Io quando ero innamorata di te, ti sarei saltata in braccio Davanti a tutti, se mi avessi vezzeggiata in quella maniera. Ma Lucia non si è mossa. Per questo, solo per questo, tu sei rimasto con me. 

Gianni. Non è vero. Alla fine dell'anno scolastico, rispondendo a un bigliettino ambiguo che mi aveva infilato in tasca, le scrissi che la storia di Odisseo e Nausica, ovvero la mia e la sua secondo lei, non era una storia d'amore. Oppure era un amore fallito. E in gita scolastica, in treno, di fronte a quella ragazzetta, io misi un braccio sulla tua spalla per dire a entrambe che la mia donna comunque eri tu. 

Ifigenia. Sì, questi particolari sono veri. Però rimane il fatto d'insieme, e determinante, che Lucia non ti ha mai dato l'occasione di cambiare donna: insomma  di prendere lei al posto mio. Sennò nei momenti più acuti della tua emozione malata, l'avresti fatto. Ne sono sicura. 

Gianni. Io no, non ne sono punto sicuro. Come potrei? E tu, l'occasione del maestro di danza, l'avresti presa se te l'avesse data? 

Ifigenia. Non lo so. So solo che non me l'ha data. 

Gianni. Non hai detto che una volta ti ha offerto un passaggio in macchina e  l'hai rifiutato? 

Ifigenia. E' vero. Però era soltanto un passaggio appunto, e se l'accettavo magari potevo finire a letto con lui, e tale opportunità non è bastata a staccarmi da te, d'accordo; ma se Gennaro avesse avuto maggior potere e mi avesse detto che era innamorato, che voleva stare con me, istruirmi, inserirmi nell'ambiente del teatro, francamente non so se avrei rifiutato. Anche tu, Gianni, non credo che avresti respinto Lucia se si fosse offerta di amarti, di stimolarti a studiare, magari anche di tenerti la casa in ordine o di rendersi utile in altro modo, quando ne eri innamorato. Sua madre era una donna importante per giunta.  

Gianni. Tu mi consideri molto peggiore di quello che sono. Sua madre casomai era importante per me solo in quanto era una donna bella più della figlia. Ti prego di non usare sempre e soltanto il metro dei valori tuoi che non si addice alla misurazione e valutazione dei miei. Se l’ho vezzeggiata un pochino l’ho fatto proprio per questo.

Ifigenia. Fatto sta che ti tremava la voce quella sera nel treno tornando da Roma. Non hai idea di quanto mi hai fatto soffrire. Noi siamo rimasti legati perché quei due non hanno contraccambiato le nostre emozioni e non hanno corrisposto alle nostre intenzioni. Non dico solo per questo, ma anche per questo. Sai che cosa vuol dire? Che mentre stiamo insieme cerchiamo l'amore in altre persone, ciascuno in una che gli assomigli più di quanto io sono simile a te e tu a me, e che sia più funzionale  ai nostri scopi di carriera e di successo. Hai provato attrazione per quella, proprio perché la trovavi più somigliante a te e alla tua razza. Tanto nell'aspetto quanto nel carattere. Venivi a domandarmi: "Ma Lucia è calvinista?", in quanto studiava molto, e si sentiva in peccato mortale quando una lezione non le riusciva bene: proprio come fai tu. Poi dicevi che ti ricordava tua sorella. Ebbene io avevo notato che somigliava anche a te, e alla più carina delle tue zie in quelle foto di sessant' anni fa: sì alla Rina ventenne. Così attirava il tuo narcisismo, la tendenza all'incesto, e chissà quante altre perversioni tue. Del resto io pure, nel maestro di danza devo avere trovato qualche cosa di simpatico, di congeniale  a me stessa.


Pesaro  30 giugno 2025 ore 11, 10 giovanni ghiselli


Nota

15 Cfr. Tucidide, Storie,  I, 22. 

Ifigenia CCII. Il sole e il freddo. La sofferenza offerta alla vanità dell’abbronzatura.

Chiusa la porta a chiave, pensai che le cose tra noi stavano andando secondo un legge naturale: il diritto in una coppia di amanti è equo, uguale per entrambi finché le forze sono pari, ma quando uno diventa  più forte dell’altro  prende tutto il potere e il più debole debole cede o se ne va. Il mio potere era scosso e infranto e i miei diritti erano ormai cessati. Mi venne in mente quanto dice il personaggio Trasimaco nella Repubblica di Platone: fhmi; ga;r ejgw; ei\nai to; divkaion oujk a[llo ti h] to; tou' kreivttono" suvmferon" (338c), affermo che il giusto non è altro che l'utile di chi è più forte. Tale è Divkh nel nostro sistema, una contraffazione e un pervertimento di tutto quanto è naturale.

Pensavo che questa legge di natura, o piuttosto contro natura, è comunque quella e ancora sempre vigente non ostanti i Cristo, i Marx, i don Milani vari. A me pure non piaceva, tuttavia dovevo tenerne conto e risalire la china fino diventare forte non meno di lei. Potevo farcela. Mi dissi: “Quella si aspetta da me che io abbassi la testa, ma il suo è un calcolo sbagliato: io devo adoperarmi contro tale pretesa e con la mia reazione imprevedibile superiore al suo conteggiare, meschino la spiazzerò”.

La mattina appena sveglio, sentii un gran desiderio di vederla: agognavo una rivincita. Apparve, attorialmente, nella sala da pranzo dove l'aspettavo da alcuni minuti. Dopo la colazione salimmo all'Alpe di Lusia. La ragazza sedette su una panchina di ferro, davanti al rifugio Le Cune nell'aria ghiaccia ma luminosa, per abbronzarsi; io feci alcune discese fino a mezzogiorno, quindi tornai da lei. Il vento soffiava sempre sbuffi gelati. Stare lì fermi era una pena. D'altra parte, siccome il sole era alto, ci rimordeva perderlo, rinunciare a non poco colore dando retta al desiderio di entrare nel rifugio scaldato dai termosifoni roventi. Preferimmo rimanere a patire nel freddo arrabbiato ma pieno di luce. Parlammo poco: dovevano essere assiderate pure le nostre  lingue. Le cattiverie che avevamo da dirci le tenemmo in serbo per la sera. Ricordo soltanto una mia osservazione che a lei piacque. A un certo momento soffrivamo l'aria raggelante al punto che pregavamo le nuvole di nasconderci il sole e darci l'autorizzazione a entrare nel rifugio senza rimorso. Ma quelle, pur assediandolo, non arrivavano a coprirlo, e il dio continuava a irradiare luce senza calore proprio soltanto nel luogo dove eravamo seduti noi mezzi intirizziti. La vanità della cosmesi era più forte della sofferenza inflitta dal freddo.

Dissi: "Questo sole, come il nostro amore è algido, scontato e noioso siccome c'è da tanto tempo e sembra che non voglia sparire. Ma se dovesse eclissarsi o tramontare, ci lascerebbe sotto un povero cielo senza colori , in un buio infernale privo di vita. Se non ci fosse lui, a stare alle altre stelle sarebbe sempre notte (14) e noi saremmo morti di freddo. Ifigenia trovò interessante questa mia osservazione. Disse che ci avrebbe pensato sopra.

La sera andammo alla malga Panna. Sedemmo vicino al focolare e alle fiamme che si contorcevano nel caminetto, e si riflettevano metallicamente sui rami e i ferri appesi alle pareti, e anche sulle bottiglie, i bicchieri e i piatti dei tavoli, sui nostri occhi arrossati, immillandosi in un luccicore febbrile. Ci fronteggiavamo. Un anno più tardi Ifigenia avrebbe ricordato la sera del sette marzo 1981 come quella del nostro sbudellarci davanti al fuoco, diabolicamente bizzarro.


Pesaro30  giugno 2025 ore 10, 46 

giovanni ghiselli


Note

14 Cfr. Eraclito, fr.44 Diano.

Ifigenia CCI. O cameretta che già fosti un porto.

O cameretta che già fosti un porto

a le gravi tempeste mie diürne,

fonte se’ or di lagrime nocturne” [1],

 

Terminato questo pensiero, ero arrivato a recuperare l'automobile. Più tardi in albergo mi preparai per l'incontro. Volevo piacerle. Mi lavai, mi feci la barba, mi vestii sotto e sopra con cura particolare. Poi scesi dal portiere a chiedere la chiave della stanza dove avrebbe dormito la signorina. Avevo preso una seconda camera per non dare alle zie la certezza e la prova della nostra intimità. Si sarebbero informate, quindi scagliate contro la “ragazzaccia”, dissoluta, sfacciata, povera di tutto tranne che di libidini inaudite. La stanza era luminosa, con vista sui monti pallidi che, posti a oriente, la sera si tingono di rosa, come una donna che vuole incontrare l'amante. Però la chiave non serrava bene la porta. "Qui non si può fare l'amore con tranquillità - pensai - brutto segno".

Dopo l'ispezione andai a cenare, quindi partii per la stazione di Trento. Durante il viaggio lungo una sessantina di chilometri, fantasticavo. Immaginavo che dentro l'automobile, di fianco a me ci fosse una bambina bella, bruna, vivace, simile a Ifigenia e, in meglio, anche a me. La nostra creatura immaginaria mi domandava: 

"Dove andiamo, gianni?"

"Alla stazione di Trento, cocca, incontro alla mamma" rispondevo.

"E' bella la mamma?"

"Sì, amore, molto. Tua madre è una donna straordinaria: la più bella e intelligente del  Mondo".

"Più bella di me?" voleva sapere la citta, con rivalità tipicamente femminile.

"No tesoro" rispondevo con qualche imbarazzo, benché sia portato a corteggiare le femmine umane di ogni età, condizione e razza, poiché in tutte trovo qualcosa di interessante e degno di essere indagato, come in me stesso.

"Lei è la  migliore di tutte le donne; tu sei la cittina più bella del mondo e la luce dei miei occhi". Se avessi avuto una figlia l’avrei corteggiata in questa maniera. probabilmente è  per questo che Päivi o Dio, chiunque egli sia, non me l’ha data.

"Sì, ma a te chi piace di più?"

"Mi piacete entrambe" concludevo da gesuita, senza dire che l’adulta mi  piaceva di più perché con lei facevo l'amore. E perché era ancora reale. Così tenni occupato il cervello durante il viaggio da Moena a Trento dove arrivai poco prima del treno. La mia donna ne scese con aria da attrice di successo. Era bella e sicura di sé. Quanto mutata da quella che era arrivata in ritardo un anno prima da me che la disprezzavo! Mi raccontò dei suoi progressi all'Antoniano e del suo ottimo insegnante.

"Ottimo ma non attraente, - aggiunse subito - ha la pancia".

"Meno male" borbottai. Poi dissi che l'avevo pensata molto, nel bene e nel male.

"Non pensarmi troppo - ribatté - soprattutto nel male, perché dopo vengono fuori le scenate telefoniche come quella di ieri che francamente mi ha turbata parecchio".

Turbatae mentes le nostre, pensai. Non risposi: non volevo indagare sull'argomento con il rischio di precipitare nell'angoscia scoscesa; piuttosto bisognava fare l'amore innumerevoli volte, fino allo sfinimento e magari allo svenimento. Però compresi che la mia brutta telefonata era stata presa molto male. Quando, verso mezzanotte, arrivammo alla Campagnola, salimmo subito in camera mia e facemmo l'amore due volte; la seconda con una certa fatica. Quindi disse che aveva sonno e voleva andare a dormire.

"Va bene - bisbigliai - vestiamoci. Ti accompagno". La seguii fino alla porta della stanza assegnata a lei, senza dire altro. La salutai e tornai nella mia cameretta che non era “un porto a le gravi tempeste mie diürne”. Ricordato Petrarca per nobilitare la mia pena, mi spogliai e mi infilai nel letto. Mi chiedevo quale fosse il significato dell'accaduto. Mi tornò ancora in mente il nostro rivederci dell'anno precedente, il primo marzo del 1980. L'incontro alla stazione di Trento, il viaggio fino a Bologna, poi il sesso nel mio grande letto. Due orgasmi pure quella sera, due miseri orgasmi. Allora con dolore e con pianto l’amante aveva notato che io non l'amavo più: infatti nel marzo del '79 l'amore lo facevamo sei, otto volte, ed erano altrettanti tripudi moltiplicati per due. Ahi vani conti! Perché li facevo? Mi domanderete magari irritati. Perché non c’era molto altro tra noi due. Il sesso era l’unica sostanza abbondante nel nostro amore. Lo era stato.

"Adesso è lei che non mi ama - pensai - Devo farglielo notare". Saltai fuori dal letto, mi rivestii, e tornai in camera sua, di corsa, per domandarle se il mio ragionamento filava. Sapevo bene che non faceva una grinza. Rispose che le due situazioni non erano uguali: l'anno prima eravamo arrivati alle dieci di sera, a Bologna, dove avevamo a disposizione una casa con talamo matrimoniale; lì a Moena era quasi l'una, il giaciglio era singolo, un po’ cigolante, e noi dovevamo stare attenti a non fare rumore per via delle zie inevitabili, capaci di controllarci perfino lassù: bastava una telefonata. Sapeva che Anna Maria, la proprietaria dell’albergo era una nipote acquisita della zia Giulia. Sofismi, calo, adulterazione della passione: she has lost her passion (13)

"Va bene - dissi, per niente convinto - In effetti è tardi. Vado a dormire. Ci vediamo domani". Nel cuore sentivo che quella ragazza, bella, aspirante al successo, stava diventando una donna, e come tale non mi voleva più: non aveva altra ragione che l'esame da attrice  per restare con me: non tanto bello  né giovane quanto lei, né ricco, né famoso. Mi mancavano i numeri per una ragazza siffatta. Invece di dormire, mi inabissavo nel naufragio della mia sorte. Non tenevo conto che i talenti miei erano più preziosi, rari e duraturi dei suoi.


Pesaro 30 giugno 2025 ore 10, 26


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[1] Petrarca, Canzoniere, CCXXXIV