giovedì 31 luglio 2025

Grecia 1981 Capitolo XVI. La pedalata sofferta fino a Patrasso.

Due tappe per fare meno di 40 chilometri. Il buffone dionisiaco

Riprendemmo la pedalata contro il vento caldissimo spirato da sud ovest. Ifigenia dopo pochi chilometri già barcollava, sbuffava, soffriva e diceva che non poteva procedere così ostacolata e gravata.
“Adesso dovrò sobbarcarmi di nuovo il suo peso”, pensai con un po’ di fastidio e anche un poco di orgoglio che mi fece concludere “Ce la farò”.
Subito dopo in effetti mi offrii  di alleviarle la schiena prendendo anche il suo zaino che dislocai al di sopra del mio, quasi sul collo. Ma nemmeno così alleggerita Ifigenia ce la faceva, a pedalare fino a Patrasso. Provai a incoraggiarla, a spingerla anche fisicamente stando alla sua sinistra e impiegando quanta forza avevo nel braccio destro e nella mano aperta appoggiata sulla schiena di lei, non lascivamente questa volta, ma la compagna di viaggio, come un commilitone stremato dagli ordini atroci di un comandante implacabile, seppur generoso, a un tratto scostò la mia mano non abbastanza soccorrevole, frenò, fermò la bici e disse che non ce la faceva più in nessuna maniera.
Urgeva dunque trovare un rifugio dove passare la notte, però l’autostrada dove eravamo entrati a Egion senza essere ostacolati era recintata da una rete di ferro e per uscirne saremmo dovuti arrivare al casello di Patrasso ancora lontana almeno venti chiometri. Ci si trovava perciò in una prigione, ardente per giunta come una fornace, con l’acqua delle borracce oramai esaurita, oltre tutto. La ragazza infatti sudava assai poi beveva imprecando. A me il caldo piace anche estremo, ma non quando devo sopportare chi lo esecra come se fosse un male. Il male vero che porta pena a me e morbi a tutti è l’aria condizionata che aborro.
Posata la bici, camminai un po’ avanti, un po’ indietro scrutando la rete ferrigna, finché vi trovai un buco abbastanza grande per la nostra evasione. Usciti da quel carcere, percorremmo una stradina sterrata in discesa fino a un borgo turrito sulla riva del mare : Psathopirgos si chiama. Trovammo una stanza con terrazza affacciata sul piccolo porto. Nel nostro squlibrio questa fu un’altra serata di pace.  Eravamo entrambi contenti per la collaborazione che c’era stata tra noi nell’ultimo tratto quando l’avevo aiutata senza rimproverala né insistere troppo.
Ifigenia mi era grata per il comportamento che avevo tenuto nei suoi confronti, sicché aveva deciso di porre fine alle querimonie e di sospendere il rancore accumulato per mesi contro di me siccome non ero famoso come il suo uomo ideale.
Una tregua malsicura e precaria. Dormimmo per l’ultima volta insieme sul mare. Il giorno seguente, dopo avere percorso gli ultimi venti chilometri, giungemmo a Patrasso.
Se ce l’hai fatta a seguirci fin qui, lettore, senza stancarti né annoiarti, vieni ancora avanti con noi: complice o critico che tu sia, ti piacerà  ovviamente: laetaberis.
Prenotammo la cabina sul traghetto del ritorno che salpava il 28, per Brindisi. Nella nave diretta ad Ancona non c’era più posto nemmeno sul ponte.
Ifigenia si immusonì e cominciò a protestare dicendo che tutto si complicava siccome  a Brindisi avremmo dovuto trovare due treni: uno lei per Bologna, un altro io per Pesaro. Se ne poteva prendere uno solo con fermata a Pesaro, ma la sua era una pretestuosa dichiarazione di guerra: "il correlativo geografico-ferroviario del nostro discidium” pensai. Difatti tutti i treni della linea adriatica in gran parte lungomarina fanno una sosta a Pesaro, breve, ma lascia il tempo di scendere. Forse Ifigenia temeva che le avrei proposto di fermarsi per qualche giorno in casa mia. Non ci pensavo nemmeno. Lei per giunta sperava di trovare posta con offerte succose a Bologna.   
Questo pensai, ma non lo dissi. Volli sdrammatizzare, facendo il buffone dionisiaco, sicché la guardai in faccia citando Francesco Redi

Su voghiamo,
       navighiamo,
       navighiamo infino a Brindisi:
       Arianna, brindisi, brindisi.
       Passavoga, arranca, arranca,
        ché la ciurma non si stanca,
       anzi lieta si rinfranca
       quando arranca inverso Brindisi:
       Arianna, brindis, brindisi.
       E se a te brindisi io fo,
        perché a me faccia il buon pro,
       Ariannuccia vaguccia, belluccia,
       cantami un poco, e ricantami tu
       sulla mandola la cuccurucù,
       la cuccurucù
       la cuccurucù,
       sulla mandola la cuccurucù.

“Sei il cialtrone di sempre” fece lei. Non le servivo più. Poteva buttarmi via.
“Non posso negarlo. Me lo disse anche mia sorella una volta”.
Vengo spesso colpito da analogie dove si mescolano echi del passato e previsioni del futuro, ricordi belli pieni di gioia e antiche ferite mai cicatrizzate anzi diventate ulcere: povere bocche tutt’altro che mute.
Tra noi invece avevamo poco da dire. A Arrivati a Brindisi, prendemmo una stanza, girammo per la città, evitando di rispondere all’ambiguo sorriso e agli inviti dei prosseneti maliziosi in agguato sulle soglie delle locande, quindi cenammo dove ci parve meglio e andammo a dormire senza altra storia.
 
Villa Fastiggi,  primo agosto  2025 ore 8, 20  
giovanni ghiselli

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Grecia 1981 Capitolo XV La riva inquinata di Egion.

Epigrafe: “Quidquid in altum Fortuna tulit,/ruitura levat.”
 
La mattina seguente volgemmo i manubri, timoni e prue delle bici, di nuovo verso occidente per arrivare a San Nicolas dove avremmo preso il traghetto del ritorno a Egion. Il vento soffiava ancora da ovest e ostacolava il nostro procedere. Non sarebbe stato un problema serio, ma Ifigenia lo rendeva addirittura tragico. Colei, lo ribadisco, quando incontrava ostacoli (problhvmata appunto), anche sormontabili con poca pena, non cercava un aiuto nella propria forza mentale ma si lasciava travolgere da un sentimento confuso, ottuso, cattivo e diventava aggressiva, furiosa, odiosa per me.
Finalmente giungemmo a San Nicolas: era circa il meriggio. Aspettammo il traghetto seduti sulla riva del mare.
Ricordai la prima volta che giunsi in quel luogo ameno con Fulvio e la mia costola incrinata dolorante nel petto, a sinistra. L’amico mi rallegrò dicendo. “questo è il paradiso!”.
Ifigenia invece disse che in quel posto c’era un caldo da bolgia infernale. Probus l’amico celeste, improba l’amante nemica di se stessa e di me.
“L’inferno ce l’hai dentro - pensai - hic Acherusia fit stultorum denique vita[1].
Traghettati nel Peloponneso e sbarcati sul molo del porto di Egion, andammo di nuovo a sederci sulla riva marina. Appariva bianca di piccoli sassi che però, sotto la nostra pur leggera pressione, affondavano nella rena ungendosi di un liquido denso e scuro.
Poco dopo ci accorgemmo di avere i calzoncini, le gambe, le mani appiccicose, nere e imbrattate di sugna, tenace poco meno del masticione usato per la camera d’aria bucata, una pasta rossa e tenace che mi aveva impiastricciato le mani e la faccia nel ’78, quando giravo la Grecia da solo e non me la passavo peggio tutto sommato.
Ci alzammo e camminammo un poco sulla riva sconcia. Ifigenia con tristezza e paura disse di avere un ritardo mestruale di tre settimane.
Cercai di parlarne ma la presunta pregnante non volle aggiungere altro. Eravamo afflitti. Dalla strada un kou`ro", un ragazzo, facendo gesti nervosi gridò: “Pollution! Don’t sit there! Don’t touch water!”
Ci allontanammo da quel luogo inameno senza provarne sollievo: sentivamo che c’era del marcio anche dentro di noi. Mi vennero in mente le cerimonie inquinate, i grandi adulteri e gli scogli sporchi  di stragi delle Historiae di Tacito.
Pollutae caerimoniae, magna adulteria, infecti caedibus  scopuli [2]ripetei queste parole tra me e ora le rammento a te, dotto lettore.
Anche il nostro che era stato per lo meno vigoroso e vitale, era ormai diventato un rapporto fiacco e corrotto: un’adulterazione della grande passione iniziale. Non c’era equilibrio, né chiarezza, né fiducia, tra noi: la  libidine grande, continua, dei festosi tripudi remoti si avviava alla fine con piccoli passi  strascicati, senili, zoppicanti appoggiati a un bastone come l’Edipo  di Seneca: repet incertus viae,/baculo senili triste praetentans iter. (Oedipus, 654-656 ) si trascinerà incerto della via, tastando davanti a sé il cammino triste con il bastone del vecchio.
La sorte aveva trasformato il nostro tragitto sui saliscendi della Grecia in un percorso silmile a quello delle montagne russe che mi terrorizzavano quando ero bambino.
"Quidquid in altum Fortuna tulit,/ruitura levat.” (Seneca, Agamennone, vv. 101-102), tutto ciò che la Fortuna ha portato in alto, lo solleva per atterrarlo.
E viceversa, pensai per tirarmi di nuovo su 
 

Villa Fastiggi, 31 luglio 2025 ore 21, 31 giovanni ghiselli

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[1] Lucrezio, De rerum natura, III, 1023, qui dopo tutto diventa davvero infernale la vita degli stolti.
[2] (Tacito, Historiae, I, 2), Cerimonie corrotte, grandi adulteri, il mare pieno di esili, gli scogli sozzi di stragi 

Grecia 1981 Capitolo XIV. La notte di Galaxidion.

Al tramonto ci fermammo in un borgo del golfo di Crisa. Galaxidion si chiama. Prendemmo una camera con letto matrimoniale e cenammo in pace e letizia. La giornata ventosa e tormentata era finita in una notte calma, dolce e serena di ultima estate. Dopo cena andammo a sederci sulla riva del mare. Si vedevano cadere le stelle. Ifigenia temeva che il firmamento ne restasse sguarnito. Invece era sempre più ricco di fuochi. “Vedi tesoro - dissi - donando si acquista”. Anche il golfo era pieno di luci. Sul mare si muovevano lenti i piccoli lumi delle barche uscite a pescare. Un gradino più sopra si vedevano le lampadine di Itea, più in alto quelle di Crisa, poi le luci sante di Delfi, la meta già raggiunta del nostro pellegrinaggio devoto. Due fari lontani, appena visibili, segnavano, forse, la duplice cima del sacro Parnaso; sopra c’era solo il cielo stellato. La via Lattea spiccava nel mezzo. Ifigenia ridendo disse che Galaxidion si chiama così per la Galassia che di lì si vede brillare come in nessun altro luogo. Bellina, monella, rideva. Brillava, brillava anche lei. Mi fece pensare al nostro primo incontro quando la carne nitida e profumata le lievitava ancora addosso come una pasta preziosa. Eravamo contenti. Finalmente potevamo permetterci di stare in pace, di essere quasi felici. Da un locale notturno venivano le note di un valzer di Strauss, Storie del bosco viennese; dalla campagna alle spalle il tremulo e lungo verso dei grilli. Tutto questo non può essere soltanto caso e materia, dicemmo. Ci venne in mente la morte del lunatico re di Baviera amato da noi per la sua volontà di Bellezza e di Arte contro il mondo, sconciato, già allora, da industrie, commerci e cannoni. Ci sovvenne il nostro pellegrinaggio pasquale ai castelli teatrali del re scampato al fuoco di Sodoma ma non all’acqua del cupo lago increspato dove un cigno segnava di bianco il punto della morte per acqua  preferita alla  prigione nella stanza senza maniglie dove il re degradato a farmakov~  era stato recluso.
“In questi momenti di fuga, di memorie, di sogni, siamo due amanti felici - dissi - ma sulla vita oramai abbiamo opinioni diverse. E vogliamo vivere in modo diverso. Tu, da attrice, hai deciso di privilegiare l’istinto; io agli impulsi caotici preferisco anteporre un logos appassionato e commosso, ma anche ordinato e diretto a una meta precisa”.
Ifigenia mi corresse: “Io scelgo l’intuizione geniale tesoro, non l’istinto bestiale.
“Le intuizioni senza concetti sono cieche - pensai - e la bellezza senza intelligenza e volontà di bene può scivolare nel male diventando immondizia”. Eravamo contenti che la notte stellata dopo le fatiche diurni ci avesse resi più tolleranti, più umani. A un tratto Ifigenia volle andare a dormire: la lunga lotta col vento implacabile me l’aveva stremata. Bellina. L’accompagnai, ma davanti alla camera le chiesi il permesso di girare da solo nella notte odorosa. Volevo osservare  ancora le luci che stavano sotto e sopra di me. Sentivo che brillavano  anche dentro di me. Mi piaceva l’odore dell’aria profumata dai pini resinosi e resa salmastra dall’alitare del mare.
“ Sì - mi dicevo - c’è piacere, bellezza e giustizia nel cosmo. C’è un creatore. Il re popolare e demente nella fredda, piovosa Baviera, nella sua reclusione dal mondo reale, prigioniero disperato dentro quei castelli teatrali, circondato da servi avidi e perfidi , l’aveva perduto di vista. Non voglio forzare questa giovane donna a diventare diversa da quello che è, chiunque ella sia. Né posso impedirle di fare i suoi sbagli, se proprio ci tiene. Però mi piacerebbe vederla felice. Potrà esserlo soltanto diventando se stessa. Adesso lei, non protetta dal vecchio istrione ingrato, dovrà cercare da sola la strada che la conduca alla sua meta. Spero che riesca a percorrerla tutta, senza fermarsi né deviare, anche se dovesse incontrarvi un fiero vento contrario”. Tornai alla camera. Entrai senza fare rumore. Ma Ifigenia era sveglia: mi aspettava con il volto illuminato dagli occhi ridenti. Un’espressione che non le vedevo da tempo. Facemmo l’amore più volte, con piacere e con gioia.  Parlammo ancora un poco: senza alcun astio. Eravamo entrambi contenti di questo accordo dopo mesi di rinfacciamenti reciproci. Ci sentivamo liberi entrambi di fare l’amore tra noi e con chi volevamo, di farlo o di non farlo.
Quando Ifigenia prese sonno, tornai a guardare le stelle. “Sì - mi dicevo - c’è bellezza, ordine, giustizia nell’Universo. C’è un Creatore, un demiurgo artista di somma sapienza. Chiunque egli sia, ne sa più di me e io mi lascio guidare osservando le stelle guidate da Lui. Correggo le circolazioni della mia testa  talora improvvida  uniformandole ai movimenti di questo cielo ordinato.
Il re popolare e pazzo nel suo eremitaggio dentro i castelli intorno allo Starnbergersee, il lago dove morì affogato in cinquanta centimetri d’acqua, aveva perso di vista la bellezza creata dal grande demiurgo, l’artista del cosmo

Villa Fastiggi,  31 luglio  2025 ore  18, 49   giovanni ghiselli

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Grecia 1981 Capitolo XIII La pedalata contro vento. Il bagno nell’acqua del golfo.

Nel pomeriggio partimmo da Delfi scendendo a Itea, poi seguitammo  ripercorrendo all’incontrario la via dell’andata. Ma il metodo era necessario cambiarlo, siccome la direzione del vento non era mutata, sicché soffiava con forza contro la nostra fatica. Per pedalare contro le folate furenti che spingono indietro non bastano gambe robuste e polmoni  capaci: testa ci vuole, cuore e tenacia.
E’ come fare centro con donne che lì per lì non ti gradiscono. Devi convincerle a trovarti gradevole prima, poi lepido, poi geniale e meraviglioso. Non è facile ma nemmeno impossibile. Con Kaisa funzionai bene assai presto, con Päivi subito, appena mi presentai; Elena invece, la migliore del mazzo, l’Augusta, quando la avvicinai la sera della conoscenza mi concesse solo un ballo degnandomi di pochi sguardi e non volle replicare neanche una volta il breve giro di pista. La salutai, temevo per sempre, dicendole “Addio, se tu ti contenti”.
Ma non  rinunciai: ero tornato in buona forma dopo lo sconciamente subito in caserma, avevo recuperato le doti ereditate in particolare dal nonno materno, fannullone sì, ma pure ottimo ciclista e donnaiolo e io dovevo essere all’altezza delle qualità ricevute da lui, rivestire di vita  benvissuta lo schema osservato nella parte migliore di lui.
Sicché non desistetti e due giorni più tardi riuscii a farmi ascoltare dicendo quanto sapevo che poteva piacere a una donna bella e fine e dopo un altro paio di uscite la giovane donna, la domina mia, il mio gioiello, disse che stava imparando ad amarmi. Ma questo l’ho già raccontato[1].

Ora però torniamo alla pedalata sul golfo ventoso.
Pedalando contro vento, dunque, bisogna trovare la posizione raccolta da opporre agli sbuffi incostanti, e il ritmo regolare, continuo, da mantenere cambiando il rapporto con il variare dei soffi e delle pendenze stradali.
La bicicletta è una scuola di vita. Cercavo di chiarirlo a Ifigenia, la quale però era refrattaria a imparare siccome obbediva a tutti gli impulsi fuorvianti: si lasciava deviare dalla linea diritta dietro di me che cercavo di tutelarla dal vento, e talora, se le spinte regressive aumentavano, le assecondava fermandosi. Poi riprendeva a pedalare scomposta disperdendo energie come Iò, la ragazza di Eschilo trasformata in  mucca pazza e assillata da un tafàno assetato di sangue.

Ifigenia imprecava anche contro di me che l’avevo portata in tanta tribolazione, quindi oscillava, sbandava, sbuffava. Oppure annunciava visione quasi fosse una santa in estasi: al termine di ogni strada sterrata e scoscesa che portava sulla riva sassosa, l’allucinata vedeva un inesistente traghetto diretto verso un villaggio dipinto dalla sua mente sull’altra costa del golfo. Voleva imboccare la ripida via che scendeva a precipizio sul mare per porre termine alla sua enorme fatica.  Dovevo contraddirla aspramente o dissuaderla con dolci parole sprecando fiato che mi serviva anche per darle qualche spinta in avanti quando  la strada si impennava repente.
Pensavo: “pedala come affronta la vita. Con il vento a favore procede benino, abbastanza spedita; con i soffi contrari perde forza e coraggio, si ferma o scivola indietro. Adesso ha bisogno di buoni successi, altrimenti regredisce e si guasta del tutto”.
Provavo del risentimento per quella debolezza che non si lasciava aiutare.
Ma quando ottenne una sosta per un bagno che fece in mutande, e uscì dall’abbraccio marino con le forme perfette stillanti acqua salata, “Me beato - gridai - per il regalo che mi hai fatto del tuo tempo migliore, un dono venuto da te creatura celeste, a rischiararmi la vita, un munus che presto diventerà il compito di illuminare la strada del bene a quanti potrò educare parlando e scrivendo. Io sono pronto e contento!”.
Quindi mi denudai quanto lei: mi sembrava cosa bella buona e giusta rispondere a quella epifania della venustà esponendo la mia lepidezza perché l’ammirazione diventasse reciproca.
Ti domando lettore: era matta lei sola?
Tutti e due cercavamo occasioni per fare delle scene. Questa era la nostra intesa, la chiave che apriva le porte del sesso, magari perfino quelle dell’amore e dell’arte
In questo eravamo geniali entrambi.


Villa Fastiggi  31 luglio 2025 ore 18, 30  giovanni ghiselli
 
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[1] Cfr. il mio romanzo “Tre amori a Debrecen” in prestito nella libreria Ginzburg di Bologna.

Volgarità- Sprezzatura.


E’ il titolo di un bel capitolo (12, pagine 45-47) del libro Dialoghi tra e con le parole di Alessandro Marcucci Pinoli di Valfesina.

La Volgarità si  manifesta con rabbia e furia, la Sprezzatura si esprime con calma “e parlava piano”.

La Volgarità cerca di scuotere la serenità olimpica della Sprezzatura dicendole: “Ebbene, gentilissima signora SPREZZATURA, io lo so che lei appartiene a quei poveri SNOB che sono costretti fin fa piccoli a controllarsi a tal punto da dover ingoiare qualsiasi offesa in onore della vostra ridicola educazione che vi hanno inculcato fin dalla nascita” (…)

A queste parole la Spezzatura dà una risposta che chiarisce a molti ignoranti che si vantano di essere snob quale è il significato vero di queste quattro lettere spesso fraintese.

“Mi permetto di contraddirla perché quanto asserisce è del tutto errato in quanto la parola SNOB deriva dall’abbreviazione delle parole latine SINE NOBILITATE, che veniva usata nei registri dei Collegi  Inglesi da quando iniziarono ad ammettere studenti nella nuova middle class arricchita, che però non avendo titoli nobiliari come Duca, Marchese, Conte ecc. , da mettere dopo il nome e cognome, ci si limitava a scrivere appunto SNOB”.

E’ una buona lezione data a quanti affermano di essere snob credendo che questa parola sia un predicato di nobiltà. In effetti vantarsi del proprio snobismo è un’autodenuncia di volgarità e di ignoranza plebea.

Quindi l’autore menziona Il cortegiano di Castiglione che biasima l’affettazione quale aspro scoglio  e raccomanda la sprezzatura. Lo fa anche il conte Leopardi nello Zibaldone.

Alla fine di questo capitolo educativo Marcucci Pinoli presenta il personaggio signorile con queste parole  : “questa ormai poco conosciuta SPREZZATURA altro non è se non “quell’atteggiamento improntato a un senso di superiore distacco con una gradevole apparenza di spontaneità e di naturalezza (…)

Quindi l’autore dà la parola alla stessa SPREZZATURA che, parlando alla Volgarità ,si autodefinisce: “Io praticamente sono l’atteggiamento studiatissimo , voluto e ricercato di piena disinvoltura, di naturale spontaneità, fino alla trascuratezza, volto ad ostentare, un’abilità e una sicurezza assoluta, che deve apparire come non avere richiesto alcuno sforzo (p. 47)

A proposito della “apparenza di spontaneità” e di “atteggiamento studiatissimo” della Trascuratezza, ricordo il personaggio Clorinda del poema di Torquato Tasso: “le negligenze sue sono artifici” (II, 37) quindi cito l’ossimoro di Parini: il suo giovin signore presenta la chiome  disordinate sì ma “con artificio negligente”.

Non pochi giovani della mia generazione assumevano la posa della trascuratezza. Alcuni ne hanno fatto uno stile conservando quell’abitudine  per decenni dopo che è passata di moda.

Nei libri buoni può riconoscersi l’umanità di ogni epoca.

 

Villa Fastiggi 31 luglio 2025 ore 11, 29.

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Grecia 1981 Capitolo XII. La preghiera sull’ombelico del mondo.

La mattina del 22 agosto salimmo sul santuario scosceso a pregare.
Camminando per l’erto pendio dall’ingresso alla cima rivedemmo i templi, il teatro e lo stadio.
Ifigenia era attenta e partecipe.
Disse: “gianni, preghiamo per i beni supremi: chiediamo di mantenere vivo il nostro spirito artistico e mistico respirando questa atmosfera sacra e venerando devotamente il nume presente: qui vive Apollo.
Arrivati al teatro, preghiamo anche Dioniso perché ci dia la forza di creare bellezza, poi, percorrendo lo stadio, deprechiamo la decadenza inflitta dal tempo, il cormorano che ci azzanna e divora facendoci a pezzi.”
 
Ricordi lettore? Eravamo già stati nel luogo sacro l’anno prima con la bianca Volkswagen, dopo una Debrecen inquieta e pure noiosa.
Allora pregammo per il nostro amore già malandato. Apollo non volle ascoltarci. Altro preparava il nume per noi. Il nostro rapporto andato a male non poteva salvarlo nemmeno Lui. Era diventato un disamore.
Questa seconda volta pregammo per l’arte.
Non ho chiesto la grazia soltanto per me: voglio spingere quanti mi leggono al bello morale che i miei maestri greci, intendentissimi della bellezza, non distinguevano da quello estetico, anzi li riunivano in una parola: kalokajgaqiva. 
Io miro a un’arte che sappia educare a questo valore supremo. La bellezza senza bontà trasmette la noia dell’incompiuto. Come molte pagine del vate di Pescara, per esempio.
Anche l’amore, senza morale, diventa noioso.
Mirando al piacere nell’amore io ho centrato il dolore perché il bersaglio era bello senza essere buono. Ho cercato di compensare il difetto con una didattica  e una scrittura etiche oltre che estetiche.
Un’arte della parola capace di squarciare il velo delle apparenze fallaci, dei luoghi comuni ingannevoli, delle lusinghe adescatrici, degli orpelli volgari, per raggiungere il bello morale, la meta che sola dà una gioia sicura che non invecchia, non declina, non precipita nell’orrido abisso  dove  si annientano tutte le parole e le immagini false, anzi continua a percorrere eternamente la pianura della verità, muovendosi  con  un volto pieno di luce, con membra armoniose, lisce e compatte.
 
Villa Fastiggi  31 luglio  2025 ore 9, 09 giovanni ghiselli
 
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La preghiera di oggi: “ipse valere opto”

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mercoledì 30 luglio 2025

Di spirito profetico dotato.


 

Kafka era dotato di spirito profetico. Anche noi tutti, come K. del romanzo Il processo  e come l’agrimensore di Il castello, siamo sempre sub iudice e sottoposti a  ogni tipo di controllo. Siamo soggetti a ogni possibile paura diffusa dai media. Cerchiamo scuse, giustificazioni, prepariamo apologie.

Spettri di malattie, di agenti patogeni, di catastrofi apocalittiche aleggiano nell’aria e incombono sul nostro umore, sui nostri cervelli, sul nostro vivere. Le vicende dei personaggi di Kafka riguardano tutti noi.

 Anche Il processo di Garlasco fa parte di questo gioco al massacro. E’ interessante per molti in quanto simbolico anche dell’epoca nostra ed è caro alle cronache poiché costituisce un affare lucroso. Lo seguiamo in molti, sicché  la pubblicità trasmessa negli “intervalli” rende bene.

 

Villa Fastiggi 28 luglio 2025 ore 8, 47 giovanni ghiselli.

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Grecia 1981 Capitolo XI. La notte di Delfi. La paura di morire. La preghiera.

Dopo la cena eucaristica, di ringraziamento, entrammo nella stanza della casa sulla strada di Apollo. La strada della salvezza, speravo.
“Chi è per strada, chi è per strada, chi?” ricordai [1]
Noi due eravamo per strada.
Quando ci fummo lavati e distesi, ci accordammo che non si poteva continuare come s’era fatto durante la traversata marina. Dovevamo iniziare almeno una tregua con un po’ di concordia. Invocammo l’ojmovnoia pregando anche in greco.
Si era d’accordo che andare sul sacrosanto ombelico del mondo volendoci male, cercando di farci del male a vicenda, sarebbe stato non un sacrum bensì un sacrilegium, un abominio. Quindi, per sospendere le ostilità almeno nel culmine del pellegrinaggio, ci promettemmo a vicenda che per qualche ora avremmo sospeso ogni giudizio su cause, scopi, colpe, discolpe e avremmo bandito ogni discussione foriera di lite. Portammo le brande sulla terrazza che rispondeva al mare dalla parte occidentale e al santuario da quella settentrionale. Recitammo una preghiera piccola, poi quando cominciava a udirsi il verso dei grilli che trema, facemmo l’amore. Io provai un piacere non schietto dopo tante cagnare; lei non lo so.
Dopo andammo a passeggiare sotto le rupi della montagna che era illuminata da una splendida luna e biancheggiava come se fosse innevata.
 
Mi vennero in mente questi versi di Sofocle tradotti poco tempo prima e glieli recitai
"Chi è quello di cui la profetica rupe di Delfi disse - ha compiuto infamie su infamie con mani sporche di strage?/ E' tempo che costui più vigorosamente/ di tempestosi cavalli/ muova il piede in fuga:/ armato infatti di fuoco e di fulmini/contro di lui si avventa il figlio di Zeus,/e terribili lo accompagnano/ le Chere che non sbagliano un colpo./Ha brillato apparsa or/ora dal nevoso/Parnaso, la parola di/rintracciare dappertutto l'uomo oscuro” (Edipo re, 463-476).

Chi è quell’uomo? Mi domandai. Sono io?
E’ il vecchio attore gradasso della notte brava di Ifigenia?
E’ qualcuno? E’ nessuno?
Andammo a dormire senza che avere trovato risposta.
 
Durante la notte mi svegliai con l’angoscia di non rivedere la santa faccia del sole. Temevo che la mia testa fosse stata colpita a morte durante le due faticose salite e la precipitosa discesa del pomeriggio infuocato. Il cuore di tanto in tanto rallentava e sembrava prossimo a non battere più. Temevo la pena di morte per avere fatto l’amore con la donna che mi piaceva ma non stimavo, né amavo. Dormiva ignara sull’altro lato del letto nella stanza affocata dove eravamo rientrati dopo la comunione.
Potevo morire spregevolmente per avere rinnegato la mia identità di indagatore di me stesso e del vero. Mi alzai dal letto fradicio di sudore e tornai sulla terrazza da dove potevo vedere il mare di Itea, le rupi delfiche, e il cielo. Una barca illuminata dondolava nell’insenatura come un bambino sul seno della sua mamma.
La parola greca kovlpo~ significa seno di donna e golfo di mare. Rifugi e luoghi di salvezza per gli uomini di mare e per i bambini.
 
Raccolsi tutte le forze residue e rivolsi queste parole a Febo: “Signore di Delfi, ti prego, fammi campare ancora un poco e dammi la forza di vivere nobilmente, come devo vivere io, se non è destino che lasci la vita in questo momento. Vorrei educare ancora i miei allievi al rispetto del prossimo e all’amore della cultura come della natura. Voglio scrivere un capolavoro per insegnare alle genti il bello morale, voglio gioire di ogni giorno che mi resta da vivere come il tempo di una festa solenne celebrata da te”. 
Dopo tale orazion picciola ma molto sentita tornai nella stanza e nel letto non più tanto bagnato. L’amante dormiva. Apollo fece dormire anche me. Il nume che giustifica la vita con la bellezza aveva salvato la mia. Resistere devo, mi dissi, se voglio esistere ancora.

 
Villa Fatiggi  31 luglio  2025, ore 6, 48 giovanni ghiselli

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[1] Cfr. Euripide, Baccanti, v. 68: “tiv" oJdw`/, tiv" oJdw`/  ti";

Grecia 1981 Capitolo X. Il bagno di Ifigenia nell’acqua monda. La doppia ascesa sulla strada della pietà. La comunione. Il Mecenate di Pesaro.

La mattina del 21 agosto, andavamo verso Egion, uno avanti l’altra dietro come i frati minori vanno per via.
Ci arrivammo presto e senza eccessiva fatica perché un vento propizio ci spingeva alla meta soffiando con forza sopra gli zaini che coprivano le nostre spalle. Al porto di Egion salimmo con le biciclette sul battello che attraversa il golfo di Corinto e approda a San Nicolas, sul lato nord. Ci mettemmo subito a pedalare di buona lena in direzione di Itea dove il Parnaso si bagna nell’acqua del golfo. Il vento era ancora soffiato da dèi propizi, sicché, nonostante i saliscendi continui anche ripidi, procedevamo abbastanza spediti.
Ma non voglio fare la cronaca perché nel raccontarla mi accorgo che non è interessante nemmeno per me. Quando scrivo, o parlo, capisco che se annoio me stesso, a maggior ragione tedio chi mi legge o mi ascolta.
Annoiare è il crimine diffusissimo dei troppi imbecilli il cui parlare non accresce né emoziona chi ascolta. Il rispetto e la simpatia che provo per i miei simili mi induce a mettermi nei loro panni e non mi consente di dare noia invadendoli con parole insignificanti dette magari con atteggiamento elocutorio. L’ho sentito dire e fare ai cretini: esempi negativi per me: contromodelli osservati a casa, a scuola, un po’ dappertutto. Sono ubiqui.
Gli aspetti degni di nota di quella mattina dunque furono il vento benevolo che ci spingeva, letteralmente, al luogo delle nostre preghiere e dei voti, poi il sentimento di frustrazione che mi invase quando la bella compagna di viaggio e dei mille tripudi trascorsi insieme, mentre si cambiava per fare il bagno e si  riparava dietro il mio corpo dagli sguardi degli uomini che passavano in automobile sulla strada vicina, disse: “Voltati, non voglio farmi vedere nuda nemmeno da te!” Poi si mise a nuotare nell’acqua translucida tanto era monda: ogni sasso sommerso si poteva contare, mentre la carne di Ifigenia, sciolta la polvere che la opacizzava, mandava bagliori di una fiamma che incendiava il mio desiderio angosciato da rimpianti e rimorsi.
 
Nel pomeriggio feci due volte la scalata ciclistica da Itea a Delfi: la prima con lo zaino mio sulle spalle, mentre la ragazza stanca si era fermata al porto e mi aspettava distesa su una panchina del molo. Giunsi anelo sul sacro ombelico del mondo. Mi ero impegnato con grande dispendio di forze per arrivarci il più presto possibile: entro il tramonto volevo, quindi dovevo, avere fissato una stanza sulla strada di Apollo, averci depositato lo zaino, essere tornato a Itea, essermi sobbarcato lo zaino di Ifigenia, avere ripetuto la salita con lei ed essere di nuovo lassù.
Tutto questo aveva un significato morale e quai religioso per me.
Arrivai a Delfi da solo verso le cinque, trovai subito la camera nella via di Apollo, vi lasciai lo zaino, mi bagnai la testa sotto un rubinetto e mi precipitai giù per la discesa fendendo l’aria talmente calda che i capelli grondanti, dopo un paio di chilometri, si erano asciugati del tutto.
Ifigenia era ancora stesa su quella panchina. Dormiva, magari sognava, chissà che cosa. La svegliai, le presi lo zaino che aveva usato come guanciale, poi iniziammo a scalare la salita non troppo erta, ma piuttosto lunga: una decina di chilometri circa, tipo quella del passo Pordoi fate conto, solo un poco più lieve come pendenza, ma appesantita da un’aria ancora assai calda nonostante il già deciso declinare del sole e dell’estate. Ifigenia, che non ha mai amato la calura si lamentava. “Quanto  manca?” domandava ogni tanto come fanno molti bambini portati in viaggio.
Quando ebbe finito l’acqua della borraccia, le passai la mia come Coppi a Bartali, o Bartali a Coppi che fosse, quella volta famosa.
Ifigenia comunque era brava: sbuffava, ma non voleva mettere piede a terra prima di essere giunta alla meta che era importante anche per lei: si vedeva e ne ero contento. Pedalavo al suo fianco sinistro, le davo consigli sui rapporti da usare via via, le facevo coraggio, ma non la spingevo materialmente. Voleva farcela da sola. Ce la metteva tutta. Accettava i suggerimenti e li eseguiva con precisione poiché si sentiva spronata. Insomma, c’era ancora qualche cosa di buono tra noi. In generale la bicicletta rende le persone meno cattive. Ha un significato morale oltre che salutare.
Raggiungemmo la meta al tramonto del sole che si annidava tra i monti poco prima delle otto di sera, le sette dell’ora reale. Sembrava significarci che la stagione meno dolente stava finendo e che non dovevamo affrontare le prossime brume autunnali con la nebbia fredda dell’odio nel cuore. Bene avevo fatto ad aiutare Ifigenia a giungere lassù prima che la santa faccia di luce fosse già sparita del tutto tra i monti.
Bevemmo una birra per festeggiare l’impresa. Maneggiavamo  i bicchieri come se fossero stati calici benedetti da sacerdoti santi, siccome quella bevuta ci parve del tutto rituale. Poi completammo l’eucarestia andando a mangiare la solita, sana insalata greca con un poco di pane. Il corpo di Cristo? Forse. Eravamo pagani sì, ma non scristianizzati del tutto. Il Nuovo Testamento è un libro assai bello.
Al termine della cena pensai che con lo scorrere delle stagioni, anche per decenni, avrei potuto forse dimenticare Ifigenia, ma non scordarla come non avevo mai scordato Elena. Dalla mente queste due donne supreme potevano forse cadere con la decadenza mentale ma dal cuore non sarebbero mai uscite perché hanno contribuito a formarne la parte più viva e più cara.
Non potevo scordarle.
“Perché dimenticare significa togliere dalla mente, ma scordare significa togliere dal cuore”. Copio queste parole dal libro[1] di un amico pesarese. Questa persona, nobile di fatto, fa del bene gratuito a Pesaro offrendo alla nostra città gioielli di cultura rari e preziosi.  
 

Villa Fastiggi,   3130 luglio  2025 ore 18, 36 
giovanni ghiselli

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[1] Alessandro-F. Marcucci Pinoli di Valfesina, Dialoghi tra e con le parole, 8 Dimenticare e Scordare, p. 33, Edizioni Giuseppe Laterza, Bari 2022.   

Grecia 1981 Capitolo IX. La sera e la notte di Patrasso.

Sbarcati a Patrasso di sera, prendemmo una camera per la notte, poi andammo a mangiare un’insalata greca con un poco di pane e mezzo litro di retzina in un’osteria. Ifigenia si mise in posa anche lì. Da borghese piccina qual era si atteggiava a gran signora fremente di sdegno per il locale modesto. In realtà era un posto adatto ai miei mezzi di poverello da Pesaro tornato in Grecia con l’aspetto di un mendico, come Odisseo.
Un ubriaco ghignava osservando l’assurda, pomposa alterigia della ragazza che trattava con supponenza la cameriera carina e gentile.
 
Mi venne in mente un’altra mia compagna di viaggio che una sera a Patrasso, al ritorno da Delfi nel 1989, fece una scenata per la ragione opposta: l’avevo portata la domenica sera nell’unico locale aperto dove i prezzi erano leggermente più alti che nelle bettole infime. Non avevamo scelta poiché il traghetto per Ancona partiva a mezzanotte con il self service chiuso.
Avevamo pedalato tutto il giorno, digiuni, ed era necessario mangiare.
Ma quella strillò che io sprecavo il denaro. “Si tratta  del mio” risposi.
“Ora mi rinfacci anche le porcherie che mi fai mangiare in questo postaccio esoso oltre che lurido?”, gridò. Era vegetariana per giunta.
Dopo le estati nell’Università di Debrecen, potendo fare i confronti, ho pensato che le donne italiane sono le meno simpatiche d’Europa, siccome vengono viziate e maleducate da uomini imbecilli che si asserviscono ai loro vezzi e capricci. Oppure convivono con dei mascalzoni che le maltrattano e riempiono di botte. Quando non le ammazzano addirittura.
Le vittime vengono indicate come eroine o sante, invece di insegnare alle ragazze a schivare i farabutti appena riconosciuti da certi segni. Le femministe meno intelligenti soffiano sulle fiamme infernali dell’odio tra i sessi rinfocolando l’incomprensione e le sue conseguenze. Gli uomini opportunisti o imbecilli le assecondano scodinzolando. I violenti le picchiano. I criminali le ammazzano.
Immagino che a queste parole seguiranno biasimi e accuse nei miei confronti. Ma come l’eroina Antigone so di essere armonizzato con quelli cui devo piacere. E tanto mi basta molto o poco che sia.

Ora però torniamo all’agosto del 1981.
Quando la cena frugale fu consumata e Ifigenia ebbe terminato la sua quotidiana particina teatrale nella bettola, tornammo all’albergo da due soldi e ci stendemmo abbastanza distanti nel grande letto guardando il soffitto e i fasci di luce intermittenti che provenivano dal traffico della strada. Cercavo di farla parlare rivolgendole domande dirette, ma quella ribatteva con astio nervoso o con accuse offensive che mi inducevano a troncare il discorso. Il solito capo di accusa è che l’avevo prima illusa con una generosità simulata, quindi delusa con la mia vera natura di egoista e narcisista, sempre teso alla supremazia, pur essendo un pezzente e un avaro per giunta.
“Se non fossi stato bravo a scuola e fiero di esserlo - replicai - fin da bambino mi avrebbero schiacciato come uno scarafaggio. I maschi di casa mia erano le pezze da piedi di femmine imperiose. Dovevo piacere alla nonna e alle zie che avevano tutto il potere. Se non mi avessero aiutato loro, assai contente dei  miei successi scolastici, ora vivrei sotto un ponte perché con il mio stipendio non potrei pagare l’affitto, comprare i libri, andare al cinema, a teatro e nemmeno mangiare atro che pane burro e patate ingrassando come un maiale.
Voi donne non perdonate l’insuccesso dell’uomo e in fondo avete ragione. Allora io devo impiegare tutte  le forze che ho per primeggiare, almeno a scuola nella considerazione degli allievi. E nelle corse. So che se non piaccio a me stesso, se non mi amo per primo, tanto meno potrebbero amarmi gli altri”.
“Amati da solo dunque: io non posso amare un uomo come sei tu”
“Come sarei secondo te?”
“Immaturo, vanesio, incapace di amare. Di te non mi fido”
“C’è del vero - pensai - io mi sono meritata questa sfiducia, ma lei, poveretta, quali crimini ha commesso per diventare siffatta? Da giovane donna entusiasta, nel volgere di poche stagioni si è capovolta in un’istriona aggressiva, calcolatrice, bugiarda, oziosa. Ora è molto infelice: non ha perduto fiducia soltanto nella mia persona oramai sparita dai suoi progetti e dalle sue prospettive, ma non si fida più di se stessa, dell’amore, della vita. La metamorfosi cui ho assistito del resto probabilmente ne echeggia altre e ne prefigura altre ancora”.
Questo pensiero però non potei manifestarglielo neppure in maniera coperta: non l’avrebbe capito e avrebbe fatto una scenata tremenda. Forse non sarebbe più venuta a Delfi. Invece, se il dio ci favoriva con un buon vento da ovest, la sera del giorno seguente saremmo già stati in grado di vedere la luce del santuario annidato sul pendio occidentale del Parnaso, montagna sacra ai poeti.
Pregare insieme sull’ombelico del mondo forse ci avrebbe schiarito la mente torbida di pensieri cupi e angosciosi.
Però invocare Apollo provando rancore per la donna distesa con il suo povero fianco mortale nel letto dove tardavo a prendere sonno, sarebbe stata una preghiera nera.
Sicché dissi: “Buona notte Ifigenia. Posso avere sbagliato. Ma ora ho capito: tu mi hai fatto capire. Non ho mai ripetuto lo stesso sbaglio. Se mi dai un’altra possibilità, non fallisco”
“Mi dispiace, gianni. L’amore quando cade si sporca, si rompe e non si raccatta, non si riscatta. Buona notte”.
Ricordava un verso di Eschilo: in questo almeno le ero servito.
“Buona notte Ifigenia. Prima di dormire però ti dico un’ultima cosa. Non pensare male quando mi vedi prendere appunti. Tu sei la mia Musa: dunque non sospettare che scriva sempre parole brutte sul tuo conto”.
Non dissi “lo farò ora sì ora no”, ma lei intese anche la parte  latente nella reticenza.
Infatti non rispose e volse il viso accigliato verso il muro, come mastro don Gesualdo malato a morte.
Temetti che non sarebbe mai arrivata sull’ombelico del mondo: se lungo la costa settentrionale del golfo di Corinto da attraversare con un battello siccome il ponte  in quel tempo ancora non c’era, il vento fosse stato contrario inasprendo le parti in ascesa sui saliscendi continui da San Nicolas a Itea, Ifigenia non ce l’avrebbe fatta, a giungere sull’ombelico del mondo: allora il nostro viaggio nell’Ellade sarebbe stato soltanto un inutile, assurdo massacro mentale oltre che fisico.
 
Villa Fastiggi  30  luglio 2025 ore 15, 54 giovanni ghiselli

p. s.
Da quando ho aperto questo blog nel 2013 attribuisco molta importanza al numero dei miei lettori. Forse faccio male. Del resto scrivo per essere letto, al punto che  se non lo fossi non scriverei.
Leopardi in vita non ebbe il  successo che meritava, sicché nella lettera a Pietro Giordani del 16 gennaio 1818,  scrive: “né io sarò meno virtuoso né meno magnanimo (dove ora sia tale) perché un asino di libraio non mi voglia stampare un libro, o una schiuma di giornalista parlarne”.
Ho scritto molti libri stampati da editori scolastici e no, sono stato pubblicato  da riviste, da atti di convegni importanti  e  mi rivedo a parlare in diverse conferenze filmate ora presenti in You-Tube, ma i grandi numeri di lettori da quasi ogni parte del mondo li ho raggiunti con questo blog che ha il contatore. Facebook non ce l’ha ma  in compenso vi trovo diversi commenti ogni giorno.

Grecia 1981 Capitolo VIII. L’offerta respinta. Farfalle e lucciole.

Sicché decisi di parlare senza maschera e senza ironia, per fare la pace.
Andai nel bagno per mettermi le lenti a contatto quasi fossero un abbigliamento elegante. Comunque costituivano uno dei momenti della mia cosmesi, dopo la bicicletta, le corse a piedi, l’abbronzatura, la doccia e la frugalità .
Quindi tornai a sedermi sulla cuccia della cabina, chiusi il quaderno che avevo lasciato aperto e dissi: “Il nostro rapporto è fallito, Ifigenia, c’è poco da fare. Ma non è una tragedia: non c’è stato un bambino e dopo questo pellegrinaggio possiamo smettere di frequentarci, se vuoi”.
“Come potrei non volerlo ?” fece, rispondendo con una domanda retorica.
Il gioco di scacchi ricominciava, ma non desistetti dalla volontà di fare chiarezza.
“Il fatto più grave cui è difficile trovare rimedio è che in noi due c’è della stanchezza. Abbiamo nell’anima qualche cosa di tetro, di malato, che ci sottrae energie, ci ha tolto del tutto ogni letizia dal petto, expulit ex omni pectore laeitias[1].
Stavo ricominciando a citare, a recitare anche io. Era più forte di noi, zingari teatrali di formazione classica. Lei più dionisiaca, io incline piuttosto all’apollineo. La tragedia greca conteneva entrambi i culti con accenti diversi nei tre autori.
Non potevamo arrivare a una sincrasia pure noi, almeno durante il viaggio nell’Ellade?. Volevo provarci.
Sicché ripresi a parlare
“Tu mi hai lasciato, almeno quale donna fedele: se la causa del nervosismo e dello squilibro che ci fa cadere nell’insensata volgarità del litigio fosse stato il nostro “fidanzamento” assurdo e ridicolo, saremmo sereni oramai.
Del resto se il frequentarci solo sporadicamente e senza vincolo alcuno ci avesse reso felici, ora non saremmo chiusi a beccarci con tanto spargimento di umore buono in questa angusta cabina”.
“Mi pare piuttosto una gabbia”
“Ricordati però che la settimana scorsa ci siamo cercati a vicenda e quando ci siamo trovati abbiamo detto: 'mi manchi' con parole reciproche. Dunque non è vero che il nostro discidium o divortium ci renda felici. Io senza te non lo sono mai stato.
Tu non abitavi nella periferia delle mie gioie, anzi con te ho visto tutti i termini della beatitudine mia[2]. Né d’altra parte lo stare insieme ci piace, come si vede benissimo. Secondo me c’è qualche cosa di malato in entrambi, e il morbo non dipende dal nostro rapporto, bensì lo contagia. Che cosa può essere? Pensiamoci, Ifigenia, parliamone senza questionare”
“Va bene, ci penserò, ma non voglio parlarne con te”
“Per quale ragione vuoi pensare da sola a un problema, un ostacolo alla felicità che riguarda entrambi?”
“Perché non mi fido di te: tu non hai più l’autorevolezza per darmi consigli”.
“Ho capito” conclusi.
Non potevo dialogare con una persona che mi rifiutava. Uscii dalla stretta cabina pensando: “Ci rivedremo a Patrasso o sull’ombelico del mondo”.
Salii sul ponte. Navigavamo già tra i sacri monti dell’Ellade. Cercavo di non pensare più a niente. Presto però mi raggiunse colei e sedette vicina, cupa e senza guardarmi tuttavia. Nemmeno quei monti tutti pieni di dèi guardava. Il ponte di poppa era pieno di gente seduta o distesa a prendere il sole. Ifigenia guardava se la guardavano, oppure fissava lo sguardo sulla propria ombra. A un tratto interruppe il silenzio e osservò che il luccichìo del sole sul mare sembrava una danza di farfalle rosse su un prato pieno di luce.  
Imitava il mio metodo inteso a trovare le somiglianze. Forse voleva riprendere il dialogo.
Ma la feci aspettare.
Pensai che più spesso traeva impressioni dalle notti lunari.
Mi vennero in mente alcuni suoi strilli isterici, raccapriccianti, quando vedeva spuntare la luna su tacita selva, a Moena, o dalla distesa marina di Pesaro. Amava le lucciole che vedeva da bambina nel suo paesello.
Le lucciole piacevano anche a me quando ero bambino: le vedevo negli orti pesaresi, ma a Bologna non le avevo mai viste. Pensai a Pasolini. Un maestro che mi mancava.
“Per fortuna le farfalle volano ancora” mi dissi. Ifigenia si alzò. Camminava leggera in mezzo a un carnaio di corpi distesi sul sordido ponte della nave ferrigna. Sembrava una grande farfalla discesa nell’orribile barca del demonio Caronte per portare ai dannati l’estrema visione della bellezza terrena.
“Se si avvicina troppo alle perdute genti destinate all’inferno - pensai - questa falena rischia di bruciarsi le ali, di precipitare nel lago gelato dell’odio, tra le ombre dolenti dai visi cagnazzi, a battere i denti come tante cicogne imprigionate dal ghiaccio”.

 
Villa Fastiggi,  30  luglio  2025 ore 9, 46 giovanni ghiselli

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3 Catullo, 76, 22. 
4 Queste due espressioni iperboliche e ricercate risentono la prima del Giulio Cesare di Shakespeare (II, 1, 285-286), la seconda della Vita nuova di Dante (I, 1). Tale è manierismo, anche un po’ Kitsch direte voi. Non posso negarlo.
 
 
 


 

martedì 29 luglio 2025

Grecia 1981 Capitolo VII. Il rancore placato dal sentimento buono della gratitudine.

L’ultima battuta le piacque e volle riaprire il discorso, “L’attore tra noi due sei tu: ti metti tutte le maschere: da monachello a Odisseo”.
“Già intorno ai 6 anni sognavo sempre i miei amori: se ne accorsero i miei tutori e  monachello mi fecero far. Poi sono evaso dal convento del Beato Sante e ho girato l’Europa cercando di imparare conoscend  meravigliosamente le donne. Ora scusami, ma voglio scrivere”.
La noiosa tentò di ostacolare il mio compito che le dava fastidio. Aggiunse che con me non si sentiva a suo agio e che non riusciva a capire perché stesse facendo quel viaggio in mia compagnia. “Forse perché ti ho invitata. Comunque una volta sbarcati, puoi tornare indietro. Non mi devi niente. Né io a te”.
 
Poi la guardai con gli occhi resi meno grandi, meno buoni dalle grosse lenti da miope e aggiunsi: “Io lo faccio per prendere appunti sul mio stato d’animo e sul tuo finché ci frequentiamo, ancora per poco non temere, inoltre voglio andare a Delfi a pregare.
Trova pure tu un motivo sensato per te, se ci riesci”.
L’avevo messa in difficoltà e colei per ripicca riprese a rinfacciarmi la carenza di umanità nei suoi confronti.
“Quando sono con te, mi sembra di essere una che nuota con grande fatica e ogni tanto va sotto, o piuttosto viene spinta verso il fondo”.
Che cosa potevo risponderle? Nulla di sensato.
Infatti ripresi a scrivere: “Senti, senti: ha parlato Ofelia. Ma no, a forza di frequentare una che trasforma tutto in scene caotiche, assimilando ogni cosa al suo guazzabuglio, confondo le parti. Una volta io ero Odisseo, lei era Nausicaa che mi salvò dal naufragio di una trentina di amori falliti. Ma ora chi siamo? Io vorrei scrivere un romanzo e superare i 50 amori,  lei da ragazza benefica è diventata un’erinni malefica e, se penserà che le convenga, magari diverrà un’eumenide benevolentissima, da mima qual è. Ha sempre la faccia nascosta dietro maschere tragiche o comiche che cambia spesso. Altro che occhiali!
I miei sono piccoli e coprono soltanto i bulbi oculari.
Non vedo il suo volto da più di un anno come è veramente.
Anzi, a questo punto non voglio più vederlo.
La sua faccia è una maschera una persona che rivela  la sua vanità.
Se proseguirà fino a Delfi, parlerò soltanto con gli dei che saltano sulle due cime del Parnaso, Apollo e Dioniso, numi che per loro umanità mi rispondono sempre.
Però, andare a pregare sul sacro ombelico del mondo, poi magari pure a Olimpia, avendo nel cuore cupi rancori nei confronti della creatura che mi ha dato tanto piacere e dolore quanto nessuna altra donna mortale, nemmeno la buona, dolce, graziosa Elena diciottenne della primavera di Praga, neppure la bella e fine, intelligente Elena finlandese che mi diede una lezione di umanità dicendo, “io non sono materia”, neanche Kaisa la studiosa dagli occhi di viola che mi spinse a studiare, né Päivi la psicologa fulva che mi indusse a indagare me stesso poi mi fece fuggire con un ruggito e una zampata da bipede leonessa; ebbene, andare in pellegrinaggio nei templi degli dèi della Grecia pieno di risentimento verso la donna che mi ha fatto assaporare il gusto di vivere per otto mesi di questa mia vita mortale, sarebbe un sacrilegio nefando, un’offesa agli dèi generosi che l’hanno messa sulla mia strada.
Senza il loro aiuto non ci sarebbero stati i baci scambiati nei boschi odorosi, le carezze sulla riva del mare, gli agoni leali nei campi sportivi durante i tramonti della primavera luminosa quando già fiammeggia la sera promettendo l’estate, né avrei gioito delle ultime nevi di aprile sulle montagne brillanti nel sole che rende le valli fiorite e sonore dei fischi di uccelli corteggiatori, dei canti delle ragazze innamorate. Poi la nuda estate con lucciole presso le siepi, le rane lontane e vicine nella campagna, i versi dei grilli in una staffetta canora con le cicale del dì. Tutto questo non è casaccio, accozzaglia, rumore, è, invece, bellezza, armonia, musica, arte, è destino buono e sapiente, è pensiero ed è amore. Ifigenia è stata uno dei doni celesti e se non posso più volerle bene, non devo nemmeno volerle male. Tanto meno maltrattarla.
 
Villa Fastiggi, 30 luglio 2025 ore 8, 54 giovanni ghiselli

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