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Domenica 14
giugno scrissi alcune pagine di appunti seduto vicino all'acqua
marina che raddoppiava e potenziava la luce del sole. Raccoglievo
materiale per il romanzo, e cercavo di migliorare il mio aspetto per attirare
altre donne. Al tocco, anzi, non andai a desinare. Mi sarei
nutrito la sera, dopo avere pedalato in salita: non dovevo cercare una
consolazione deleteria nel cibo che, in dosi non frugali, mi
avrebbe imbruttito e abbrutito; non volevo ingrassare né lasciarmi
sconfiggere dalla fortuna che anzi, se la prendevo dalla parte
giusta, non era punto contraria. Margherita,
che nulla sapeva della catastrofe, mi domandò perché non andassi
anche io a scuola di recitazione. Risposi che la mia libido mi spingeva
a scrivere. La sera, dopo la bicicletta faticosa e la povera cena,
partii per Bologna. Il sole era tramontato da poco dietro la Panoramica del colle
San Bartolo, dalla parte dove il suo pendio più scosceso
si tuffa nel mare; il cielo là sopra
era di un rosso
sanguigno. Mi vennero in mente le mestruazioni di Ifigenia, e,
ancora una volta, il meriggio d'estate nel quale facemmo
l'amore in un'aia deserta, infuocata dalla canicola e insanguinata
da lei. "La
ragazza allora culminò nel mio cielo - pensai - Adesso tramonta. E' stata sì
l'incarnazione della carne, e pure della luce solare". Mentre la
bianca Volkswagen attraversava il borgo di Cattabrighe, finalmente
piansi, quasi senza dolore. Il nostro amore era finito quando
doveva, né prima né dopo: infatti era arrivato il momento di
cominciare il libro con il quale avrei reso migliore me stesso e quanti mi
avrebbero letto. Mi consolava anche il pensiero che la storia era
stata troncata da lei: così non avevo dovuto umiliarla o farle del
male per proseguire il mio cammino da solo, come era necessario
oramai. L'iniziativa, se presa da me, poteva essere perniciosa
per quella ragazza che non aveva i mezzi difensivi con i quali mi
stavo salvando. "Tu
dovrai essere sempre felice ragazza" le dicevo, quando la vedevo
contenta. Se lo sarebbe stata davvero - e glielo auguravo - non
dipendeva più da me. Se era affare dell'attore famoso, stava
fresca. La notte dormii.
La mattina seguente non feci lezione: mancava mezza classe siccome sabato 13 il preside aveva
annunciato la fine dell'anno scolastico. Ai ragazzini andava bene non
concludere il lavoro iniziato sull’oratoria greca, a me anche. Infatti era
necessario che cominciassi questo lavoro che state leggendo. Doveva
essere di interesse generale, cioè dare
un’immagine dei costumi, della cultura, dei vizi e del valore degli studenti europei dalla seconda parte degli anni
Sessanta all’inizio degli Ottanta. Conversai
con i pochi presenti: mi trovarono meno infelice di venerdì
mattina. In effetti, sapevo con certezza ciò che volevo. All'uscita
la vidi: era davanti al portone del liceo. Aveva dei calzoni
corti che lasciavano vedere le gambe fino a metà coscia. Visione ancora
vertiginosa. Mi venne
incontro. "Ciao come va?" "Bene, e a te Gianni?" "Non c'è male!" "Vuoi
che parliamo?" domandò. "Sì
certo - risposi - ma non qui. Andiamo da me". Eravamo entrambi con
la bicicletta. Arrivati a
casa mia, disse che a Riccione si era inserita nell'ambiente che la interessava; in particolare aveva conosciuto un regista
di Genova che le aveva offerto una parte in un dramma
ambientato in Irlanda: le era tornato in mente quanto avevamo
detto sull'Hibernia dell’Ulisse di Joyce. "E tu
che cosa hai fatto?" domandò. "Ho
pensato, ho annotato pensieri e fatti. Oggi comincio a raccontare
la nostra storia, per capire e fare capire, per restare altro tempo con
te, e per renderti eterna. Perché le azioni grandi e meravigliose
compiute da noi due - citai Erodoto 1 con un pizzico di ironia - ma soprattutto da
te, rimangano luminose e vive nella
memoria degli uomini. Va bene? Così, mentre tu avrai il tuo da fare per inserirti
nello spettacolo, io avrò il mio per trovare lo stile dell'universale,
dell’infinitudine e per conquistare l'immortalità. Anzi, se i nostri propositi
avranno successo, forse un giorno, quando che sia, per me ci
vorranno anni, forse decenni, potremo rinnovarci. L'arte, la gloria, l'educazione
di un popolo, giustificherebbero i dolori che ci siamo inflitti a
vicenda, e smentirebbero il fallimento finale. Non credi?" "Lo
spero. Tu comunque fai bene a scrivere, Gianni. Hai talento. Adesso è
arrivato il momento di metterci tutte
le forze; non puoi rimandare". "Lo so.
Adesso infatti ti accompagno di sotto, poi comincio". Erano le due
di lunedì 15 giugno 1981. Nel mio studio c'era un caldo
pesante. Eravamo sudati senza aver fatto nulla, solo parlato. Scendemmo in
strada. Era caldo anche fuori. Ci augurammo buona
fortuna a vicenda, ci stringemmo le mani. Poi Ifigenia salì sulla
bicicletta e iniziò a pedalare. Vedevo i capelli neri neri e fluenti fino
alle spalle semiscoperte. Dopo pochi metri, girò il volto
abbronzato più che mai . Mi guardò e sollevò la sinistra agitandola in segno di
saluto. Pensavo che non l'avrei vista più. Perciò cercai di osservarla
con attenzione e intensità. Eppure alla mia vista si imposero
altre immagini. Dietro la bella figura di lei c'erano alcune facce svigorite che aspettavano l'autobus; alle loro spalle
vedevo un orribile prato della sventura 2 dall'erba già secca e cosparsa di carte, bottiglie, barattoli, plastiche
varie. Ifigenia
continuava a sorridermi. In questo
contrasto di bello - brutto, radioso-opaco, vitale-morente - vidi
l'immagine della mia vita. Tanti dolori
c'erano stati: l'infanzia desolata, povera di affetti, gli inverni
gelidi, flagellati dalla bora che penetrava fin dentro il focolare
della cucina tormentando la fiamma, l’oppressione delle donne
frustrate, il nonno maltrattato siccome impoverito del tutto
dopo avere venduto il palazzo Martelli di Sansepolcro a Gherardo Bruitoni e
non avere investito il denaro, sospettato
per giunta di essere l’amante della povera donna che faceva le pulizie in
casa nostra, il padre vacante, gli amori non contraccambiati, l'abortimento
della creatura concepita da Päivi e da
me con amore, le morti di amici e
parenti strappati alla vita, la loro e la mia che ogni volta ne era stata
diminuita. Poi c'erano immagini ancora più tristi, di rapporti
sessuali affamati e affannati con donne che mi piacevano poco, e non stimavo:
quelle che dopo un’ora o due mi davano noia e
pena; poi il raffreddore da fieno con l'asma che non lascia dormire
tutte le notti dei maggi odorosi e pure velenosi per la tormentosa allergia alle graminacee; quindi
l'ignoranza e la volgarità della gente ordinaria depravata e mortificata dal
pervertimento del messaggio di Cristo,
dall'avidità degli speculatori, dalle menzogne della pubblicità e
delle propagande. Poi le stragi che hanno insanguinato via via, banche,
piazze, treni, stazioni; le bombe dal ringhio metallico che hanno fatto
macelli di uomini, donne e bambini dilaniati e squartati al pari di pecore e
buoi. Tali visioni dolorose facevano una danza macabra, un girotondo tragico
nell'aria infuocata. Ma ecco che cominciarono ad apparire e a
prevalere immagini belle. Vedevo le donne che mi avevano aiutato: quelle di
casa innanzi tutto, la mamma, la nonna, le
tre zie Rina, Giulia e Giorgia; grazie a loro ero sopravvissuto, avevo
studiato, possedevo una casa a Bologna, due a Pesaro, e diversi ettari di terra
in parte fabbricabile grazie alla nonna e una casa in comune con mia sorella grazie
a nostro padre: dei soldi in sé non mi importava nulla, ma servivano
alla mia indipendenza. Quindi le
finniche della mia vita, Helena, Kaisa, Päivi e altre meno importanti; poi le
amanti non tanto speciali ma dignitose; poi le alunne intelligenti come Luciana;
le sante amicizie dell'Antonia, di mia
sorella, di Fulvio; i successi scolastici, da studente e da insegnante,
l'arricchimento che mi stava
a cuore: quello mentale, conseguito leggendo i classici per
decenni, poi l'amore per la natura, il
talento educativo,
quello ciclistico ereditato dal nonno materno Carlino con il suo aspetto
lepido e seduttivo, elegante pur nella povertà, la fioritura mentale e fisica
degli allievi, ma sopra tutto, davanti a tutto, Ifigenia che mi aveva illuminato
zone nuove del mondo, strane e misteriose regioni dell'anima. "Nel
suo profondo vidi che s'interna/ legato con amore in un volume/ciò
che per l'universo si squaderna" 3. La figura di
Ifigenia era la sintesi e il faro della mia vita. Avrebbe
gettato luce sulle immagini annidate nella memoria rendendole
degne di ricordo. Il resto era
compito mio: dovevo riscattare i nostri errori di misere creature
mortali attraverso la bellezza delle parole e l'intelligenza dei fatti;
dovevo scontare la morte rendendo eterni i trenta mesi della nostra
storia. Non c'era un minuto da perdere: bisognava iniziare prima che
quel sentimento grandioso mi
spaventasse o mi schiacciasse
con la paura della difficoltà dell'impresa grande e necessaria.
La dovevo a me stesso e all’umanità. Ifigenia
intanto aveva girato di nuovo la faccia, aveva voltato
l'angolo ed era scomparsa. “Voglia di
fare, voglia di fare!” gridai con forza, e corsi su per i cinque piani di
scale sdegnando l’ascensore. Da una
vetrata vidi un mentecatto che indicando casa mia faceva segno a un altro che
dovevo essere pazzo. “Sì sono matto - pensai - ma la mia pazzia è divina, ed è
più saggia della saggezza del mondo”
Villa Fastiggi
28 luglio 2025 ore 7, 28 giovanni ghiselli
Note 1 Proemio delle Storie. 2 Cfr. Empedocle, Poema lustrale, v. 109. 3 Dante, Paradiso, XXXIII, vv. 85-87.
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