martedì 1 luglio 2025

Ifigenia CCXV. “Donna, mistero senza fine bello!”

Come Dio volle, arrivò l'ora di cena. Per fortuna la cameriera della colazione non c'era. Oltretutto in effetti non era un granché. Non avevo più alcuna voglia di vedere la mia compagna in quello stato pieno di furia o di lagna: mi faceva pena e mi dava fastidio. Il quesito dilemmatico era se, dopo mangiato, era meglio chiederle di fare l'amore con estrema cautela, o non proporglielo affatto.

"Nisi caste, saltem caute" pensai mentre la osservavo con sguardo che voleva essere mite. Temevo che se avessi fatto una proposta erotica, probabilmente avrei provocato un'altra commedia di dolore o una scenata della furente. 

-Come osi, dopo quanto hai detto? Senza contare quello che avresti fatto se non fossi fuggita da quel precipizio! Appena in tempo!”-

"No, no, per carità – pensai – è meglio stare zitti!".

Parlava lei traendo profondi sospiri dal'imo petto. Diceva che tra noi due infelicissimi, si erano alzate barriere di incomprensione alte e fredde più degli algidi monti che incoronano la valle di Fassa. Era più istriona e barocca del solito. Sfoderava pose e accenti melodrammatici inconsueti pure per lei, avida di esibire se stessa. Sentivo che qualche cosa non funzionava nel suo cervello turbato, e le rispondevo in maniera generica, come faccio con Stefania, la vecchia amica demente, quando ha le crisi nervose: "Eh sì, purtroppo sì. Sembra anche a me". Dicevo che se tra noi non andava bene come una volta, la colpa non era sua né mia: era tutta  del fato. "La divinità infatti è invidiosa e turbolenta - citavo - l'uomo è soltanto vicissitudine (23), e ciò che proviene dal cielo non è consentito stornarlo". Recitavo anche io.

Non volevo più litigare né discutere con lei che, secondo le mie previsioni, per quel giorno non avrebbe riacquistato il controllo del cavallo nero, che la trascinava indietro verso un passato doloroso e spaventoso. Finita la cena, ci alzammo per avviarci verso le camere. Salimmo in silenzio le rampe comuni, finché arrivammo dove le strade nostre si dividevano: "Hic locus est, partis ubi se via findit in ambas" (24),  pensai. Lì ci fermammo in silenzio.  Aspettavo che dicesse qualche parola convenzionale come "buona notte". Ed ecco che invece mi chiese: "Vuoi che facciamo l'amore?" "Io sì – feci, piacevolmente stupito – e tu?" La fanciulla, invece di rispondere, si mise a fissarmi in silenzio. "Le orecchie, quantunque non sia una caracal, sono aguzze" (25) pensai, evitando di muovermi, come è d’uopo fare con gli animali  strani e bizzarri. Non volevo decidere io; ero quasi sicuro che se mi fossi incamminato da una parte o dall'altra, ella si sarebbe sdegnata; forse mi avrebbe dato un morso con denti tenaci, o una rapida unghiata. Nessuno dei due si spostava. 

Dopo un tempo non breve, Ifigenia disse: "Vienmi vicino: ho tanto bisogno di te, Gianni". Mi avvicinai senza arrivare a toccarla. Mi abbracciò lei, poi mi baciò. Non trovò opposizione né una partecipazione entusiasta. Il fatto è che avevo paura come se fossi stato afferrato da una pantera. Ella affermò: "Il mondo è proprio cattivo, ma io ti amo tanto". Poi scostò il suo volto dal mio e riprese a fissarmi. "Facciamo finta di niente", pensai. A questo punto però sembrava auspicare e aspettare una proposta. Azzardai: "Vieni cocca, andiamo in camera mia". Non rispose; continuava a puntarmi. Allora, con cautela, le presi la mano sinistra e sussurrai: "Vieni tesoro, andiamo". Poi cominciai a guidarla, a tirarla pianino pianino, facendo piccoli passi. Cercavo di comportarmi con fermezza, ma anche con tutti i riguardi di cui hanno bisogno tali creature finite in balìa del cavallo furioso. 

Un breve excursus

Ho imparato dalla coetanea Stefania. Una volta, nei primi anni settanta, quando non sapevo trattarla, diede in escandescenze in piazza Garibaldi, l'ombelico di Padova, soltanto perché le avevo detto che I diavoli, un film di Ken Russel, mi era piaciuto. "Sei un comunista e un maiale!" gridò nell'agorà centrale affollata, piazza Garibaldi, alle sette di sera. Poi mi colpì con un ombrello, in mezzo alla testa, facendomi male. Quindi fuggì, lasciandomi semi intontito in mezzo alla gente esterrefatta. Qualcuno cercò di prestarmi soccorso. Un' ora più tardi l’amica matta venne a casa mia pentita: si scusò dicendo che la colpa era stata non sua ma di mestruazioni tremende. "Sì, e di quel cavallo tutto nero, peloso e furibondo", pensai. E della mimesi materna, aggiungo ora. Falcia l'autonomia delle donne. Le femmine rimangono appendici delle madri, i maschi dei padri, quando ce l'hanno, e pochissimi crescono fino a diventare persone indipendenti dai genitori: maximum scelus, maternus (vel paternus) amor est (26)

Stephen Dedadalus nel  IX episodio dell’Ulisse di Joyce - Scilla e Cariddi La biblioteca - sentenzia: “il padre è un male necessario A father is a necessary evil; poi aggiunge: Paternity may be a legal fiction la paternità magari è una finzione legale. Stefania durante uno dei suoi intervalla insaniae mi disse: “tu sei un antipadre”. Päivi me lo confermò abortendo la nostra bambina. Da allora mi sono care le ragazze madri e le loro creature che talora diventano  persone speciali.

Un'altra volta Ifigenia mi vide assumere con l’amica coetanea pazza l'atteggiamento di riprovazione calma e  risoluta che presento alla vista dei commedianti irragionevoli: la vecchia amica Stefania si lasciò disarmare, e da furibonda divenne prima lamentosa, quindi benigna al punto da offrici il suo appartamento e da andare a dormire dalla mamma, a Venezia, per lasciarcelo tutto. Furente divenuta gentile. Non dico che i maschi sono migliori, anzi. Hanno piuttosto la debolezza di sottostare alla tirannide dei costumi  diffusi, anche quelli pessimi: per esempio devono sfoggiare la propria forza virile perfino con le prostitute atteggiandosi a giovani leoni, fino a quando  rinunciano a ogni interesse tranne quelli per il tristissimo gioco delle carte e per le partite di calcio. Tutti dovremmo liberarci da questi ceppi e afferrare la briglia del cavallo nero della nostra biga mentale: ne acquisteremmo energia e disciplina.

Quando, uscita Stefania, ci trovammo soli, Ifigenia scoppiò a ridere per la commedia cui avevamo assistito, come se tali follie non fossero state un pericolo serio anche per noi due. "Hai fatto finta di niente mentre la pazza infuriava, vero?" mi domandò. Le spiegai che con i matti bisogna mostrare una calma forte e sicura di sé. Fine della digressione comparativa.

Ebbene questa necessità si presentava di nuovo a Moena, la sera dell'otto marzo, festa della donna del 1981, quando nella mia compagna vedevo formarsi una furia minacciosa o un nichilismo assoluto, e facevo di tutto per evitare uno scontro. Pensavo che non fosse utile chiederle un chiarimento dei suoi stati d'animo, poiché probabilmente non ne aveva coscienza; del resto se pure l'avesse avuta non avrebbe saputo spiegarla, e anche se l' avesse saputo, non lo avrebbe fatto, siccome non si fidava di me. Nemmeno di se stessa si fidava questa nuova Desdemona, la disgraziata dal demone difficile, talora anche cattivo. Comunque facemmo l'amore tre volte, e abbastanza di gusto. Io l'avrei iterato ancora, poiché trovavo in qualche modo eccitante quell'intermittenza mentale, quel barbaglio  lampeggiante della sua coscienza; ma la fanciulla divenne pazza di nuovo, come Geronimo (27), e questa volta troppo per proseguire.

Dopo il terzo orgasmo sembrava allegra e compiaciuta; io già molto contento di quel risultato, quasi stropicciandomi le mani dalla contentezza, andai nel bagno a lavarmi, per continuare a battere il ferro caldo come si dice, ma quando, tre minuti più tardi, tornai nella stanza da letto, quella piangeva a dirotto. Le domandai: "Cosa c'è tesoro?" Non rispose. Le chiesi se potessi aiutarla. Disse che nessuno poteva fare nulla per lei, infelice, svuotata, forse anche malata nel corpo. "Ho capito: allora vestiamoci subito; ti accompagno in camera, così ti riposi", dissi con tono pacato, guardandola negli occhi senza ironia né incertezza. Con le donne in crisi è necessario comportarsi così; gli uomini che invece di prendere le briglie del cavallo pazzo si lasciano calpestare, oppure montano in furia, si meritano le zoccolate che ricevono in faccia. Ifigenia saliva i gradini con passi di enorme stanchezza. Sembrava che andasse a morire. La salutai, poi tornai in camera mia, assai contento di dormire da solo. 

 

Bologna primo luglio 2025 ore 10, 25 giovanni ghiselli


p. s.

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Note

23 Cfr. Erodoto, Storie, I, 32 pa'n ejsti a[nqrwpo" sumforhv

24 Virgilio, Eneide, VI, 540.  Questo è un luogo dove la via si scinde in due.

25 Cfr. E. Canetti, Auto da fé, trad. it. Bompiani, Milano, 1990, p.789.

26 Il crimine più grande contro se stessi è imitare i genitori per tutta la vita, traduzione libera. Cfr. Seneca: "maximum Thebis scelus/maternus amor est”Oedipus, vv. 627-628,  il delitto più grande a Tebe è l'amore della madre. 

27 "Hieronymo's mad again” ( T. S. Eliot, The waste land, v. 437 citato da La tragedia spagnola (1586) di Thomas Kid.

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