venerdì 25 dicembre 2015

I "Remedia amoris" di Ovidio, Parte VIII

Le tre Grazie
Napoli, Museo Archeologico

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I generi
All’elegia si addicono gli amori anche dissoluti. Ovidio si proclama quasi cantore di prostitute.
Ovidio continua la sua apologia. Ogni genere ha il suo metro e i suoi argomenti: una cosa è l'epica con le sue guerre eroiche cantate in esametri; un registro magniloquente ha la tragedia, ai coturni della quale si addice lo sdegno (Grande sonant tragici: tragicos decet ira cothurnos, v. 375) ; la commedia tratta il quotidiano; il giambo, sia quello veloce, sia lo scazonte che allunga l'ultimo piede[1], può essere brandito quale arma contro i nemici. L'elegia è un'altra cosa ancora: "blanda pharetratos elegeia cantet Amores/et levis arbitrio ludat amica suo " (vv. 379 - 380) , l'elegia carezzevole canti gli Amori faretrati e l'amica leggera vi giochi a suo capriccio. La contraddizione e il dolore scoppiano quando ci si innamora della levis amica, dell'adultera, dell'etera, in genere della donna all'inizio comoda siccome non dà responsabilità: allora le responsabilità vorremmo prendercele ma quel tipo di donna non si presta e non è prendibile. Allora l'elegia diventa flebile.
A Omero non si confà Cidippe, all'elegia non si addice Andromaca ma Taide, e l'arte di Ovidio è quella di Taide: "Thais in arte mea est: lascivia libera nostra est; /nil mihi cum vitta; Thais in arte mea est " (vv. 385) : Taide è nella mia arte: la mia dissolutezza è sfrenata, io non ho niente in comune con le bende sacre: Taide è nella mia arte.
Viene ribadito il nome e la presenza dell'etera per antonomasia, dopo l'Eunuchus di Terenzio.

 L’invidia non lo fermerà
Se la sua poesia è conseguente al proposito e coerente con il genere, l'invidia dovrà crepare: "Rumpere, Livor, edax: magnum iam nomen habemus; /maius erit, tantum, quo pede coepit, eat " (vv. 389 - 390) , crepa invidia vorace, abbiamo già un nome grande; sarà più grande se solo va avanti col ritmo con cui ha iniziato. - rumpere: imperativo del passivo mediale rumpor. - edax: la radice deriva dall'indoeuropeo *ed - da cui discendono pure il greco [esqivw< *ed - qivw l' italiano inedia, l'inglese to eat, il tedesco essen.

Altri consigli agli amanti
Il Sulmonese si vanta di essere il Virgilio dell'elegia, quindi, affermata questa sua preminenza nel genere, riprende la strada dei consigli per salvarsi dalla tirannide dell'amore (vv. 395 - 398) . Il primo precetto del ciclo scabroso è stravagante, bizzarro e poco condivisibile: prima di incontrare la tua signora vai con un'altra: "gaudia ne dominae, pleno si corpore sumes, / te capiant, ineas quamlibet ante velim; /quamlibet invenias, in qua tua prima voluptas /desinat; a prima proxima segnis erit " (vv. 401 - 404) , per evitare che il piacere della tua donna ti afferri se lo prenderai con tutte le forze, vorrei che prima tu entrassi in un'altra qualsiasi; trovane una qualunque in cui il tuo primo piacere si sfoghi; dopo il primo, il successivo sarà fiacco. - a prima: sottintende voluptate.
E' un consiglio non solo immorale ma anche grossolanamente sbagliato: la donna è attirata dal desiderio dell'uomo, se non prova una ripugnanza iniziale per lui.
La scarsa potenza certamente non la lusinga, e l'impotenza la disgusta, la fa andare via. Quindi il consiglio può essere valido per allontanare una donna, non certo per evitare di amarla, se è vero che in questa partita a scacchi amiamo chi fugge.

Il tema dell'impotenza e quello del piacere. Un assaggio di Satyricon con una briciola di Epicuro
Restando nel campo della letteratura si può pensare alla Circe del Satyricon la quale, il giorno dopo avere sofferto l'offesa dell'impotenza sessuale di Encolpio, " hesternae scilicet iniuriae memor ", evidentemente ricordandosi l'affronto del giorno prima, cerca di umiliarlo a sua volta dicendogli: "quid est - inquit - paralytice? ecquid hodie totus venisti? " (131) , come va paralitico? forse che oggi sei venuto tutto intero?
Rinnovatosi l'affronto, la donna fece fustigare Encolpio - Polieno il quale poi a sua volta rivolge un'invettiva al pene disertore: " erectus igitur in cubitum hac fere oratione contumacem vexavi" quid dicis - inquam - omnium hominum deorumque pudor? nam nec nominare quidem te inter res serias fas est" (132) , drizzatomi quindi sul gomito, maltrattai il renitente più o meno con questo discorso: "cosa dici - faccio - vergogna degli uomini e degli dèi? infatti non è possibile nemmeno nominarti tra le cose serie".
 Segue un attimo di pentimento per avere litigato con quella parte del corpo che nemmeno si dovrebbe menzionare, quindi Encolpio, soprannominato Polieno, come Odisseo dalle Sirene, si giustifica ricordando Ulisse appunto, nonché Edipo: "quid? non et Ulixes cum corde litigat suo, et quidam tragici oculos suos tamquam audientes castigant? ", e che? Ulisse non litiga con il suo cuore [2] e certi personaggi della tragedia non sgridano i propri occhi come se li ascoltassero? Di conseguenza "podagrici pedibus suis male dicunt, chiragrici manibus, lippi oculis, et qui offenderunt saepe digitos, quicquid doloris habent, in pedes deferunt ", i podagrosi insultano i loro piedi, i malati di chiragra le mani, i cisposi gli occhi, e quelli che hanno urtato spesso le dita, attribuiscono ai piedi tutti i dolori che hanno.
Seguono quattro distici elegiaci con l'apologia dell'argomento scabroso che abbiamo già visto in Catullo, Ovidio e Marziale: "quid me constricta spectatis fronte Catones, /damnatisque novae simplicitatis opus? /sermonis puri non tristis gratia ridet, /qodque facit populus, candida lingua refert. /nam quis concubitus, Veneris quis gaudia nescit? /quis vetat in tepido membra calere toro? /ipse pater veri doctus Epicurus in arte/iussit et hoc vitam dixit habere tevlo" " (Satyricon, 132) , perché mi guardate con la fronte corrugata, Catoni, e condannate un'opera di schiettezza inaudita? Qui ride il fascino non accigliato di uno stile pulito, e una lingua semplice riporta i fatti del popolo. Infatti chi ignora gli accoppiamenti, chi le gioie di Venere? chi vieta che le membra ardano in un letto tiepido? Lo stesso dotto Epicuro padre della verità nella sua filosofia lo ha insegnato e ha detto che la vita ha questo scopo.
 - constricta... fronte Catones: è il motivo già catulliano del rumoresque senum severiorum/omnes unius aestimemus assis " (5, 2 - 3) , le maldicenze dei vecchi troppo seri valutiamole tutte un soldo soltanto Che poi, in rebus gestis, significa: "Vivamus mea Lesbia atque amemus " (5, 1) , prendiamoci la vita, mia Lesbia e facciamo l'amore.
Il tovpo" si trova anche in Seneca: istos tristes et supercilios alienae vitae censores, suae hostes, publicos paedagogos, assis ne feceris (Ep. 123, 11) , questi austeri e accigliati censori della vita altrui, nemici della propria, questi pubblici pedagoghi non stimarli un soldo.
 - novae simplicitatis: in letteratura la simplicitas è un predicato della nobiltà. - gratia: il fascino dello stile, sia nello scrivere sia nell'agire sta nella schiettezza e nella mancanza di affettazione che è predicato della volgarità.
 - quodque facit populus (...) refert: c'è una bella espressione di Tucidide che mette in rilievo questa equivalenza delle parole e delle azioni riferite dalle parole ed è ta; e[rga tw'n pracqevntwn (I, 22, 2) , tra gli eventi bellici[3] le azioni: "La mentalità greca arcaica - scrive Canfora - pone sullo stesso piano la parola e l'azione. Tale modo di concepire la parola come "fatto" è vivo anche nella tradizione storiografica, che rivela, anche in questo, la propria matrice epica. Vi è un assai noto passo di Tucidide, dove lo storico, nel descrivere il proprio lavoro e la materia trattata, adopera un'espressione quasi intraducibile: ta; e[rga tw'n pracqevntwn (I 22 2) . Si dovrebbe tradurre "i fatti dei fatti", che in italiano non dà senso... Lì vi è invece una distinzione: la categoria generale degli "eventi" (ta; pracqevnta) comprende sia le "azioni" (e[rga) che le "parole" (lovgoi) , delle quali si è appena detto nel periodo precedente... La parola infatti - scriverà secoli dopo Diodoro - la parola retoricamente organizzata, è l'elemento che distingue gli inciviliti dai selvatici, i Greci dai barbari. "[4].
 - tevlo": Epicuro stesso spiega il significato di questo scopo che è il piacere: non quello dei dissoluti che sempre giacciono nel godimento, come ritengono alcuni che fraintendono la dottrina, ma "to; mhvte ajlgei'n kata; sw'ma mhvte taravttesqai kata; yuchvn" (Epistola a Meneceo, 131) , non soffrire nel corpo e non essere turbati nell'anima. Questa vita piacevole in effetti non è generata da banchetti né da godimenti di fanciulli, di donne, di pesci ma da un nhvfwn logismov" (132) , un calcolo lucido che indaghi le cause ed elimini le false opinioni ed ogni motivo di turbamento.
A proposito delle voluttà culinarie, di quelle provenienti dalle mangiate di pesce in particolare, si esprime negativamente anche H. Hesse: Boccadoro camminando a zonzo per la città vide dei pescivendoli che offrivano la loro merce e prova "una viva compassione per quelle bestie e una triste indignazione contro gli uomini…perché non vedevano quella tremenda lotta disperata e vana, quell'insopportabile trasformazione dei misteriosi animali così meravigliosamente belli, che rabbrividivano nell'ultimo lieve tremito sulla pelle morente e poi giacevano morti e spenti, lunghi e tirati, miseri pezzi di carne per la tavola del ghiottone soddisfatto? " Il giovane artista sentiva "l'amore opprimente e senza speranza per i pesci moribondi, per i fiori che appassiscono, l'orrore per il quieto vivere degli uomini, sozzo ed ottuso, per il loro stare a bocca aperta e non vedere"[5].
 La conclusione del capitolo (132) del Satyricon è "nihil est hominum inepta persuasione falsius nec ficta severitate ineptius ", niente è più falso di una convinzione stupida, né più stupido di una severità falsa.
 
Torniamo ai Remedia
Ovidio poi supera del tutto la barriera del pudore ("et pudet et dicam ", v. 407, mi vergogno eppure lo dirò) e suggerisce al lettore - discepolo un'altra stravaganza sessuale: aggancia la donna nella posizione che pensi meno si addica alla donna. Non è difficile ottenerlo poiché le femmine sono disposte a qualsiasi indecenza. E prosegue: "Tunc etiam iubeo totas aperire fenestras/turpiaque admisso membra notare die " (vv. 411 - 412) , ti consiglio anche di spalancare le finestre e di osservare in piena luce le parti sconce.

Il protagonista de Il fuoco, l'imaginifico Stelio Effrena anticipa con il pensiero la visione cruda, quasi ripugnante, dell'attempata attrice Foscarina messa a confronto con la giovane cantante Donatella Arvale: " Ed egli, con una strana angoscia su cui passava quasi un'ombra di orrore, evocò l'immagine dell'altra: - avvelenata dall'arte, carica di sapere voluttuoso, col gusto della maturità e della corruzione nella bocca eloquente, con l'aridezza della vana febbre nelle mani che avevano spremuto il succo dei frutti ingannevoli, con i vestigi di cento maschere sul viso che aveva simulato il furore delle passioni mortali. In quella notte alfine, dopo il lungo desiderio intermesso, egli doveva ricevere il dono di quel corpo non più giovane, ammollito da tutte le carezze e rimasto ancora sconosciuto per lui"[6].

 La somma di questi consigli maligni porterà alla demolizione della "nemica". Serve comunque a disamorarsi, vedere le brutture della donna, fino alle estreme, quasi irriferibili, a detta del maestro Ovidio il quale prosegue con tale precettistica: quando poi il piacere è giunto alla meta, quando l'amante ti pesa al punto che vorresti non avere mai toccato una donna e ti sembra che non ne toccherai più: "tunc animo signa, quodcumque in corpore mendum est, /luminaque in vitiis illius usque tene " (vv. 417 - 418) , allora imprimiti nell'animo ogni difetto che c'è nel corpo, tieni continuamente lo sguardo fisso nelle sue imperfezioni.

Meglio due o più amanti che una sola
Segue il consiglio, già presente in Meleagro (II - I sec. a. C.) , di non limitarsi a una sola amante.
 In un epigramma il poeta consiglia a Filocle di averne otto nello stesso momento così da poter fare un'insalata di ragazzi (ajrtuvsei~ paivdwn lopavda) Antologia Palatina, XII, 95) . Cfr. Svevo in La coscienza di Zeno: un’amante in due è meno compromettente.
Ma il tema della pluralità delle amanti è sviluppato meglio da Properzio[7] che, in II, 22 si giustifica per essere un uomo mollis in omnes (v. 13) , tenero con tutte le donne.
La natura ha assegnato a ciascuno un suo difetto, afferma: "mi fortuna aliquid semper amare dedit" (18) , a me la sorte ha dato quello di amare sempre e non sarò mai cieco davanti alle belle, o invidioso: "numquam ad formosas, invide, caecus ero" (v. 20) . Dalla giustificazione dunque il poeta è passato alla rivendicazione: chi lo biasima lo fa per invidia. E chi sostiene che fare molto l'amore indebolisce, non se ne intende: "nullus amor vires eripit ipse suas" (28) , nessun amore di per sé toglie le forze. Parole sante e autorizzate da exempla: Giove giacque con Alcmena per due notti, "nec tamen idcirco languens ad fulmina venit" (27) , né tuttavia per questo tornò languido ai suoi fulmini. E' un bell'ossimoro concettuale languens ad fulmina che accosta, negandola, la fiacchezza moscia dell'uomo scarico alla potenza infuocata e diritta del fulmen come simbolo fallico. Ugualmente Achille ed Ettore non si afflosciavano dopo i convegni amorosi con Briseide e Andromaca, anzi, avrebbero potuto distruggere questo la flotta, quello le mura. Properzio è come il Pelide e il fiero Ettore. Anzi è come il cielo che ha bisogno della luce solare e di quella lunare: "sic etiam nobis una puella parum est" (36) , così anche per me una ragazza non è abbastanza. E' più piacevole e più sicuro averne due: "nam melius duo defendunt retinacula navim, /tutius et geminos anxia mater alit" (41 - 42) , infatti due ormeggi assicurano meglio la nave e una madre ansiosa alleva con maggior sicurezza due figli.
Che l'amore per le donne, per tutte le donne, sia in ogni caso sano e vitale lo leggiamo in una delle ultime pagine di La coscienza di Zeno, una pagina chiave, tra le più dense di significato: "In mezzo a quel verde rilevato tanto deliziosamente da quegli sprazzi di sole, seppi sorridere alla mia vita ed anche alla mia malattia. La donna vi ebbe un'importanza enorme. Magari a pezzi, i suoi piedini, la sua cintura, la sua bocca, riempirono i miei giorni. E rivedendo la mia vita e anche la mia malattia le amai, le intesi! Com'era stata più bella la mia vita che non quella dei cosiddetti sani, coloro che picchiavano e avrebbero voluto picchiare la loro donna ogni giorno salvo in certi momenti. Io, invece, ero stato accompagnato sempre dall'amore. Quando non avevo pensato alla mia donna, vi avevo pensato ancora per farmi perdonare che pensavo anche alle altre. Gli altri abbandonavano la donna delusi e disperando della vita. Da me la vita non fu mai privata del desiderio e l'illusione rinacque subito intera dopo ogni naufragio, nel sogno di membra, di voci, di atteggiamenti più perfetti"[8].



continua


[1] Sostituendolo con un trocheo o uno spondeo.
[2]Odissea, XX, 17 sgg.
[3] Poco sopra l'autore tra gli eventi aveva considerato i lovgoi, i discorsi.
[4]L. Canfora, L'agorà: il discorso suasorio in Lo spazio letterario della Grecia antica, I, 1, p. 385.
[5] Narciso e Boccadoro, p. 263.
[6] G. D'Annunzio, Il fuoco, p. 108.
[7] Del quale pure abbiamo letto dichiarazioni di fedeltà oltre la vita.
[8] Svevo, La coscienza di Zeno, p. 461. 

martedì 22 dicembre 2015

I "Remedia amoris" di Ovidio, Parte VII

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Procediamo con i più significativi tra i distici che seguono
Gioverà anche vedere la donna al naturale arrivando all'improvviso di mattina: "Auferimur cultu: gemmis auroque teguntur/omnia; pars minima est ipsa puella sui" (Remedia Amoris vv. 343 - 344), siamo sedotti dall'acconciatura: tutti i difetti sono coperti dalle gemme e dall'oro; la donna in sé, è una una parte minima di sé - ipsa puella: con questo stilema platonico (aujto; ~ o{ - auto; tov) applicato all'amore Ovidio intende distinguere non tanto l'anima della donna dal suo corpo quanto il suo vero aspetto da tutto l'apparato esteriore. Comunque anche qui come nel dialogo Gorgia 465b la cosmesi è una forma di adulazione e di inganno.
Infatti, prosegue Ovidio, "Saepe, ubi sit quod ames, inter tam multa, requiras: /decipit hac oculos aegide dives Amor " (vv. 345 - 346) , spesso tra tante contraffazioni uno può chiedersi dove sia ciò che ama: Amore arricchito con questo scudo inganna gli occhi. - tam multa: sono gli orpelli dell'apparato esterno e della cosmesi che inganna (decipit) .
Platone nel luogo citato sopra definisce la cosmesi ajpathlhv, ingannevole appunto.

Si ricorderà che altrove[1] Ovidio non accusa né denuncia il cultus, anzi lo approva ma in questo contesto ogni mezzo è valido per demistificare e svilire la donna.
Un mezzo demistificatorio è quello di arrivare all'improvviso: "improvisus ades: deprendes tutus inermem; infelix vitiis excidet illa suis " (vv. 347 - 348) , presentati inaspettato: tu, al sicuro, la sorprenderai disarmata; quella, disgraziata, cadrà per i suoi difetti. - tutus: l'uomo che invece si è preparato. Non è una guerra cavalleresca. - inermem: il termine (formato da in e arma) allude alla guerra: questi versi potrebbero entrare anche nel tovpo" Eros/Eris.
Esiste però una forma sine arte decens (v. 350) , una bellezza elegante senza trucco ed essa fallit multos, inganna molti. Volendo spiegarla, questa potrebbe essere la bellezza naturale potenziata, o conservata, dalla ginnastica e dalla consapevolezza di sé.
L'attrazione esercitata da tale forma potrebbe non essere fallace. Comunque Ovidio, come Lucrezio, consiglia di avvicinarsi al volto della domina "compositis cum linit ora venenis " (v. 351) , quando si spalma il volto con intrugli pestiferi, che hanno l'odore stercorario delle mense di Fineo insozzate dalle Arpie: "Illa tuas redolent, Phineu, medicamina mensas " (v. 355) , quegli intrugli hanno il cattivo odore delle tue mense, Fineo.
Le donne dunque sono come Arpie che insozzano; come le Erinni appartengono alla categoria dei mostri femminili vendicatori e vengono chiamate anche "cani del grande Zeus"[2]. E' tipico dell'immaginario mitico dei Greci attribuire a figure femminili i tratti dell'alterità più mostruosa.

Diamo un'occhiata a questi mostri che possono accostarsi all'immagine della donna tubo di scarico e simboleggiano tanto la paura quanto il risentimento del maschio verso la femmina umana degradata a semibestiale: "Virginei volucrum voltus, foedissima ventris/proluvies uncaeque manus et pallida semper/ora fame " (Eneide, III, 216 - 218) , i volti degli uccelli sono da ragazza, schifosissimo è il flusso del ventre, adunche le mani e pallidi sempre i volti per fame. Sentiamo anche Dante: "Quivi le brutte Arpie lor nido fanno, /che cacciar delle Strofade i Troiani/con tristo annunzio di futuro danno. / Ali hanno late, e colli e visi umani, /piè con artigli, e pennuto il gran ventre; /fanno lamenti in su li alberi strani" (Inferno, XIII, 10 - 15) .

E' notevole che l'uccello con volto di donna è un mostro, mentre la donna o l'uomo con qualche cosa di ornitologico nel volto è nobile e bello, come si legge in Proust[3].
Non potrà che derivarne nausea allo stomaco. Anche perché la donna che usa tale "orribile manteca" ed è "tutta goffamente imbellettata e parata d'abiti giovanili " il più delle volte ha grossi difetti da nascondere: è brutta e vecchia come quella di Pirandello (cfr. L’umorismo) .

L'apologia della Musa licenziosa
Quindi l'autore si difende dai detrattori secondo la censura dei quali la sua Musa è sfacciata ("quorum censura Musa proterva mea est ", v. 362) .
Tale apologia si trova già in Catullo che si difende contrapponendo la pietas e la castitas della sua vita ai versiculi molliculi: " me ex versiculis meis putastis, /quod sunt molliculi, parum pudicum. / Nam castum esse decet pium poetam/ipsum, versiculos nihil necessest " (16, 3 - 6) , mi consideraste, dai miei versi leggeri, poiché sono lascivi, poco casto. In effetti si addice al pio poeta come persona essere puro, che lo siano i suoi teneri versi non è necessario.
 Su questa linea Marziale scriverà: "lasciva est nobis pagina, vita proba " (I, 4, 8) , la mia pagina è licenziosa, la vita onesta.

Ovidio piuttosto attacca il livor dei detrattori del genio. L'invidia attacca i poeti sommi: "Ingenium magni livor detractat Homeri " (v. 365) , l'invidia deprezza il talento del grande Omero, come ha cercato di infamare il capolavoro di Virgilio: "Et tua sacrilegae laniarunt carmina linguae " (v. 367) , e lingue sacrileghe dilaniarono i tuoi carmi.
Insomma il livor cerca di colpire le cime: "Summa petit livor; perflant altissima venti, /summa petunt dextra fulmina missa Iovis " (vv. 369 - 370) , l'invidia mira verso l'alto; i venti soffiano sulle vette più alte, i fulmini scagliati dalla destra di Giove mirano alle sommità.



L'invidia degli uomini nei confronti del genio 
Il tovpo" dell'invidia è molto diffuso in letteratura: Erodoto attribuisce questo sentimento certo non alto perfino agli dèi[4].
Lo stesso ostracismo secondo Plutarco è un'istituzione con la quale gli Ateniesi cacciavano in esilio quelli tra i cittadini che superavano gli altri per fama e potenza, e con questo placavano l'invidia più che la paura: "paramuqouvmenoi to; n fqovnon ma'llon h] to; n fovbon"[5].
Molti uomini politici vennero colpiti dall'invidia, ma anche non pochi poeti se ne lamentano.
All'invidia dei detrattori Telchìni deve replicare Callimaco nel prologo degli Aitia, e, ancora più esplicitamente il poeta di Cirene ribatte ai colpi degli invidiosi con alcuni esametri dell' Inno II ad Apollo: l' Invidia disse di nascosto agli orecchi di Apollo ("oJ Fqovno" jApovllwno" ejp j ou[ata lavqrio" ei\pen", v. 100) : " non ammiro il cantore che non canta temi grandi quanto il mare".
Apollo respinse l'Invidia con il piede "to; n Fqovnon wJpovllwn podiv t& h[lasen", v. 103) e parlò così: "grande è la corrente del fiume di Assiria, ma molta/lordura della terra e molta spazzatura trascina sull'acqua. / Le api portano l'acqua a Demetra non da ogni parte
ma quella che pura e incontaminata zampilla/da sacra sorgente piccola vena, fiore sublime".
 Il grande fiume pieno di scorie simboleggia il grande poema e può alludere a le Argonautiche di Apollonio Rodio.
Tornando alla invidia tra i potenti della terra, in Tacito l'invidia di Tigellino architetta la rovina di Petronio, "elegantiae arbiter ", principe del buon gusto della corte di Nerone. Il despota "nihil amoenum et molle adfluentia putat, nisi quod ei Petronius adprobavisset ", niente considerava piacevole e raffinato in quell'abbondanza, se non ciò che Petronio gli avesse approvato, "unde invidia Tigellini quasi adversus aemulum et scientia voluptatum potiorem "[6], di qui l'invidia di Tigellino come contro un rivale più capace nella conoscenza dei piaceri. Tigellino è il famigerato prefetto del pretorio succeduto a Burro fatto ammazzare da Nerone nel 62 d. C. A lui che cercava accuse di adulterio contro Ottavia presso le ancelle di lei, una, incalzata, rispose "castiora esse muliebria Octaviae quam os eius" (Annales, XIV, 60) , che era più casto il sesso di Ottavia che la sua bocca.
 Nell' incipit dell'Agricola lo storiografo afferma che aveva riflettuto sull'invidia in generale, chiamandola, con l'ignoranza del bene, vizio comune ai piccoli e ai grandi stati: "vitium parvis magnisque civitatibus commune ".
 Dante individua questo vizio soprattutto nelle corti: " La meretrice che mai dall'ospizio/di Cesare non torse li occhi putti, / morte comune, delle corti vizio", [7].
A. Schopenhauer in Parerga e paralipomena dà una definizione efficace di questo sentimento meschino: " alla gloria dei meriti di alta specie si oppone l'invidia; l'invidia che vi si oppone fin dai primi passi, perfino quando si tratta di meriti di infimo grado e non si ritira fino all'ultimo; perciò appunto l'invidia contribuisce parecchio a peggiorare il corso del mondo, e Ariosto con ragione definisce la vita come
"questa assai più oscura che serena/ vita mortal, tutta d'invidia piena"[8].
L'invidia è appunto l'anima dell'alleanza dovunque fiorente e tacitamente stipulata, senza previa intesa, di tutti i mediocri contro il singolo individuo eccellente di qualsiasi specie"[9].
L'invidia di Salieri per il genio di Mozart è stata resa celebre dal film Amadeus di Forman. Alle spalle c'è un microdramma di Puskin (1799 - 1837) del quale cito alcune parole: "Sono invidioso. Invidio; con tormento, /Profondamente, invidio. O cielo! dunque/Dov'è giustizia, quando il sacro dono, /Quando il genio immortale non compenso/D'amore ardente, non di dedizione, /
Di sudori, di zelo, è, di preghiere. /Ma illumina la testa d'un ozioso/
Vagabondo, d'un folle? ... O Mozart, Mozart"[10].
La Zambrano definisce l'invidia "il male sacro tra tutti", quello "che di fronte al Dio assoluto grida non serviam, e che nell'uomo sarà l'invidia fraterna, "la prima forma di parentela"[11].


continua




[1] Nell'Ars Amatoria Ovidio afferma che è proprio l'eleganza a fargli preferire l'età moderna all'antica, presunta aurea: "prisca iuvent alios, ego me nunc denique natum/gratulor: haec aetas moribus apta meis" (III, 121 - 122) , i tempi antichi piacciano ad altri, io mi rallegro di essere nato ora, dopo tutto: questa è l'età adatta ai miei gusti, non perché, continua il Sulmonese, terre mari e monti sono stati domati dall'uomo, "sed quia cultus adest nec nostros mansit in annos/rusticitas priscis illa superstes avis " Ars, III, 127 - 128) , ma perché c'è eleganza e non è rimasta fino ai nostri anni quella rozzezza sopravvissuta agli avi antichi.
 Un cultus che include la coltura del corpo e dello spirito. 
[2] Per le Arpie cfr. Apollonio Rodio, Argonautiche, II, 289; poi Virgilio, Eneide, III, 225 - 258 e Dante, Inferno, XIII, 64 - 66. Per le Erinni cfr. le Eumenidi di Eschilo, vv. 130 - 132.
[3] I Guermantes, p. 82.
[4]Una scheda su questo argomento si trova nel mio Storiografi Greci.
[5]Plutarco, Vita di Alcibiade, 13.
[6]Tacito, Annales, XVI, 18.
[7]Inferno, XIII, vv. 64 - 66.
[8]Orlando furioso, IV, 1.
[9]TomoII, p. 61O.
[10]Mozart e Salieri.
[11] L'uomo e il divino, p. 241.