domenica 31 agosto 2025

Autori greci e i latini in Shakespeare. 3.


L’ingratitudine

L'ingratitudine dei vili viene stigmatizzata da Teognide quando afferma che è del tutto insensato il favore ( mataiotavth cavri") di chi fa del bene ai villani vili :" i\son kai; speivrein povnton aJlov" polih'" " (Silloge, vv. 105-106), è come seminare l'abisso del mare canuto[1].

Secondo Shakespeare fu l'ingratitudine, più forte delle braccia dei traditori, a vincere la resistenza del grande Cesare che allora cadde:"Ingratitude, more strong than traitors' arms,/quite vanquished him: then…great Caesar fell" (Giulio Cesare , III, 2). 

Gli ingrati sono tanti, eppure l’ingratitudine viene biasimata e detestata da quasi tutti.

Nel Tito Andronico, l'imperatrice Tamora, ex regina dei Goti, suggerisce all'imperatore Saturnino di prendere tempo prima di annientare la fazione di Tito che lo ha appoggiato nell'ascesa al trono: rischierebbe di essere soppiantato "for ingratitude,/Which Rome reputes to be a heinous sin" (I, 1), per ingratitudine che Roma considera essere un peccato odioso.

L'ingratitudine è anche una forma diffusa di disprezzo dell’ umanità, dell’altrui e della propria. Seneca: “ Torquet se ingratus et macerat; odit quae accipit quia redditurus sit Ep. 81, 23, l’ingrato si tormenta e strugge; odia i benefici ricevuti perché pensa  al momento di contraccambiarli. 

Lo nota pure il "collaborazionista" Céline che non si faceva pagare le visite mediche e subiva una gratitudine rovesciata:"Ero troppo compiacente con tutti, lo sapevo. Nessuno mi pagava. L’ho poi visitato gratis, soprattutto per curiosità. E' un torto. Le persone si vendicano dei favori che loro fate

 

La connessione organica tra il capo, la sua terra e perfino il cielo.

Secondo questo principio dell'unità del tutto, e, in particolare, per quello della connessione organica tra il Capo e la sua gente, nel prologo dell'Edipo re di Sofocle viene descritta la sterilità della terra tebana sconciata e resa malata dai delitti di Edipo, vero mivasma della sua povli" (v. 353);  nell' Antigone Tiresia accusa Creonte di essere la sorgente inquinata del male della città:" kai; tau'ta th'" sh'" ejk freno;" nosei' poli"" (v. 1015) e la città è ammalata di questo per la tua disposizione mentale. Creonte infatti ha ereditato da Edipo non solo il ruolo regale ma anche la funzione di mivasma, homo piacularis  che contamina la città.

Sappiamo anche da Omero[2] e da Esiodo[3], che i costumi, virtù, vizi e perfino malattie del capo si riverberano sulla sua terra per una sorta di responsabilità collettiva.

Sofocle nel Filottete rappresenta Neottolemo adirato con Odisseo che si è impadronito delle armi di Achille, spettanti a lui, figlio di Deidamia e del Pelide. Il ragazzo lamenta di essere stato espropriato dei suoi beni  pro;~ tou' kakivstou kajk kakw'n  jOdusseuv~ (384), dal peggiore di tutti, nato da malvagi, Odisseo. Eppure il giovane biasima ancora più tou;~ ejn tevlei (v. 385), quelli che sono al potere, civile e militare: “povli~ ga;r e[sti pa'sa tw'n hJgoumevnwn-stratov~ te suvmpa~, oiJ d j ajkosmou'nte~ brotw'n-didaskavlwn lovgoisi givgnontai kakoiv” (386-388), la città infatti è tutta di coloro che la governano e l’esercito pure, e quelli tra i mortali che si comportano male, diventano malvagi per le parole di chi li ammaestra. Una concezione pedagogica del potere. 

 

 Isocrate nell' Encomio di Elena[4], Isocrate chiama non capi ma pesti delle città (oujk a[rconta" ajlla; noshvmata tw'n povlewn,  34)  i despoti che cercano di dominare i concittadini con la forza

Analogamente Cicerone nella prima Catilinaria intima al suo nemico mortale di uscire da Roma portando via la contaminazione da lui stesso costituita  (purga urbem , 1, 10); quindi ringrazia gli dèi e in particolare Giove Statore: “quod hanc tam taetram, tam horribilem tamque infestam rei publicae pestem totiens effugimus” (1, 11), poiché siamo sfuggiti tante volte a questa peste tanto ripugnante, tanto spaventosa e tanto minacciosa per lo Stato. 

Anche Polibio[5] fa dipendere il carattere della città da quello dei suoi capi: ai tempi di Aristide e Pericle, Atene era generosa e meritava lode; sotto il governo di Cleone[6] e Carete[7] era crudele e degna di biasimo: ne deriva che i costumi della povli" cambiano con il variare di quelli dei governanti ("w{ste kai; tw'n povlewn e[qh tai'" tw'n proestwvtwn diaforai'" summetapivptein", Storie, IX, 23,  8). 

 

Ricordo l'Oedipus senecano dove il protagonista si accusa dicendo "fecimus coelum nocens ( v.36), abbiamo reso colpevole il cielo.

Nel  Macbeth[8], un nobile scozzese, Lennox riferisce quanto si dice sia avvenuto nella notte dell’assassinio del re:"some say the earth was feverous, and did shake" (II, 3), la terra era febbricitante e ha tremato. 

La città malata per antonomasia è Tebe: Dante chiama Pisa  "vituperio delle genti"[9] e "novella Tebe"[10] per la crudeltà della pena inflitta ai figli innocenti del conte Ugolino.

 

Il potere sfrondato dagli allori e grondante di lacrime e sangue

L’ipocrisia di Riccardo III e di Clitennestra

Riccardo III di Shakespeare è “un principe che ha letto il principe”[11]. Sentiamo le sue parole sulla necessaria ipocrisia dell’uomo di potere: “But then I sigh, and, with a piece of Scripture,-Tell them that God bids us do good for evil:-And thus i clothe my naked villainy-With odd old ends stol’n forth of Holy Writ,-And seem a saint, when most I play the devil” (Richard III, I, 3), ma allora io sospiro, e, con una citazione della Scrittura, dico loro che Dio ci ordina di rendere bene per male: e così io rivesto la mia nuda scelleratezza con occasionali vecchi ritagli sottratti alla Sacra Scrittura, e sembro un santo quanto più faccio il diavolo.

Pensate ai politici attuali che esitano e ritardano a condannare i massacri delle bambine e dei bambini poi dicono di essere cristiani.

Le parole bugiarde costituiscono il codice dell’uomo di potere.

Quando Clitennestra nell'Agamennone "afferma che il re ritrova in lei gunai'ka pisthvn, dwmavtwn kuvna, essa dice in realtà il contrario di ciò che sembra: gunai'k j a[piston, "una moglie infedele", che si è comportata come una cagna (606-7). Come nota lo scoliaste, kuvwn (la cagna) significa una donna che ha più di un uomo"[12].

 

La paura del tiranno Edipo e Riccardo II

La paura del despota metus tyranni: genitivo soggettivo e oggettivo

Nell' Edipo re  di Sofocle, Creonte mette in rilievo la paura che circonda il potere assoluto che pertanto non dovrebbe essere desiderabile da parte di una persona ragionevole:" Considera questo anzitutto, se ti sembra che uno potrebbe/scegliere di comandare con paura (a[rceinxu;n fovboisi)  piuttosto che/riposando tranquillo, se avrà proprio lo stesso potere. /Ed io dunque né per mia natura  desidero/ essere personalmente tiranno piuttosto che fare le cose del tiranno/né chiunque altro sia in grado di ragionare" (vv. 584-589).

Una paura a senso doppio sintetizzata bene da Creonte nell'Oedipus  di Seneca:" Qui sceptra duro saevus imperio regit,/timet timentes; metus in auctorem redit ". (vv. 703-704), chi tiene crudelmente lo scettro con dura tirannide, teme quelli che lo temono; la paura ricade su chi la incute

 

In forma meno sintetica Cicerone fa la stessa denuncia nel De officiis[13]: “Qui se metui volent, a quibus metuentur, eosdem metuant ipsi necesse est” ( II, 24), quelli che vorranno essere temuti, è inevitabile che essi stessi temano quelli dai quali saranno temuti.

 


 

 

Note

[1] L'immagine risale ad Alceo:"chi fa doni a una puttana è come se li gettasse nelle onde del mare canuto" (fr. 117 Voigt).   

[2] Un re buono, afferma lo stesso Ulisse nel XIX canto dell'Odissea. parlando con Penelope, porta il popolo alla prosperità:"Raggiunge l'ampio cielo la tua fama,/ come quella di un re irreprensibile che pio,/ regnando su molti uomini forti,/tenga alta la giustizia; allora la nera terra produce/ grano e orzo, gli alberi si appesantiscono di frutti,/figliano continuamente le greggi e il mare offre i pesci,/per il suo buon governo, insomma prosperano le genti sotto di lui" (vv. 108-114).

Il ribaltamento di questa situazione è il re negativo, cattivo e malato, che contamina la sua terra, rendendola sterile e sconciandola quale mivasma. Come si scopre essere il protagonista dell'Edipo re  che perciò si allontana da Tebe.

 

[3]  L'altro lato della stessa concezione secondo la quale il bene e il male di un solo uomo ridondano in favore e in danno di una città intero lo troviamo nel secondo archetipo della poesia greca, cioé in Esiodo (Opere, vv.240-244:"Pollavki kai; xuvmpasa povli" kakou' ajndro;" ajphuvra-oJv" ti" ajlitraivnh/ kai; ajtavsqala mhcanavatai.-Toi'sin d  j oujranovqen meg  j ejpevgage ph'ma Kronivwn-limo;n oJmou' kai; loimovn: ajpofqinuvqousi de; laoiv.-Oujde; gunai'ke" tivktousin, minuvqousi de; oi\koi", spesso anche un'intera città soffre per un uomo malvagio,/uno che si rende colpevole e architetta scelleratezze./Su di loro dal cielo il Cronide fa piombare grandi malanni,/fame e peste insieme,e le genti vanno in rovina,/le donne non fanno figli e le case diminuiscono". Infatti quando sbaglia solo Prometeo  tutti gli uomini pagano.

[4] Del 390 a. C.

[5] 200 ca-118 ca  a. C.

[6] Il famigerato demagogo bersagliato da Aristofane ed esecrato, probabilmente calunniato, da Tucidide. Fu il beniamino del popolo dopo la morte di Pericle, fino al 422 quando morì combattendo ad Anfipoli.

[7] Comandante della flotta ateniese ai tempi di Demostene

[8] 1605-1606.

[9] Inferno, XXXIII, 79.

69 Inferno XXXIII, 89.

[11] Jan Kott, Shakespeare nostro contemporaneo, p. 42.

[12] J. P. Vernant, Mito e tragedia nell'antica Grecia, p. 90

[13] Del 44 a. C.


Villa Fastiggi 31 agosto 2025 ore 9, 23 giovanni ghiselli

 

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