Per cambiare un poco argomento vediamo dei nessi tra Shakespeare e la letteratura antica. Shakespeare leggeva il latino mentre leggeva Plutarco tradotto in inglese da Thomas North (1535-1604) che aveva a sua volta tradotto la traduzione francese del vescovo Amyot (1559)
Catarsi e mimesi nell’Amleto di Shakespeare.
l’Amleto di Shakespeare dice: “I have heard-that guilty creatures, sitting at a play,-have, by the very cunning of the scene,-been struck so to the soul that presently-they have proclaim’d their malefactions” (Hamlet, II, 2), io ho udito che delle persone colpevoli, davanti a un dramma, sono state colpite, dall’abilità della scena, fin dentro l’anima, in maniera tale che hanno confessato subito i loro misfatti.
Non molto diversamente Aristotele nella Poetica
"La tragedia è dunque imitazione di azione seria e compiuta (mivmhsi~ pravxew~ spoudaiva~ kai; teleiva~) che, con una certa estensione e con parola ornata (hJdusmevnw/ lovgw/) ( …) di attori che agiscono e non attraverso un racconto, per mezzo di pietà e terrore, compie la purificazione da tali affezioni"(di j ejlevou kai; fovbou peraivnousa th;n tw'n toiouvtwn paqhmavtwn kavqarsin, 1449b, 28.
Più avanti anche la teoria della mimesi è espressa da Amleto che definisce “the purpose of playing”, lo scopo dell’arte drammatica: “ whose end, both at the first and now, was and is, to hold as ‘twere, the mirror up to nature” ( Hamlet, III, 2), il cui fine, all’inizio come ora, è sempre stato quello di reggere, per così dire, lo specchio alla natura.
Secondo Aristotele l'arte è essenzialmente mimèsi, imitazione della realtà e proprio per questo il teatro ne costituisce la quintessenza.
Nell’ Encomio di Elena di Gorgia ritroviamo fovboς kai e[leoς associate alla poesia
Chiamo e giudico la poesia tutta parola con metro lovgon e[conta mevtron, e in chi la ascolta si insinua frivkh perivfoboς, un brivido di terrore, una pietà con molte lacrime kai; e[leoς poluvdakruς e un rimpianto che accarezza il dolore kai; povqoς filopenqhvς. L’anima davanti a faccende di altri liete o tristi prova, attraverso le parole un’esperienza propria iJdivon ti pavqhma dia; tw'n lovgwn e[paqen hJ yuchv.
Amleto è il falso sciocco, come il Bruto di Tito Livio.
Cfr. Maurizio Bettini su Bruto (ossimoro vivente), poi anche Freud su Amleto che esiterebbe a uccidere lo zio l’assassino del padre e secondo marito della madre in quanto ha commesso proprio quello che proprio lui, il principe avrebbe desiderato fare.
Nel Racconto d’inverno, Ermione resuscitata dalla sua statua ricorda l’Alcesti di Euripide. Così Taisa nel Pericle principe di Tiro.
I naufragi (La Tempesta, Pericle principe di Tiro) fanno pensare al Satyricon: di fronte al cadavere dell’arcipirata Lica, Eumolpo dice:"si bene calculum ponas, ubique naufragium est " (115, 17), se fai bene i conti, il naufragio è dappertutto. Maria Zambrano afferma che l'uomo, da quando ha memoria e storia, ha sempre avuto nel fondo dell'animo il sentimento del naufragio e ricorda che il suo maestro Otega y Gasset nei suoi corsi su "La razòn vital" descriveva "la condizione di "naufragio" come la più umana della vita umana"[1].
La rassegnazione
Schopenhauer:"Shakespeare è molto più grande di Sofocle. In confronto all'Ifigenia di Goethe si potrebbe trovare quasi rozza e volgare quella di Euripide. Le Baccanti di Euripide sono un indegno pasticcio in onore dei sacerdoti pagani. Molti drammi antichi non hanno alcuna tendenza tragica; come l'Alcesti e l'Ifigenia fra i Tauri di Euripide; alcuni hanno motivi repellenti, o perfino nauseanti; come l'Antigone e il Filottete. Quasi tutti mostrano il genere umano sotto l'orribile dominio del caso e dell'errore, ma senza la rassegnazione da ciò provocata e di ciò redentrice. Tutto questo perché gli antichi non erano giunti ancora al sommo ed al fine della tragedia, anzi della concezione della vita in generale (…) Quindi l’esortazione alla rinunzia della volontà alla vita rimane la vera tendenza della tragedia[2]" .
La confusione come male e camuffamento dei mali.
Nelle Anime morte di Gogol’ (1842) un farabutto suggerisce di confondere le idee per rendere impossibile il compito di fare giustizia: “Confondere, confondere: e nient’altro…introdurre nel caso nuovi elementi estranei, che coinvolgano altri, complicare e nient’altro. E che si raccapezzi pure il funzionario pietroburghese incaricato. Che si raccapezzi…Mi creda, appena la situazione diventa critica, la prima cosa è confondere. Si può confondere, aggrovigliare tutto così bene che nessuno ci capirà nulla” (p. 375).
La confusione portata dal denaro latore anche di guerre.
Ancora a proposito di confusione, C. Marx, commenta Shakespeare[3] scrivendo che nel denaro il grande drammaturgo inglese rileva:"la divinità visibile, la trasformazione di tutte le caratteristiche umane e naturali nel loro contrario, la confusione universale e l'universale rovesciamento delle cose"[4].
Shakespeare: nel Romeo e Giulietta il protagonista, comprando un veleno, afferma che l'oro, preso in cambio dallo speziale, è "worse poison", un veleno peggiore, per l'anima degli uomini. Esso "commette in questo odioso mondo più assassinî, che non queste povere misture che tu non puoi vendere; io vendo a te del veleno, tu non ne hai venduto a me" (V, 1).
Tibullo [5] attribuisce la colpa della guerra al vizio dell'oro:" Quis fuit horrendos primus qui protulit enses? /Quam ferus et vere ferreus ille fuit!// Tum caedes hominum generi, tum proelia nata,/tum brevior dirae mortis aperta via est.// An nihil ille miser meruit; nos ad mala nostra/vertimus, in saevas quod dedit ille feras?//Divitis hoc vitium est auri, nec bella fuerunt,/faginus adstabat cum scyphus ante dapes " (I, 10, 1-8), Chi per primo ha tirato fuori le orrende spade? Oh quanto feroce e davvero ferreo[6] fu quello! Allora la strage nacque per il genere umano, allora la guerra, allora più breve si è aperta la via della morte tremenda. Oppure quel disgraziato non ebbe colpa; ma noi volgemmo a nostro danno quello che egli ci diede contro le belve feroci?
Questa è colpa del ricco oro, e non c'erano guerre quando una coppa di faggio stava davanti alle vivande. Era già l'età del business .
“Sebbene comporti le proprie determinazioni, le proprie logiche, le proprie razionalità, la Storia è anche irrazionale perché comporta rumori e furori, disordini e distruzioni. Si dovrebbero far copulare Marx e Shakespeare. In effetti i tragici greci, gli elisabettiani e, in particolare Shakespeare, hanno mostrato che le tragedie del potere erano tragedie della passione, dell’incoscienza, della dismisura umana”[7].
Sofocle e Shakespeare. Maggiore densità di Sofocle
Nietzsche:" Shakespeare..paragonato con Sofocle, è come una miniera piena di un'immensità di oro, piombo e ciottoli, mentre quello non è soltanto oro, ma oro anche lavorato nel modo più nobile, tale da far quasi dimenticare il suo valore come metallo"[8].
Dryden (1631-1700, scrittore della Restaurazione- quella di Carlo II Stuart 1660-1685 ) scrive che dal Troilo e Cressida di Shakespeare (1602) bisogna togliere cumuli di immondizie sotto cui giacciono molti eccellenti pensieri.
I versi di Sofocle si distinguono per la loro densità: ognuno di essi potrebbe essere commentato con un libro.
“La poesia fonda la sua potenza sulla compressione. Poeta in tedesco si dice Dichter, colui che rende le cose dicht (spesse, dense, compatte). L’immagine poetica comprime in un’istantanea un momento particolare caratteristico di un insieme più vasto, catturandone la profondità, la complessità, il senso e l’importanza”[9].
Shakespeare-Euripide (Eracle). Critiche agli dèi.
Anfitrione in Euripide: “In virtù io, sebbene mortale, supero te, dio grande: infatti i figli di Eracle io non li ho traditi.Tu sapevi entrare di nascosto nelle coltri, prendendoti i talami altrui mentre nessuno te li dava,ma non sai salvare i tuoi cari. Sei un dio stupido, oppure per natura non sei giusto"(Eracle, vv. 339-347).
“Sofocle misura la morale con la religione[10], Euripide invece la religione con la morale. C’è qui senza dubbio un elemento razionale, ma non è né preminente né decisivo, è invece il sentimento morale-aijdwv~ lo chiama il greco- che si rifiuta di attribuire agli dèi quelle azioni “che sono ignominiose per gli uomini”[11]…La convinzione che “ci sia qualcosa di corrotto” ( nosei`) nel modo in cui gli dèi governano il mondo[12] è espressa da Euripide in tanti passi…”[13].
Altrettanto fa il Pericle di Shakespeare quando Licorida gli annunzia la morte di Taisa
: “O you gods!/Why do you make us love your goodly gifts/And snatch them straight away? We here below/Recall not what we give, and therein may/Use honour with you” (Pericle, principe di Tiro[14], III, 1), Oh, voi dèi! Perché ci fate amare I vostri buoni doni, e subito ce li strappate via? Noi quaggiù non ci riprendiamo quello che diamo, e in questo possiamo competere in onore con voi.
Taisa però verrà resuscitata
Villa Fastiggi 30 agosto 2025 ore 17, 21 giovanni ghiselli.
p.s.
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[1] L'uomo e il divino , p.65 n. 9.
[2] A. Schopenhauer, Supplementi, p. 113.
[3] Il quale nel Timone d'Atene chiama l'oro "comune bagascia del genere umano"; l'universale mezzana che "profuma e imbalsama come un dì di Aprile quello che un ospedale di ulcerosi respingerebbe con nausea" (IV, 3)
[4] Manoscritti economico-filosofici del 1844, p. 154.
[5] Nato a Gabii o a Pedum , nel Lazio rurale fra il 55 e il 50 a. C., morto tra il 19 e il 18 a. C. Sotto il suo nome ci è giunto il Corpus tibullianum , tre libri di elegie. Sono sicuramente e autenticamente tibulliani i primi due che cantano l'amore per due donne, Delia e Nemesi. Il terzo libro che gli umanisti divisero in due parti è un' antologia di vari autori, compreso Tibullo. Quintiliano lo definisce tersus atque elegans maxime…auctor (Institutio oratoria , X, 93), l'autore più elegante e raffinato, nel campo dell'elegia dove i latini possono sfidare i Greci.
[6] Cfr. Erodoto:" ejpi; kakw'/ ajnqrwvpou sivdhro" ajneuvrhtai" (I, 68, 4), il ferro è stato inventato per la rovina dell'uomo
[7] E. Morin, L’identità umana, p. 207.
[8] Umano, troppo umano II , Opinioni e sentenze diverse, 162.
[9] Hilman, La forza del carattere, p. 70.
[10] Possiamo indicare una parentela spirituale tra Sofocle e Tolstoj che in Guerra e pace (p. 1607) scrive:" Per noi, con la misura del bene e del male dataci da Cristo, non esiste nulla di incommensurabile e non c'è grandezza là dove non c'è semplicità, bene, verità".
[11] Xenophan. fr. 11, 2.
[12] Iph. Taur. 1403; Troad. 27, 1042; Iph. Aul. 411.
[13] Nestle, Op. cit., p. 36.
[14] E’ il primo dei drammi romanzeschi (1608)
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