Nato a Cheronea nel 46 d.C., morì a Delfi nel 127 d.C. come sacerdote di quel famoso tempio. Ma è altrettanto certo che se da quel momento la Grecia diverrà provincia romana con capitale amministrativa Corinto; è altrettanto vero che Atene e Sparta rimarranno le vere capitali morali dell'Impero. Alfieri, Goethe, Foscolo e Manzoni, ma anche Shakespeare e Schiller, Mazzini e Mussolini, Carlyle e Napoleone, lo tengono sul comodino della camera da letto. Perfino Andrea Maffei, primo librettista di Verdi, cita Plutarco nel suo primo monologo d'aria del tenore dei Masnadieri, cantando questi ‘Quando io leggo Plutarco, ho noia e ho schifo di quest'età di imbelli...’ (1847).
Fu fama riflessa, visto che Plutarco scrisse di un nugolo di eroi greci e latini, da Alessandro a Cesare? O va detto qualcosa di più che lo distingua da un mero cronista? Vediamone la vita, segnalando però subito che lo spirito ellenistico alla sua nascita non era affatto cessato e che anzi il secolo primo dall'era cristiana è ancora di fatto impregnato di quella ideologia culturale. Invero, la sua vita non breve e le sue numerose opere non solo di natura storica costituiscono ancora oggi un patrimonio culturale che non si finisce mai di attingere. Cheronea era una città già famosa perché ivi Filippo II di Macedonia nel 338 a.C. aveva vinto l'ultima coalizione di città greche a guida di Atene, ledendo di fatto le libertà e le loro storiche autonomie. Sotto il principato di Claudio imperatore (46/50 d.C.), Plutarco studiò a Delfi da Ammonio Sacca di scuola platonica. Di famiglia medio borghese, legata alla gestione amministrativa della città, vantava un nonno e un padre che si erano opposti ad Antonio a favore di Ottaviano, durante l'ultima fase della terza guerra civile, chiusasi ad Azio, dove Ottaviano batté la flotta egiziana di Cleopatra.
Quella guerra civile aveva ridotto alla fame la Beozia, schierata compatta per il futuro primo imperatore. Ereditò dal nonno l'arguzia e la sapienza e dal padre l'alto senso morale pubblico e privato. Soprattutto dalle sue opere sappiamo di una carriera di segretario amministrativo del primo console romano in Beozia, sperimentando ‘quanto sa di sale lo pane altrui e com'è duro calle lo scendere e 'l salire per l'altrui scale’, direbbe Dante, tante erano le invidie e i rancori dei colleghi d'ufficio, missione per missione. Le giuste sofferenze del pio funzionario pubblico - nell'Italia moderna descritta dal Bersezio nelle Miserie 'd Monsù Travet - gli venivano lenite dai viaggi in Egitto e in Asia e a Roma, dove praticò la fiorente colonia commerciale greca e i salotti dell'epoca, studiando la lingua e la storia romana, convinto che l'indipendenza politica greca ormai era perduta, ma altresì certo che la grandezza culturale e morale l'avrebbe sempre mantenuta in posizione egemone, in quella metropoli multietnica che era la Roma dei Flavi. Filosofia, Letteratura e Storia erano i suoi campi di battaglia. Conosceva l'epicureismo, lo stoicismo e il cinismo, ma tributava maggiore fiducia in Platone e in Aristotele per lo spirito etico che queste scuole perseguivano, al fine di una vita saggia che egli stesso propagandava in quella società opulenta, ma gravida di corruzione e di vizi e che invano il tiranno Domiziano tentava di redimere.
Per esempio, chiamato a tenere conversazioni di filosofia morale su invito di un intellettuale stoico, Archeo Rustico, Plutarco tenne una relazione sul Dio unico della saggezza morale, sulla esistenza di un'anima dopo la morte, sulla ricerca del Bene e sul rifiuto del Male, credendo nella cultura come regola di vita e nell'amore per gli altri come principi di condotta. E se qualche messo imperiale lo avesse desiderato a Corte contro la sua volontà senza indugio, non smetteva di parlare se i presenti lo avessero pregato di non interrompere le sue riflessioni. Però Rustico lo ammoniva a stare attento nelle sue teorie e avvertiva che era meglio non divulgarle, ricordandogli la fine di Tacito e Plinio, caduti nella repressione di Nerone al tempo della congiura di Pisone. Quando però Domiziano assunse da solo la gestione del Potere mostrando il suo volto autocratico, il console Quinto Sofio Senecione, suo vecchio amico, lo spinse ad andare via, altrimenti confische, arresti e incarcerazioni lo avrebbero colto, fino anche alla morte. Tornato a Cheronea, sposatosi con Polissena, donna colta del paese, visse una maturità di studi classici, cominciando ad abbozzare le sue biografie, malgrado lutti familiari - la morte di una giovane figlia - e con non pochi contrasti con gli altri figli imbevuti di uno spirito materialista sul modello di Alcibiade. Ecco perché scrisse la sua prima opera, sull'origine dell'anima nel Timeo di Platone (92/93 d.c.). Poi aprì una sua Accademia di filosofia e storia dove confluirono molti giovano greci e romani. Un circolo universitario molto frequentato atto a implementare una cultura multietnica non di mero piacere materiale, ma di alto sentimento morale, ispirato all'impegno civile alternativo al puro stoicismo, rivolto piuttosto alla partecipazione nel mondo con attenzione, ma non di mero rifiuto. Certamente, gli giunse notizia di un suo coevo filosofo neoplatonico, Epitteto di Ierapoli, un Frigio che nell'Epiro teneva una scuola eclettica che distingueva il bene sociale dal male soggettivo. Gli fece impressione positiva la celebre massima sopporta il dolore e non cercare beni apparenti! Ma l'intima adesione a Platone e ad Aristotele lo spingeva anche all'impegno politico, mai domato nel suo animo, ben diversamente dall'amico ideale Epitteto, alieno da ogni orma di compromesso etico. Invece, nei Moralia (cioè le Opere morali, come vennero detti dal Leopardi nell'800) e nelle Vite parallele tale impegno di unità di vita e di fede in senso filantropico, lo portò ad assumere di nuovo cariche pubbliche. Singolare fu la materia adottata come campo d'azione pubblica, l'edilizia sociale, tantoché fu nominato ispettore di edilizia nei quartieri popolari di Cheronea. Si narra che a chi lo rimproverava di perdere tempo nel controllare i materiali nella loro resistenza alle intemperie, rispondeva che la cura cui era intento serviva all'edificio e ai giovani della sua scuola, ma anche alla Patria. Era dunque la negazione pratica del tornaconto personale l'esaltazione del bene per la Città, un'attività non ignobile, che parte dall'umile lavoro manuale al dignitosissimo lavoro del politico per l'interesse del bene pubblico (vd. Plutarco, Praecepta gerendae rei publicae, n. 15). Un piccolo breviario che anticipa la teoria di Weber sulla politica come professione e sulla vita del nostro grande politico, Sandro Pertini, non a caso muratore nell'esilio in Francia durante il Fascismo.
All'epoca di Traiano, la fama di Plutarco crebbe al punto che l'imperatore lo nominò console, ambasciatore e consigliere dei governatori della Grecia. I cc.dd. Apoftegmi (detti celebri) spediti con dedica a questi, provano di quanto seguito avesse riacquistato a Roma, anche con Adriano che lo volle, sia pure per breve tempo, procuratore della Grecia. Della sua famiglia Plutarco ebbe massimo rispetto, inculcando ai figli Autobulo e Plutarco il giovane la sincerità del dolore, la semplicità della genialità umana e la ricompensa del male ricevuto col bene dato senza pretesa di restituzione. Alla religione dei Padri, al Dio unico della Natura e dello Spirito, egli tributò il massimo del dovere quotidiano. Nominato anche pontefice massimo dell'oracolo di Delfi, procedette al suo restauro, riaprendo il culto di Apollo ora sostituito a quello di Dionisio, di cui la moglie di Plutarco era stata sacerdotessa in gioventù. Invero, la ripresa di Apollo derivava da uno stretto legame che Plutarco aveva rinvenuto negli scritti di Aristotele, dove il maestro di Stagira aveva ancorato l'antico oracolo nella sua forma più alta e più universale che fu la religione delfica. Legame fondato sulla Ragione e sull'Uomo, come dice il famosissimo motto - Conosci te stesso! - posto all'ingresso del tempio. Anzi, il nostro Autore nei suoi Dialoghi delfici, osò alternare agli oscuri riti misterici e al furore dionisiaco, la nuova luce della Ragione, emersa dalle tragedie di Euripide che secondo Nietzsche era alle fondamenta della sua Nascita della tragedia più favorevole alla tradizione dionisiaca. Un “appello alla Ragione e una preghiera al Dio ignoto” che dall'alto benignamente guida a fin di ben la vita quotidiana di tutti gli uomini e le donne, quando l'animo immortale non potrà non essere e premiata dopo la morte. Forse S. Paolo lesse tale appello nella notissima vicenda degli Atti degli apostoli, dove l'Apostolo parlò del “Dio ignoto” ad Atene identificandolo col Cristo Salvatore? Sia come sia, la leggenda parla di un sogno che il vecchio Plutarco ebbe poco prima di morire, quando quel Dio ignoto lo condusse non nel regno delle tenebre, quanto nel cielo di stelle che sovrasta il nostro animo, metafora che Kant riprenderà in pieno illuminismo.
A Delfi fra il 120 e il 125 d.C., non solo fu eretto un momento in sua memoria, ma anche poco lontano potrebbe giacere la sua tomba. Ma veniamo alle opere. Premesso che le Vite parallele son rimaste fonti essenziali per Shakespeare, Montaigne, Rousseau, Napoleone, Carlyle, Schiller, Alfieri e Nietzsche; sappiamo dal manuale scolastico del Rostagni, fra quelli noti in tutto e in parte, che circolavano 260 scritti e 300 libri. I due gruppi di opere più famosi riguardano le Vite parallele e i Moralia. Sulle prime è nota la figura di Cesare ripresa nella letteratura moderna e contemporanea, fra Shakespeare e Brecht. Invece, è interessante soffermarsi sugli scritti politici, nei suoi Consigli derivati dalle considerazioni filosofiche dei Moralia.
Qual era allora il suo pensiero politico? Vediamo il contesto storico intanto. Come è nota la storia della Grecia dopo Cheronea (338): prima il Regno di Filippo, poi l'Impero di Alessandro e quindi i Regni dei Diadochi (dal 323 al 197 a.C.); avevano instaurato tirannie a forme di autocrazie che avevano reso la democrazia ateniese poco più di un ricordo. Da qui era poi intervenuta la Roma tardo-repubblicana che si era trasformata in un impero oligarchico e conservatore, dove lo iato fra politica e democrazia era stato riempito dal solco autoritario già tracciato dai Macedoni. Plutarco dei suoi scritti ne era consapevole, ma non era affatto rassegnato. Il limite autoritario di Roma gli sembrava contingente. La storia della cultura democratica ad Atene e nella Roma repubblicana era sempre nei suoi pensieri. Del resto, in età moderna, anche Machiavelli non aveva affatto dimenticato i fasti dei Comuni del Medioevo più illuminato dell'età di Dante. Parallelamente, Plutarco aveva studiato le teorie degenerative della Repubblica di Platone, in cui ritornavano le soluzioni più antiche ai frazionismi interni ed esterni presenti ancora nella Grecia classica. Frazionismo, particolarismo, guerre civili da Atene a Pergamo, da Rodi alla Tessaglia, erano le malattie infantili della democrazia di Pericle e Cleone. Le Comunità, stanche di tali conflitti, avevano richiesto l'Uomo forte e poi lo Stato forte. Alessandro, Cesare, Domiziano, (e Mussolini, Hitler e via discorrendo...) erano la prova storica della degenerazione delle città verso la tirannia. Piuttosto, per Plutarco il politico dovrebbe avere due obiettivi generali, la sicurezza dei cittadini ed evitare forme di vanagloria personale. E cioè la pace, la libertà di espressione dell'avversario, lo sviluppo economico e quindi la pace sociale, senza contare la ricerca della crescita demografica assistita e protetta. Benché Tacito, suo coevo fosse stato dalla parte dei dominatori romani, tuttavia prima di morire era divenuto moderato proprio sulle Libertà.
Allora, Plutarco ricordava che quel valore non potesse essere mai negoziabile e che dunque la servitù andava progressivamente ridotta e poi annullata. Le persecuzioni che il nonno e il padre avevano subito da parte di Nerone e i rischi che egli aveva corso sotto Domiziano non erano stati dimenticati. Del resto, Traiano era un modello da seguire, un'età dove Principato e Libertà potevano ben convivere, senza trascendere nella anarchia che Plutarco ben conosceva dai suoi studi su Cesare e Alcibiade. Un atteggiamento del “giusto mezzo” che lo studioso di Cheronea traeva proprio dallo stesso Tacito, che nelle sue Storie e nell'Agricola non aveva del tutto obliato l'opera di riapertura del Senato quale voce del Popolo Romano. Traiano - e prima Nerva, capo indiscusso di quella Assemblea - aveva ricevuto da Plinio il Giovane un'investitura imperiale condizionata dalla riconoscenza del ruolo morale e di saggezza dei senatori. Piuttosto, la scelta etica dovrebbe albergare nel cuore di tali nobili ed esortare i più capaci a isolare i malvagi, soprattutto spiegare qual'è il ruolo che rivestono. Come scrive nell'An seni respublica gerenda sit (come i senatori dovrebbero reggere lo Stato): “non ci si pone a guidare gli affari pubblici, in modo superficiale, perché è complesso dare consigli ai Governanti. Infatti, costoro hanno paura di essere troppo razionali nella guida del Potere esecutivo, mostrando i loro limiti umani di convinzione ideologica e dunque essere spesso lontani dalla giustizia”. Frase del capitolo primo del saggio Ad principem ineruditum, che Max Weber ha ben reso nella nota distinzione fra ‘etica della responsabilità ed etica della convinzione’, che regola il manuale del politico contemporaneo qual è La politica come professione (1919) e che parecchi governanti italiani dovrebbero oggi ripassare. Perciò Plutarco nella citata operetta An seni respublica gerenda sit, implorava i politici affinché dominando non dimentichino il bene della Patria, loro che hanno già i ceppi ai piedi e che non abbiano paura ad assoggettare anche il collo, metafora che significa di non scaricare all'amministrazione e ai giudici l'esercizio di un Potere che solo essi perché vengono eletti, hanno il preciso compito di regolare. Altrimenti, la Libertà di ciascuno diventerebbe la Servitù per tutti. Ma venendo alle opere politiche più specifiche, va qui detto che la prima raccolta di Precetti ai Politici di Plutarco - disseminati in svariate fonti tratte da Varrone, da Giuba di Numidia e da Tito Livio per la storia Romana, mentre per quella greca spicca Erodoto, Senofonte e Tucidide, ma anche Diodoro Siculo per le vicende siciliane trascritte in opuscoli a carattere scolastico - rimarrà famosa l'edizione del 1797 che più significativamente la si chiama Precetti per ben dirigere lo Stato, tradotti e pubblicati a Torino, non a caso in coincidenza della Campagna d'Italia di Napoleone, probabilmente destinatati alle nuove autorità francesi. Infatti, il corpo centrale della raccolta riguardava quei suggerimenti politici più ampi di portata universale. Plutarco partiva da una considerazione centrale: se la politica estera, quella economica e quella interna sono in mano ai governatori romani, non resta che la giustizia locale e i rapporti con l'Imperatore e i suoi Governatori. Vale a dire, la politica amministrativa certamente, ma anche ‘la difesa del giusto e la tutela di chi non ha voce’. Il tutto con ragione e umanità!
Quindi, conoscere il territorio, gli abitanti e i loro bisogni. Qui entrano in gioco l'oratoria e anche la ricerca di un consenso sincero, la partecipazione ai dolori e alle gioie, stimolare le domande, chiedere dei bisogni, mai però promettere senza pensare che quanto assicurato sia comunque fattibile dopo le elezioni. E se poi la promessa resta tale senza effetti, sarebbe opportuno disporre un piano di recupero del possibile. Naturalmente, fare la gavetta presso qualche potente, come fece Pompeo per Silla o Alcibiade con Nicia, ma senza pendere dalle loro labbra, altrimenti si cadrebbe nella stessa rovina del maestro. Infatti Silone e Temistocle credettero in amici troppo corrotti e ne pagarono le conseguenze. Ancora: fare attenzione a non essere troppo amico o troppo nemico di qualcuno, né è opportuno pretendere di fare da solo, come il pilota che compie sì le operazioni di bordo più importanti e delicate. Il maestro non può essere un tiranno che non deve delegare a nessuno, a pena di errare e farsi invidie oppure subire vendette. Chi ha la carica più prestigiosa, deve sapere concedere l'esercizio del potere a chi più ha la virtù di gestirlo. Se manca questo carattere, la guida assunta decadrà presto, come avvenne per Pericle. Anche la conoscenza pragmatica dei fatti e le fonti delle leggi vanno sempre studiate. I tempi e le situazioni più calde vanno poi circoscritte e contenute, anche se ciò provoca gli insulti dell'opposizione e dello stesso partito di cui si appartiene.
In conclusione, il politico locale - ma anche quello centrale, non lo si dimentichi - deve essere misurato, onesto, semplice, diretto e mai sgarbato, freddo o calcolatore, ‘ma rivolto al Bene Comune. Pittaco, per esempio, uno dei 7 Sapienti greci, di fronte alla possibilità di acquisire proprietà che aveva tolto ai nemici e che aveva restituito ai concittadini di Mitilene, prese un giavellotto e lo lanciò, divenendo proprietario della terra fino alla quale era riuscito a scagliarlo. Il romano Coclite si limitò a occupare solo la terra che aveva arato, egli che era zoppo’. Aneddoti sulla sobrietà del politico erano presenti sia nei Moralia sia nelle Vite parallele, le opere che non potevano non influenzare il fior fiore di filosofi politici che lo seguiranno nel corso dei secoli, da Marco Aurelio, a Plotino, alla patristica cristiana, fino a San Tommaso e al francescano Bonaventura da Bagnoregio. Come si è detto però, le vite parallele di uomini illustri greci e romani rispetto ai Moralia hanno goduto di maggiore fortuna e sulle differenze fra Cesare contrapposto ad Alessandro (n. 31-32), secondo il catalogo di Lampria del III secolo, riemersero nel XII secolo e pubblicato dal filologo Max Treu nel 1873. Basti pensare all'elaborazione teatrale di Shakespeare e di Schiller per Le Vite. Ma i Moralia ebbero un'altra storia di recezione. Chi li citò - a volte per interposta persona - furono Erasmo da Rotterdam e Tommaso Moro durante il Rinascimento nordeuropeo. La comune formazione umanistica e il tentativo pedagogico di fornire un'educazione politica ai giovano eredi al trono, li portò a commentare il De Educatione liberorum tradotto da Plutarco in latino, come pure l'etica privata neostoicista nel controllo delle passioni del Montaigne.
Chi però nel 1502 parlò dei Moralia e Delle Vite ovviamente collegate dalla storia della politica classica, fu il Machiavelli, che proprio nel Principe riscopre le nefandezze e le brutture di un politico nel siracusano Agatocle, tiranno fra il IV e il III secolo, studiato dal fiorentino in occasione alle storie di Tito Livio. Orbene, proprio il rovesciamento del pensiero di Plutarco emergerebbe nell'episodio di Oliverotto da Fermo (1475-1502), rilevato dal Machiavelli nel Principe, quando appunto è la spietatezza e il cinismo a caratterizzare il politico dell'età moderna. Vediamo or dunque il caso: ufficiale al servizio del Valentino, diventa Signore di Fermo dopo aver ucciso lo zio materno signore di quella città. Ma come chi la fa l'aspetti, non appena complotta contro il Borgia, è da costui fatto aggredire a Senigallia. ‘Non di manco, la sua efferata crudeltà et immanità, con infinite scelleratezze, non consentirebbero che sia in fra li eccellentissimi uomini celebrato. Non si può a dunque attribuire alla fortuna od alla virtù quello che senza l'una o l'altra fu da lui conseguito. Quindi parrebbe che Agatocle e Oliverotto sarebbero oggi la coppia di eroi cui la virtù arridirebbe per salire al potere...’ Scrive Machiavelli però in una sua lettera che il puro politico può giungere all'impero, ma non alla gloria... spiegando piuttosto che la commissione di delitti fosse l'oggetto principale dell'azione governativa. E dunque, una cosa era ricostruire un fatto altro è apprezzarlo. E nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, Machiavelli dichiarava che un politico merita lodo se vuole giovare non a sé, ma al bene comune, non alla propria successione, ma alla comune patria. Un concetto che pur attribuito a Livio, è sicuramente conforme al pensiero di Plutarco. Tuttavia in un passo successivo, al par. II, parlando della Costituzione della Sparta di Licurgo, rilevava che le sue leggi chiaramente rinnovano il ‘Potere di loro due Re, agli ottimati, e al Popolo, onde fece uno Stato che durò più di ottocento anni, con somma laude sua e quiete di quella città. Al contrario avvenne a Solone Ateniese, che per ordinare anche lo Stato popolare, ebbe una breve vita al punto che prima che morisse, vi vide nate la Tirannide di Pisistrato...’ Paragone che prova quanto anche Machiavelli fosse tributario di Plutarco, considerato che tale passo è ben conforme alla Vita di Solone nel testo greco.
Insomma, il punto che qui vuole sottolineare è che il nostro storico era ‘eticamente impastato di virtù’ e può essere letto e riletto a doppia interpretazione, quasi un caleidoscopio di valori che brillano o si oscurano a seconda di chi lo cita. Infatti, uno storico italiano del primo '900, quando dispose per la Treccani a scrivere la relativa voce, non si spaventava a dire di affrontare quella relazione pur non avendo letto l'intero corpus delle opere, fra Vite e Moralia, bastandogli proprio l'ampia mole di interpretazione che storici, filosofi e letterati avevano prodotto per quasi duemila anni. E perciò fin dal 1935 (anno della voce di Arnaldo Momigliano) si partì dall'edizione francese di Jacques Amyot (1513-1593), fino alle varie edizioni - come quella del 1797 succitata) e poi ai richiami di Vittorio Alfieri del 1769 e di tutti i grandi autori romantici di primo '800, stante la natura non divisiva, ma non universalistica della sua lettura in ogni epoca. Del resto, il pensiero cristiano, di Eusebio di Cesarea (265-340 d.c.) a Chiara Lubich (1920-2008), fondatrice del movimento ecumenico di unità e fraternità universale dei Focolarini legato al Concilio Vaticano II, citava Plutarco fra i precursori della scelta dell'impegno politico come un atto d'amore aperto agli altri, proprio perché anche avversari politici, rispettosi dell'altro a sua volta erano convinti del proprio credo ideologico. ‘Il reciproco riconoscimento è la prima pietra del dialogo costruttivo fra gli uomini. E' la pietra d'angolo per la politica delle generazioni future che chiederanno le ragioni ai politici per come lo hanno gestito, non certo esprimere una mera gratitudine od un semplice dissenso’. Insomma questo ci pare lo spirito innovativo del Plutarco moralista, vale a dire non tanto un'etica che prevalga sulla politica, quanto un'etica che piuttosto funga da limite insuperabile per la Politica stessa. Una lettura di mediazione culturale nella società multiculturale di oggi.
Bibliografia
- Sulla vita e le opere di Plutarco, vd. KONRAT ZIEGLER, Plutarco, ed. Poideia, Brescia, 1965.
- In merito ai Moralia, vd. PLUTARCO, Il demone di Socrate, Introduzione di Dario del Corno, Milano, Adelphi, 1987.
- Sulla ricezione di Plutarco nei secoli, cfr. CARL SCHMITT, Dialogo sul potere, Adelphi, 2012, inteso come il Ciambellano che ti accompagna presso il politico che dovrebbe assicurare la sua protezione al suddito.
- Vd. Altresì, JOHANN GUSTAV DROYSE, Geschichte des Hellenismus, 2 voll, 1843 (tradotto e curato da Delio Cantimori, Firenze, Sansoni, 1943) e FURIO JESI; Letteratura e mito, Einaudi, Torino, 1968DUCCI,
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