La sera del 17 agosto arrivammo a Delfi. Cercai una casa nella ojdo~ jApovllwno~, invano. Così fummo costretti a ripiegare su una strada dal nome meno fatidico. Ifigenia mi rimproverò perché non avevo trovato un alloggio nella via con il nome della lieta divinità che nel sonno ci avrebbe svelato veracemente il futuro.
Risposi che nella via di Apollo la camera poteva continuare a cercarla lei anche per tutta la notte. Io ero talmente stanco di guidare l’automobile cercando di non consumare troppa benzina, e tanto annoiato dalle sue lamentele che mi accontentavo di dormire in un posto qualunque, purché non sporco. In effetti il signore di cui c’è l’oracolo a Delfi non ci fece antivedere il futuro nelle immagini oniriche.
La mattina seguente percorremmo la salita rocciosa, spinosa, infuocata del santuario: pregavamo Apollo di tenerci insieme ancora del tempo, abbracciati e fusi nell’arte. Ma il Peana rimase nascosto dentro l’ombelico del mondo o dietro le due cime del Parnaso, senza darci risposta.
Anche il sole sembrava soltanto una muta palla di fuoco.
Allora andammo a cercare presagi a Olimpia. Ci arrivammo di sera.
Appena trovato l’alloggio sgradito a Ifigenia siccome era un povero ostello della gioventù, la fastidiosa ragazza ebbe l’impertinenza di propormi dei salti in discoteca. Le risposi: “tu vuoi condurmi al martirio come fece Salomè con l’onesto Giovanni. Noi siamo venuti in Grecia a pregare, e se andassimo a intronarci in un luogo così miseramente, cos’ empiamente profano, daremmo da bere del veleno alla nostra sete di Dio”.
La sacrilega donna mugugnò qualche altra bestemmia con cupo rancore.
La mattina seguente del resto mi donò una scena simpatica. Appena desto dopo una dormita rasserenante, baciai la bellona sulla pancia abbronzata: Ifigenia, che non era desta del tutto, fece un movimento repentino, quindi spalancò gli occhi e sorrise. Era scattata come una gatta accarezzata sulla schiena, vicino alla coda. Rapida e inopinata, poco mancò che mi graffiasse.
“Se avessi visto come ti sei mossa, non potresti negare di essere una gatta”, le dissi
“Adesso capisco perché litighiamo tanto-ribatté- l’altro ieri tu hai rivelato la tua natura di vero cane, io oggi quella di tipica gatta”.
Aveva risposto bene e replicai dicendo: cagnoli e gattine possono anche amarsi . Ridemmo e facemmo l’amore più volte per scambiarci piacere e rendere onore al dio della gioia.
Alla brutta faccia dei furfanti bigotti che mi avevano terrorizzato quando ero bambino.
Anndammo nel sito delle antiche e nobili gare cantate al suono della dorica lira da Pindaro che ha eternato la fama degli agonisti vittoriosi. Anche noi due aspiravamo all’arte e alla gloria.
Ifigenia era bella e pensosa. Era davvero la mia compagna quel giorno. Ricordando il vate tebano, le dissi che noi, destinati comunque a morire, non dobbiamo aspettare nell’inerzia una vecchiaia inferma, diventare inutili pesi alla terra e fastidiosi fardelli a chi non fugge via lontano dallo spengersi della nostra breve candela, bensì acquistare ogni giorno energie nuove per potenziare sapienza e bellezza e fissarle con le parole, trattenerle dall’abisso orrido immenso dove precipiteranno i nostri corpi, per farle brillare sul mondo perché dai cuori delle donne e degli uomini zampilli il ricordo di Dio.
Ifigenia annuì in silenzio.
Eravamo nel recinto dei templi caduti sotto i pini che si levano al cielo e sussurrano arcane voci profetiche trasmesse dal vento caldo del Peloponneso alle orecchie delle persone devote.
Mi vennero in mente alcune parole della Sibilla Cumana da recitare a Ifigenia, la mia compagna sempre in bilico tra il bene dove poteva elevare anche me, e il male dove talora cercava di trascinarmi a precipizio con sé:
“facilis descensus Averno:
noctes atque dies patet atri ianua Ditis
sed revocare gradum superasque evadere ad auras,
hoc opus, hic labor est.
Dobbiamo farcela, conclusi”
Ifigenia approvò quanto aveva capito.
Quindi entrammo nel museo per vedere i frontoni raccolti. Soprattutto ci piacque e commosse la figura di Febo signore che si erge imperturbato sopra la zuffa dei Lapiti con i Centauri ubriachi, violenti e immondi profanatori delle nozze del re Piritoo con Ippodamia.
“Dobbiamo trovare anche noi la forza di elevarci sopra il caos degli istinti cattivi e nocivi, se vogliamo trovare una nobile identità umana e la bellezza imperitura dell’arte”. Eravamo d’accordo,
Sostammo pensosi anche davanti al frontone orientale e all’Ermes di Prassitele, quindi attraversammo il Peloponneso fino a Sparta. Qui non c’era niente di bello tranne certe fanciulle robuste e fiere.
Mi fecero venire in mente le antiche ragazze che correvano lungo l’Eurota saltando come puledre e scagliando verso il cielo le chiome odorose prima di stendersi stanche, sparpagliate nell’erba qua e là.
In un piccolo museo c’era solo un oplita desolato e meschino.
Ifigenia mi domandò se gli Spartani avessero lasciato qualcosa di bello.
Le recitai alcuni versi di Alcmane rimastimi impressi nella memoria fin dal liceo. Un notturno dei più belli:
"Dormono le cime dei monti e i burroni
e le balze e anche le gole
e la selva e gli animali quante ne nutre la nera terra
le fiere montane e la stirpe delle api
e i mostri negli abissi del mare purpureo;
dormono le razze degli uccelli dalle ampie ali".
Verso le sei del pomeriggio partimmo. Tre ore più tardi arrivammo a Epidauro appena in tempo per vedere l’antico teatro. Lo chiusero presto facendoci fretta. Non potemmo commuoverci sentendo l’emozione del luogo sacro dove avremmo voluto celebrare una sacra unione tra noi, una specie di pur provvisoria e precaria ierogamia.
Oltretutto eravamo digiuni dalla sera precedente e poco provvisti di denaro necessario a sfamarci. Tuttavia non potemmo resistere e spendemmo più del consentito dai conti meschini e pur doverosi.
Pesaro 6 ottobre 2024 ore 9, 58 giovanni ghiselli
p. s.
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