sabato 8 settembre 2012

"Bella addormentata" di Bellocchio - di Giovanni Ghiselli



Il film di Bellocchio, un film bello, raffigura un mondo pieno di confusione, di oscurità e di dolore. Alla fine la luce della speranza viene dalla coerenza, dalla carità e dall’amore.

Amore per l’umanità sofferente. Quello di cui sentiamo il bisogno.

In un certo modo il regista piacentino è tornato alla tematica di I pugni in tasca, mostrando un’umanità fatta in parte di psicopatici, maniaci e sofferenti, in parte di opportunisti. Questa volta però non mancano i personaggi positivi e la conclusione lascia aperto il vaso della speranza.

Il filo conduttore è la vicenda di Eluana che occupò le cronache per mesi e si risolse con la liberazione della ragazza da una vita-non vita.

Da questa storia di fondo ne escono altre.

Una è la crisi di coscienza di un senatore ex socialista, fatto eleggere da Berlusconi. Questo parlamentare, interpretato da Toni Servillo, bene come sa fare lui, decide di non votare con i suoi colleghi berlusconiani per l’accanimento terapeutico, ma di seguire la propria coscienza e mantenere la propria coerenza: un esempio assai raro di politico che antepone la sua dignità di uomo agli interessi della carriera e del guadagno. Interessi meschini oltretutto. In una scena di sapore felliniano si vedono dei parlamentari disfatti,  semiimmersi una specie di calidarium dove uno psichiatra denuncia le loro tare mentali dovute alle innumerevoli frustrazioni, in primis alla consapevolezza di non valere e non contare più niente.

La figlia del senatore in crisi di coscienza, una ragazza stranita, interpretata da Alba Rohrwacher, intruppata con i partigiani del tenere in vita Eluana a tutti i costi, lo sfugge poiché lo ha visto aiutare a morire  sua madre e moglie di lui, senza sapere che la donna glielo aveva chiesto e senza avere capito che il padre  aveva compiuto un doloroso atto d’amore.

Poi c’è una donna, un’ex grande attrice (la Huppert, sempre brava) che ha rinunciato a recitare, in pratica a vivere, per occuparsi della figlia in coma.

La madre, per seguire questa ragazza viva-non viva, senza del resto potere aiutarla, trascura l’altro figlio, un maschio che vorrebbe diventare un ottimo attore a sua volta, e tenta di porre fine alla vita della sorella, ma, diversamente da Alessandro di I pugni in tasca, non ci riesce poiché ne viene impedito. Questa a parer mio è la parte più debole del film.

Infine la terza storia, quella della donna drogata (Maya Sansa, brava e pure bella) con manìe suicide. Viene sorvegliata, aiutata e salvata da un medico umano (Piergiorgio Bellocchio dalla recitazione dignitosa), che  se ne cura oltre i doveri professionali, “per umanità”, come dice lui stesso,.

Il film passa da una di queste storie all’altra, mentre su ciascuna arrivano notizie relative alle ultime ore di Eluana e ai contrasti, agli eventi innescati da questa vicenda. Il film è bello dicevo, è molto bello, e lascia un messaggio di speranza. La figlia del senatore capisce l’amore del padre suo in seguito alla pur brevissima esperienza amorosa fatta con un ragazzo anche lui inquieto per la presenza di un fratello squilibrato e di una madre problematica. Lui fugge ma la ragazza attraverso questa rapida storia comprende: attraverso l’amore, la comprensione.

E’ vero che tante volte è la mancanza totale di amore che rende incapaci di capire.

Si impara ad amare solo quando si viene amati.

 Meno rasserenata è la storia dell’attrice rinunciataria, impietrita in una parte di madre dolente che costituisce la sua recita estrema a scapito del figlio e del marito, senza alcun beneficio per la ragazza in coma.

Molto bella e intensa è  la storia della drogata, accattona e ladra per giunta, una disgraziata totale. Il medico sa di essere uomo, cosa che tanti uomini invero dimenticano, e fa di tutto per aiutare la giovane donna ricoverata in ospedale dopo un tentativo di suicidio.

Il dottore la trattiene da un secondo conato di morte volontaria afferrandola per le gambe mentre tenta di gettarsi dalla finestra, quindi le parla, la ascolta, le fa capire che la sua persona non è spregevole e non deve essere buttata via come spazzatura. Durante un alterco, lei gli propone “una scopata”. Lui la rifiuta perché “troppo facile”, e la donna  chiede se gli  faccia schifo, sicura di fargliene. Il medico risponde con calma di no, poi, quando lei si addormenta, la bacia con delicatezza, senza svegliarla. Quindi si assopisce lui, mentre lei si sveglia e apre la finestra come per  buttarsi di sotto. Ma vede, guarda il cielo e non lo fa. Questa scena è splendida, in senso proprio: è piena di luce.

L’anno scorso parlai con Bellocchio a Bobbio, il suo festival cinematografico. Gli chiesi che rapporto avesse con la tragedia greca.

 Disse che si era accostato  tardi ai classici greci. Eppure, non so se per caso o volutamente, in questo film ho trovato due analogie con le ultime due tragedie del teatro greco classico: l’Edipo a Colono di Sofocle e le Baccanti di Euripide, rappresentate entrambe alla fine della guerra del Peloponneso.

Nel primo dramma, Edipo  giunto a Colono, un sobborgo di Atene, dopo essersi scoperto incestuoso e parricida, essersi cavato gli occhi, ed essere stato allontanato dalla sua Tebe come peste, bandito e cacciato perfino dai figli maschi, viene invece accolto da Teseo, il re della regione dove si è rifugiato sorretto dalla figliola Antigone.

 “Perché lo fai?”, domanda il vecchio cieco al signore dell’Attica. “Perché so di essere uomo”, risponde Teseo, siccome ho sofferto anche io, e comprendo che le sofferenze riguardano tutti. Ebbene, i personaggi del film, in particolare il medico e il senatore, provano, condividono il dolore degli altri e sentono la carità.

Bellocchio certamente non è un uomo di chiesa, con la quale anzi è polemico, ma è uomo religioso nel senso che ha la percezione dell’anima.

Passo alle Baccanti e concludo. Nella parte finale della tragedia di Euripide, Agave, la madre che, invasata da Dioniso, durante la fase acuta del delirio, ha fatto a pezzi il proprio figlio Penteo senza rendersene conto, torna in sé quando, sollecitata da suo padre, Cadmo, guarda il cielo.

E’ quello che fa la drogata come apre la finestra. Ha sentito l’attenzione affettuosa del medico che è pure uomo, ha visto la luce dell’etere, ha avuto il presentimento dell’infinito, e non si butta di sotto. Torna nel suo letto. Quando anche il dottore si sveglia le due persone si guardano e si riconoscono.

Penso che questo film meriti di essere premiato.        






Giovanni Ghiselli   g.ghiselli@tin.it

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