In febbraio non ne potevo più della piattezza dell’ambiente dove vivevo, dello stare chiuso in casa o a scuola, e mi presi una settimana di pausa da passare a Moena, tra i monti antropomorfi della mia infanzia. Partìi a mezzo il giorno del 24 incoraggiato da buone previsioni del tempo lassù. A Bologna l’aria era fosca ma già a Trento il cielo era tutto visibile e luminoso. Quando entrai nella valle di Fiemme i monti innevati scintillavano di luce pulita anche se declinante, oramai radente i tronchi degli alberi. A Cavalese il sole vicino al tramonto toccava con dita di rosa i tetti aguzzi delle case più alte. Mezz’ora più tardi arrivai a Moena. Erano quasi le cinque e la mano santa del dio aveva lasciato tutta la valle di Fassa dopo la carezza della buona notte, però le cime dei monti continuavano a baciare le lunghe dita della luce mentre i larici e gli abeti dei boschi supremi, non più aggravati dal gelo, sembravano alzarsi in punta di piedi per cogliere gli ultimi raggi sfuggenti che si attardavano solo sulle rocce somme rendendole belle ed espressive come il volto di una donna intelligente e buona per avere compreso che non si deve fare male a nessuno, nemmeno ai nemici. Provai un moto di compassione verso la meschinità delle persone che cercavano di danneggiarmi.
Il paesaggio che aveva già confortato la mia infanzia trenta anni prima mi diceva che potevo essere lieto: l’inverno era quasi finito e la primavera era prossima a respingerlo, a cacciarlo via per tanto tempo, se alle cinque della sera quel colore di femmina umana, quel rosa vivo, quasi carneo, poteva resistere ancora agli attacchi del buio che, certo, avanzava, ma senza la forza e l’impeto travolgente che aveva avuto nei tre mesi precedenti quando, passate le quattro, il cielo si acceca lugubramente, le campane suonano a morto perché in quel tempo la gente lascia più spesso e meno malvolentieri la terra, come mi disse un becchino cortese del cimitero di Sansepolcro quando nel gennaio del 1978 accompagnai la nonna Margherita all’eterno riposo, pieno di gratitudine verso la carissima avia non solo e non tanto perché mi aveva lasciato un quarto della sua terra e avrebbe voluto lasciarmela tutta se avesse potuto, quanto per l’affetto più che materno, con il quale mi aveva sempre aiutato e per la stima che mi aveva confortato a diventare quello che sono, chunque io sia.
Pesaro 3 ottobre 2024 ore 11, 44 giovanni ghiselli
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