A Ierone Etneo vincitore con il carro.
Ierone vinse la corsa delle quadrighe a Delfi nel 470 –ventinovesima Pitiade.
Vediamo un poco di storia della Sicilia grecizzata da Greci-Dori
Nel 470 Ierone era all’ apice del potere tirannico su Siracusa ereditato dal fratello Gelone signore di Gela dal 491 al 485.
Nel 485 Gelone si impossessò anche di Siracusa riconducendo in città i proprietari terrieri cacciati dal popolo.
Al comando di Gela passò il fratello Ierone dove regnò fino al 478.
Alla morte di Gelone, Ierone diventò anche signore di Siracusa (478- 466)
Questi figli di Dinomene dominavano la costa orientale esclusa Catania.
Gelone e Ierone avevano altri due fratelli Polizelo e Trasibulo.
Gelone sposò una figlia di Terone di Agrigento con il quale sconfisse i Cartaginesi a Imera nel 480.
Questa vittoria è fatta coincidere cronologicamente con quella di Salamina e di entrambe alcuni dicono che se i Greci non le avessero vinte, la storia europea sarebbe cambiata.
Quella culturale di certo perché i Greci hanno colonizzato Roma culturalmente e Roma attraverso la propria lingua ha trasmesso la cultura greca all’Europa.
Gelone morì nel 478 e a Siracusa gli succedette Ierone che morirà nel 466.
Questa Pitica I ricorda le imprese riportate dai due fratelli figli di Dinomene. La famiglia dei Dinomenidi proveniva da Telo, un’isola vicina a Rodi.
Gelone aveva sconfitto i Cartaginesi nella battaglia di Imera del 480 quando era tiranno di Siracusa alleato con altri sicelioti tra cui Terone tiranno di Agrigento. A questa battaglia parteciparono anche Ierone e gli altri fratelli Polizelo e Trasibulo.
Con questa vittoria- di Imera- Siracusa divenne una potenza navale. Con il bottino Gelone fece grandi donativi a Delfi e Olimpia.
Nel 476-475 Ierone I fondò Etna dopo avere trasferito a Leontini gli abitanti di Nasso e di Catania che erano di stirpe ionica.
La nuova colonia-Etna- fu popolata da greci dorici e prese il nome dal Vulcano sovrastante. Il figlio di Ierone, Dinomene, fu nominato reggente di Etna.
L’impresa militare più rilevante di Ierone fu la vittoria navale di Cuma riportata sugli Etruschi nel 474 . Quindi insediò un presidio Siracusano nell’isola di Pitecussa-oggi Ischia- che però venne abbandonata per i fenomeni eruttivi.
Pindaro Pitica I-
L’ode che ora vedremo consta di cinque triadi con strofe e antistrofe di sei versi, l’epodo di dieci.
Ora traduciamo e commentiamo la prima strofe e la prima antistrofe che sono rivolte alla cetra, lo strumento eptacorde di Apollo e degli aedi.
Strofe I
Cetra d’oro- Crusiva formigx- possesso comune di Apollo
e delle Muse dai riccioli di viola
cfr- Alceo sacra Saffo dolce ridente dalle trecce di viola- ijoplovk j (e) fr. 63 D.
che ai passi di danza attendi, principio di festa,
i cantori obbediscono ai segni musicali
quando vibrando fai nascere gli accordi iniziali-ajmbola;~ proimnivwn-
dei preludi che guidano i cori.
L’invocazione alla cetra celebra la musica, l’elemento unificante, dionisiaco, che suscita amore, ordine e pace.
E spengi il fulmine acuminato
di fuoco che scorre continuamente.
Dorme sullo scettro di Zeus l’aquila, eu[dei dj ajna; ska/vptw/ Di`o~ aijetov~-
abbassata da una parte e dall’altra l’ala veloce.
L’aquila bellicosa diventa pacifica.
“L’uccel di Giove” (Dante Purgatorio, XXXII, 112); “il santo uccello” (Dante Paradiso, XVII, 72); lo Iovis ales di Virgilio ( Eneide, I. 394), insomma l’aquila, non tiene sempre le ali aperte significando volontà di appropriazione imperiale voluta da dio. Quando sente la musica che spinge gli umani all’unità tra loro e con la natura, piega le ali e si ammansisce.
Dante nel VI canto del Paradiso racconta il volo dell’aquila “il sacrosanto segno” v. 32 di tutti i successi imperiali conseguiti con una serie di guerre.
Celebra perfino la distruzione di Gerusalemme operata da Tito nel 70 d. C.
Tutt’altra è questa aquila
Torniamo dunque all’aquila di Pindaro
Antistrofe I
Sovrana tra gli alati- ajrco;~ oijwnw`n- però tu (alla cetra) - sul suo capo –dell’aquila-
rostrato hai versato una nuvola di nero aspetto,
dolce serrame delle palpebre, e quindi assopita (l’aquila)
solleva il morbido dorso
posseduta dai tuoi suoni teai`~ rJipai`~ katascovmeno~-. Anche Ares
possente infatti lasciando lungi
l’aspra punta delle lance, molcisce il cuore ijaivnei kardivan kwvmati
in un sonno profondo; i tuoi strali –della cetra che lancia (rivptei i suoni)
affascinano anche le menti dei numi
con la sapienza del figlio di Latona
e delle Muse dalle ampie sinuosità.
La cetra e la sua musica sono ispiratrici e foriere di pace, al punto che Ares- chiamato da Eschilo “il cambiavalute dei corpi”,
da Sofocle il dio disonorato tra gli dei-
viene addormentato e placato dalla musica come il grande uccello rapace, dai voli fulminei.
Nel primo stasimo dell'Agamennone di Eschilo il coro di vecchi Argivi definisce Ares il dio della guerra "oJ crusamoibo;" d j [Arh" swmavtwn"(v.437), il cambiavalute dei corpi.
A causa sua
"invece di uomini
urne e cenere giungono
alla casa di ciascuno"(434-436). ajnti; de; fwtw`n-teuvch kai; spodo;~ eij~ eJkav-stou dovmou~ ajfiknei`tai (434-436).
Sofocle nella Parodo dell’Edipo re invoca gli dèi dell’ordine cosmico, dell’arte, del benessere e degli agoni ginnici- Zeus, Apollo, Minerva, Artemide-, mentre depreca, cioè prega che si allontani con una corsa retrograda, precipitosa, Ares il dio della guerra-to;n malerovn, il violento (190), to;n ajpovtimon ejn qeoi`~ qeovn, il dio disonorato tra gli dèi (215).
.
Epodo 1
Ma quanti Zeus non ama si spaventano udendo
Il canto delle Pieridi boa;n Pierivdwn-
-quanti temono la poesia e la musica sono gli eterni enmici della cultura: Giganti, Titani, ibridi e mostri vari-
sulla terra e il mare invincibile
e anche quello che giace nel Tartaro, nemico degli dei,
Tifone dalle cento teste, che un tempo
l’antro della Cilicia famoso nutriva
e ora le coste cinte dal mare
oltre Cuma,
e la Sicilia schiacciano il suo
petto villoso, e anche la colonna del cielo- kiwvn d’ ouraniva-
comprime,
l’Etna nevosa,
nutrice perenne
di ghiaccio pungente-civono~ ojxeia~-
La voce delle Pieridi dunque, le Muse nate nella Pieria, regione alle falde dell’Olimpo, spaventano i nemici di Zeus. L’arte disturba chi non la capisce né la sente: presenta un mondo del tutto diverso dal loro.
Gli artisti invece continuano a dire: “Pergite, Pierides”, avanti Pieridi! (Virgilio, Ecloga VI, 13)
Tifone, abitatore degli antri Cilici, suscitò la pietà di Prometeo quando lo vide soggiogato a forza dopo essere stato sconfitto da Zeus. E ora è gravato dalle radici dell’Etna (Eschilo, Prometeo incatenato, 351- 365)
Pindaro menziona la Cilicia, la Campania e la Sicilia cercando di conciliare versione diverse del mito. Ho ricordato Eschilo perché amo la tragedia.
La colonna del cielo accosta l’Etna al mito di Atlante ricordato dal Prometeo di Eschilo subito prima di quello di Tifone citato sopra. Prometeo è tormentato da questo ricordo del fratello Atlante. Questi sono i Titani che hanno cercato di sconvolgere l’ordine imposto da Zeus e sono stati sconfitti.
L’assonanza kiwvn- civono~ genitivo di civwn- colonna- neve, gelo- mi fa pensare, arbitrariamente, a quanto possono essere scivolose tante colonne che sembrano sostegni di uno Stato mentre fanno spesso precipitare chi vi è salito sopra.
Strofe II
Viene descritta un’eruzione dell’Etna. Tale e[kfrasi~ si ritrova in diversi altri testi a partire dal Prometeo incatenato di Eschilo.
Traduciamo intanto le parole di questa seconda strofe :
“Dai suoi recessi (dell’Etna) eruttano fonti misteriche aJgnovtatai pagaiv-
di fuoco inaccostabile; fiumi –potamoiv-
nel giorno riversano una corrente di fumo
fulva, ma nelle notti la fiamma purpurea
rotolando porta dei massi
alla distesa profonda del mare con fragore.
Quella fiera kei`no e{rpetovn (Tifone) solleva
spaventosi zampilli di Efesto,
mostruosità mirabile- qevra~ qaumavsion- a vedersi,
meraviglia anche a udirsi dai presenti, qau`ma de kai; akou`sai- cfr. il nesso-meraviglia-filosofia-mito
ajgnov~, qui al superlativo, significa “santo”: letteralmente sarebbe santissime. Ho tradotto misteriche per fare una sincrasi tra santo e misterioso.
potamoiv : cfr. potamoi; purov~ del Prometeo incatenato di Eschilo citato sotto.
e{rpetovn ha la stessa radice indoeuropea *serp- del latino serpo e indica un animale che striscia, con allusione alla forma serpentina di Tifone che Esiodo descrive come un mostro dalle cui spalle spuntavano cento teste di serpente, terribile drago (Teogonia 825).
Dicevo del Prometeo incatenato di Eschilo che descrive un’eruzione dell’Etna. L’Incatenato racconta che dal vulcano escono fiumi di fuoco potamoi; purov~- i quali con mandibole feroci divorano i campi fecondi della Sicilia- vv. 367- 368.
E’ l’ira di Tifone /369) che fa traboccare tempeste ignèe con strali ardenti
Non si conosce la data del Prometeo incatenato e non si dà per certa nemmeno la paternità eschilea di questa tragedia ma sono convinto sia opera di Eschilo e non escludo che i due poeti si siano consultati.
Ricordo che il drammaturgo, dopo i Persiani del 472, si recò a Siracusa ospite di Ierone e compose le Etnee per celebrare la fondazione di Etna. In quegli anni la corte di Ierone era frequentata anche da Pindaro, Simonide e Bacchilide, Epicarmo.
Quindi il tragediografo tornò ad Atene dove rappresentò l’Orestea (458)
Dopo di che tornò in Sicilia, a Gela dove morì nel 456 a 69 anni.
In quel tempo i Dinomenidi avevano perso il potere a Siracusa.
Antistrofe II
-meraviglia a udirsi- come (la terribile fiera Tifone ) si trovi incatenata tra le cime dell’Etna nera di foglie
e il suolo, e il giaciglio lacerando strazia
tutto il dorso disteso.
Sia dato, Zeus, sia dato di piacerti, tin j ei[h ajndavnein
tu che governi questa montagna ,
fronte – mevtwpon- di una terra ferace-eujkavrpoio gaiva~-
del cui nome-Etna- il fondatore illustre onorò
la città vicina: nella corsa di Pito
l’araldo la nominò dando l’annuncio
per Ierone dalla bella vittoria.
Viene glorificata la vittoria pitica a Delfi e la fondazione della città di Etna che prende il nome del grande vulcano, fronte- mevtwpon- della Sicilia come la fronte si erge sul viso.
Epodo II
nella corsa-ejn drovmw/- dei carri. Agli uomini che intraprendono
un viaggio per nave la prima gioia è che giunga un vento
che conduca la nave: è verosimile infatti
che anche nell’esito potrebbero ottenere un migliore ritorno.
Forse perché il vento propizio, che batte sulla poppa di una nave o sulla schiena di un ciclista, è un segno del favore divino, e questo, quando c’è, non cambia quando muta la direzione del moto.
Il discorso in tali eventi comporta la credenza
che nell’avvenire la città-Etna- sarà celebre per le corone e i cavalli
e rinomata per le feste allietate dai canti- ojnomasta;n su;n eujfwvnoi~ qalivai~- Talìa è anche una delle Muse, quella della commedia..
Non posso astenermi dal rilevare la festività greca da contrapporre alle tetre superstizioni di altre culture.
Una festività agonostica o un agonismo festivo.
Ricordo Tucidide II, 38, 1, un paragrafo del lovgoς ejpitavfioς attribuito a Pericle.
Essere cittadino impegnato non significa non avere svaghi. Ad Atene vige una festività agonistica: abbiamo procurato pleivstaς ajnapauvlaς th/` gnwvmh/ moltissimi sollievi allo spirito, ajgw`si mevn ge qusivaiς diethvsioς con agoni e feste sacre che durano tutto l’anno (Grandi Dionisie in primavera, Dionisie rurali e Lenee d’inverno) e anche con eleganti arredi privati il cui piacere quotidiano di queste cose scaccia il dolore.
Insomma non circenses empi- mera omicidia (Seneca) e volgari, bensì teatro quale festa e quale rito che pone l’uomo e dio, e la polis e la politica come problemi.
Atene riceve ogni cosa da tutta la terra per la sua potenza. La fruizione dei beni quindi non è solo quella di prodotti locali (Tucidide, II, 38, 2)
Offriamo la nostra città come bene comune- th;n ga;r povlin koinh;n parevcomen- per chi vuole imparare o assistere ai nostri spettacoli.
Non pratichiamo xenhlasiva (xenhlatevw, xevnoς- ejlauvnw) il bando degli stranieri, quindi non escludiamo alcuno dall’imparare o dal vedere (kai; oujk ajpeivrgomevn tina h} maqhvmatoς h} qeavmatoς (Tucidide, II, 39, 1), anche se il nemico se ne può avvantaggiare.
Post
Gran parte delle cronache quotidiane sono relative a omicidi.
A chi approva i mera homicidia, omicidi veri e propri, inflitti da abominosi ordigni , droni, aerei, automobili, ricordo un passo di Tucidide (II, 38, 1 ss.) un paragrafo del lovgoς ejpitavfioς attribuito a Pericle.
Ad Atene, dice lo statista, vige una festività agonistica: abbiamo procurato pleivstaς ajnapauvlaς th/` gnwvmh/ moltissimi sollievi allo spirito, ajgw`si mevn ge qusivaiς diethvsioς con agoni e feste sacre che durano tutto l’anno (Grandi Dionisie in primavera, Dionisie rurali e Lenee d’inverno) e anche con eleganti arredi privati il cui piacere quotidiano scaccia il dolore.
Insomma gli intrattenimenti ateniesi non sono volgari e sadici come saranno i circenses romani dove si assisterà a mera homicidia secondo la denuncia di Seneca, (Ep. 7, 3) bensì spettacoli eletti per il popolo di una città colta, un rito anche religioso che presenta l’uomo e dio, e la polis e la politica, il potere, l’amore e la guerra come altrettanti problemi.
Si ascoltano parole e si vedono immagini che fanno pensare.
Offriamo la nostra città come bene comune- th;n ga;r povlin koinh;n parevcomen- per chi vuole imparare o assistere ai nostri spettacoli.
Non pratichiamo xenhlasiva (xenhlatevw, xevnoς- ejlauvnw) il bando degli stranieri, quindi non escludiamo alcuno dall’imparare o dal vedere (kai; oujk ajpeivrgomevn tina h} maqhvmatoς h} qeavmatoς (Tucidide, II, 39, 1), anche se il nemico se ne può avvantaggiare.
Santo Mazzarino rileva che lo Scita Anacarsi sceglie la cultura greca contrassegnata dalla "festività orgiastica"[1], mentre il popolo scita"può essere caratterizzato, comunque, dal simbolismo", come si vede "nel racconto erodoteo sui doni scitici a Dario".
" Attribuite ad un popolo come lo scita, che tiene un pò dell'orientale (come noi oggi sappiamo, e come anche Erodoto sapeva: IV 11[2]), e un pò dell'Europa giovane quelle maniere simboliche hanno un rilievo tutto particolare. Cosa si può contrapporre ad esse da parte della cultura greca? Tutto un mondo diverso: Erodoto lo sa benissimo. Ma egli sottolinea un punto: la festività orgiastica di tipo ellenico. Egli racconta che lo scita Anacarsi fu ucciso perché, tornato dalla greca Cizico nella sua patria, celebrò la festa in onore della Madre degli dèi, alla maniera greca "tendendo un timpano e appendendo statuette al suo corpo"[3].
Cizico si trova nella Propontide
Concludiamo dunque l’Epodo II della Pitica I di Pindaro
Febo licio, sovrano di Delo,
che ami la fonte Castalia del Parnaso, kravnan Kastalivan filevwn-
voglia tu porre nella mente queste parole
e prenditi cura della terra dai validi uomini.
Sono menzionati i luoghi che il culto attribuisce a Febo: la Licia, Delo, Delfi e la fonte Castalia sovrastate dal Parnaso.
Mi pregio e mi vanto di avere scalato in bicicletta questa montagna, superiore ai 2000 metri, dal porto di Itea alle piste sciistiche, come del resto l’Etna, superiore ai 3000, dalla stazione ferroviaria di Catania al rifugio Sapienza. Ricordo anche le scalate ciclistiche dell’Olimpo, del Taigeto, dei passi dolomitici Pordoi, Costalunga, san Pellegrino, dello Stelvio, dei passi appenninici di Bocca Trabaria e Bocca Serriola per andare a Sanseplcro poi scendere a Fano, del passo della Contessa per andare a Roma, sempre in bicicletta. Li enumero perché fanno parte dei miei vanti maggiori.
Belle anche le due pedalate in pianura da Pesaro s Gallipoli.
Delle amanti invece non mi vanto bensì mi compiaccio.
Le mie imprese ciclistiche e quelle amorose mi confortano non meno dei miei studi e dei miei scritti nell’avvicinarsi degli 80 anni. Che Dio mi benedica, dato che gli ho reso onore.
Quest’anno non sono andato in Sicilia perché nessuno mi aspettava in quella magnifica terra. In compenso sono stato accolto benissimo a Benevento dove tornerò, e ora studio per tenere conferenze nella biblioteca Ginzburg a Bologna e a Pesaro nell’Hotel Alexander e al festival dei Filosofi lungo l’Oglio di Brescia.
In luglio probabilmente tornerò in Grecia. Oggi sento la mancanza del Parnaso in particolare e di Delfi con la fonte Kastalìa.
Strofe III
Dagli dei infatti tutte le risorse macanai; pa`sai provengono alle virtù mortali/
e da loro sono nati i saggi -sofoiv- e i forti di mano cersi; biataiv
e gli eloquenti- perivglwssoi- . Quell’uomo-Ierone-, io
desidero lodare e spero
di non scagliare fuori dal campo- balei`n e[xw ajgw`no~-
il giavellotto dalle guance di bronzo -calkopavraon-
come fa chi lo vibra con la mano,
ma di superare gli avversari con lunghi lanci.
Così il lungo tempo gli indirizzi prosperità -a Ierone-
e dovizia di beni e, gli procuri oblio delle pene
Dagli dei dunque derivano i talenti, le capacità eccelse e virtuose dei mortali. Tanto quelle mentali quanto quelle fisiche.
Pindaro augura a se stesso di trovare per l’encomio di Ierone le parole appropriate che siano come giavellotti più veloci e precisi di quelli dei suoi rivali. L’epiteto calkopavraon dalle guance di bronzo si trova nell’Iliade (XX, 397) riguardo all’elmo, mentre qui si riferisce alla punta allargata dal rivestimento di bronzo.
Il tempo deve avere la doppia funzione di mantenere la rotta verso il successo e di annientare il ricordo delle pene. Dai successi si impara come si deve fare.
E anche gli insuccessi invero non si devono dimenticare perché insegnano come non si deve fare. Perciò è bene mettersi alla prova spesso.
Antistrofe III
Che certo a lui-Ierone- il tempo possa ricordare a quali battaglie non cedette- Imera 480-Cuma 474-
in guerra con animo audace tlavmoni yuca`/
quando per mano dei numi trovavano- euJrivskonto- l’onore
quale nessuno miete tra i Greci,
nobile coronamento di ricchezza.
Il verbo al plurale include nelle vittorie i fratelli di Ierone: Gelone a Imera sui Cartaginesi (480), poi Polizelo e Trasibulo a Cuma (474) su gli Etruschi
E ora seguendo l’esempio di Filottete
si è portato a combattere
e un tracotante –Trasideo figlio di Terone che morì nel 472-
con la necessità lo lusingò come amico.
Per la vicenda di Filottete suggerisco la lettura della tragedia di Sofocle Filottete.
In questa ode Pitica I l’antico eroe viene preso come paradigma mitico di Ierone siccome entrambi andarono in guerra pur ostacolati dal male.
Plinio il Vecchio ci informa che in quegli anni a Siracusa c’era una statua di Filottete claudicante molto realistica: “cuius ulceris dolorem sentire etiam spectantes videntur” Naturalis Historia XXXIV, 59. Era opera di Pitagora di Reggio-V secolo- La guerra in questione in questa Ode di Pindaro è probabilmente una vittoria di Ierone sulle truppe acragantine guidate da Trasideo figlio di Terone poco prima del 470. Trasideo fuggì e gli Agrigentini inviarono ambasciatori per chiedere la pace
Pindaro continua a raccontare di Filottete figlio di Peante,
Narrano che eroi simili a dèi vennero
Per trasferire da Lemno
Epodo III
Il figlio di Peante-Filottete- arciere toxovtan consunto dalla piaga;
colui che distrusse la città di Priamo,
e pose fine ai travagli dei Danai,
procedendo con un corpo debole- ajsqenei` crwti; baivnwn-, ma era destino alla; moirivdion h\n.
Nel Filottete di Sofocle sono il subdolo Odisseo e lo schietto Neottolemo gli eroi greci che andarono a Lemno per portare a Troia il commilitone piagato senza le cui armi- arco e frecce ereditate da Eracle- la città di Piamo non sarebbe stata conquistata secondo l’oracolo.
Filottete dunque diede il contributo necessario alla vittoria sui Troiani come Ierone sconfisse gli Etruschi a Cuma, sebbene entrambi non fossero in salute. Tutti e due erano claudicanti: Ierone era afflitto da calcolosi vescicale, Filottete aveva una piaga fetida prodotta dal morso di un serpente. Ne verrà guarito a Troia da Podalirio e ucciderà Paride.
Così sia per Ierone il dio che raddrizza- qeo;~ ojrqwthvr- cfr. rex.
nel tempo che viene. Dandogli l’occasione di quanto brama.
Musa, anche presso Dinomene, esaudiscimi
nel cantare il premio della quadriga;
non è gioia straniera la vittoria di un padre.
Avanti dunque per il re di Etna
Troviamo un inno gradito fivlion u{mnon.
Il padre è Ierone che nominò il figlio Dinomene reggente di Etna.
Strofe IV
“Per lui fondò quella città Ierone con la libertà
costruita dagli dèi secondo le leggi della norma di Illo.
Per il figlio Dinomene dunque Etna, la città, fu costruita da Ierone.
Illo è figlio di Eracle e Deianira, tre personaggi della tragedia Trachinie di Sofocle.
Vogliono i discendenti di Panfilo-figlio di Egimio-
e certamente degli Eraclidi
che abitano sotto le balze del Taigeto
rimanere sempre dentro le leggi di Egimio-guidò gli Eraclidi dalla Doride al Peloponneso-,
siccome Dori. Occuparono Amicle nella prosperità,
mossi dal Pindo,
vicini di antica fama dei Tindaridi dai bianchi puledri,
e di questi fiorì la gloria della lancia.
Egimio è il capo che guidò gli Eraclidi e gli altri Dori nel Peloponneso dalla sede originaria nella regione Doride tra Locride e Focide non lontana dalle pendici meridionali del monte Pindo.
Panfilo era figlio di Egimio.
Tucidide nomina la Doride come th;n Lakedaimonivwn mhtrovpolin (I, 107, 2) la madre patria dei Lacedemoni. Di là dunque partirono gli Eraclidi per tornare nel Peloponneso i Dori guidati da Egimio che adottò Illo associando nella regalità i discendenti di Eracle con i propri.
I Tindaridi erano i figli di Leda e di Tindaro diventati poi i Dioscùri.
Zeus era il padre di Polluce, Tindaro di Castore.
Polluce immortale cedette a Castore mortale metà della propria immortalità.
Amìcle è un altro luogo cardine della geografia mitico storica dei Dori.
E’ un piccolo centro vicino a Sparta ed è legato al passato predorico della Laconia. Fu uno delle ultime località del Peloponneso acheo a cadere in mano ai Dori.
L’Iliade nel catalogo delle navi mette jAmuvkla~ (II, 584) tra i luoghi del dominio dello spartano Menelao.
Quanto al Taigeto è la catena montuosa che va dall’odierna Kalamata a Sparta.
Mi sono soffermato piuttosto a lungo su questa geografia ricordando con amore i miei tanti giri ciclistici della Grecia.
Quanto al Taigeto l’ho scalato da Kalamata alla cima (km 33, 12) in bicicletta in 2 ore, 14 minuti e 27 secondi, alla media di 14, 7 Km all’ora, all’età di 62 anni e 8 mesi. Quando passai sulla cima, da solo, avendo staccato i compagni, un pastore mi gridò: “italiano, italiano, mia faccia, mia razza”.
Non avevo targhe né una bandierina italiana. Fui contento di essere stato individuato come italiano tipico e di essere stato assimilato ai greci che amo. Mi venne in mente una ragazzona norvegese che quando le chiesi di non dire che ero italiano perché mi davano fastidio i turisti italici che cercavano di approfittare della povertà delle ragazze magiare, mi disse: “it is hardy credible, you are so typical !”. Anche questo mi piacque.
Ho ripetuto l’impresa questa estate 2024, pedalatore annoso a 80 anni quasi compiuti. Certamente in un tempo più lungo, non cronometrato del resto.
Antistrofe IV.
Zeus che tutto compi, fai che il discorso vero degli uomini- e[tumon lovgon ajnqrwvpwn-
aggiudichi sempre tale sorte-di gloria-
ai cittadini e ai re presso l’acqua d’Amĕna.
L’Amena è il fiume che attraversa Etna-Catania, oggi si chiama Amenano e ha un corso sotterraneo. Sfocia presso il porto. I cittadini di Etna erano Dori
Il discorso vero relativo a Elena secondo la Palinodia di Stesicoro (VII-VI secolo) non è quello tradizionale relativo alla fuga con Paride, che leggiamo nelle parole di Omero e di Saffo per esempio.
–oujk e[st j e[tumo~ lovgo~ ou\to~ fr. 192, 1 Page –, scrive Stesicoro
Secondo questo poeta, poi anche a detta di Euripide nella tragedia Elena, la splendidissima figlia di Zeus non andò a Troia e rimase fedele al marito Menelao. Paride portò con sé uno spettro con le sembianze di Elena, mandato dagli dèi per provocare la guerra.
Ricordo questa versione del mito di Elena per attribuirlo alle Elene mie, quella di Praga e quella di Yväskylä, donne di rara kalokajgaqiva.
Con il tuo favore-Zeus- l’uomo condottiero –Ierone quindi Dinomene
dando poi istruzioni al figlio, rispettando il popolo,
lo volga a un’armoniosa concordia- suvmfwnon ej~ hjsucivan-.
L’ordine cosmico presieduto e garantito da Zeus deve essere rispecchiato dall’armonia concorde della musica e della polis. E da quello di ciascuno di noi. Se il nostro disordine cozza con l’ordine cosmico scoppia la tragedia
Ti prego, consenti, Cronide, che il Fenicio
si trattenga sempre nella sua dimora tranquilla
e il grido di guerra- ajlalatov~- dei Tirreni cessi
dopo avere visto la tracotanza che piange le navi davanti a Cuma.
Pindaro auspica che i Cartaginesi battuti a Imera nel 480 e i Tirreni (Etruschi) confitti a Cuma nel 474 dai Dinomenidi non osino riprendere la guerra.
Il 2 giugno 2024 ho visto in televisione la sfilata delle forze armate svoltasi a Roma tra il Colosseo e piazza Venezia.
Bene organizzata e preparata, non sgradevole.
Tuttavia non priva di accenti che glorificano la guerra con toni pericolosi,
per lo meno inquietanti. Un rimedio alla inquietudine mia e forse di tanti altri sarebbe che l’inno nazionale suonato diverse volte e cantato per la festa della Repubblica da Baglioni, sostituisse il bellicoso, funereo, male ominoso “siam pronti alla morte” con “siam pronti alla vita”. Proporrei anche“riuniamoci a scuola” piuttosto che “stringiamoci a coorte”
Epodo IV
(Il Fenicio vinto ha visto)
Quali sofferenze patirono domati dal comandante dei Siracusani- Ierone-
Un disastro che dalle rapide navi gettò nel mare la gioventù -fenicia-
tirando fuori la Grecia - JEllavd j -da un grave servaggio.
La Grecia- JEllavd j può intendesi come Magna Grecia e anche come la madre patria culturale di tutta l’Europa, nel senso che Cartaginesi ed Etruschi se avessero sconfitto e sottomesso i Siracusani avrebbero seguitato a espandere il loro potere e la loro
cultura. Per quanto riguarda questa, furono piuttosto i Greci e conquistare culturalmente l’Europa attraverso il tramite della lingua latina.
Cfr. Orazio:"Graecia capta ferum victorem cepit et artes/intulit agresti Latio”. Epistole , II, 1, vv.156-159)
Avrò da Salamina la gratitudine degli Ateniesi
come compenso, e a Sparta racconterò la battaglia davanti al Cicerone-quella di Platea del 479-
dove si esaurirono i Medi dagli archi ricurvi,
ma presso la sponda dell’Imera ricco di acqua
canterò, dopo averlo composto, un inno per Dinomenidi
tributo che ricevono per il loro valore
subìto dagli uomini battuti.
La battaglia davanti al Citerone è quella di Platea dove i Greci, soprattutto gli Spartani guidati da Pausania batterono nel 479 l’esercito terrestre dei Persiani comandati da Mardonio. Il Citerone è anche la montagna dove si svolge la catastrofe di Penteo fatto a pezzi dalla propria madre e dalle zie, menadi infuriate che capeggiavano le Baccanti di Euripide.
Strofe V
Se parli in maniera opportuna, kairovn avverbiale
stringendo in breve i termini di molti argomenti, minore è il biasimo meivwn mw`mo~
che ti tocca dagli uomini poiché la sazietà penosa- kovro~ aijanhv~-
ottunde le rapide speranze- ajmbluvnei taceiva~ ejlpivda~-, e udire il racconto delle nobili imprese altrui
pesa nel segreto del cuore dei cittadini.
Pindaro dunque sconsiglia il dilungarsi negli autoelogi e pure negli elogi in genere.
Anche il poeta che celebra il committente deve essere denso e intenso.
“La poesia fonda la sua potenza sulla compressione. Poeta in tedesco si dice Dichter, colui che rende le parole dicht (spesse, dense, compatte). L’immagine poetica comprime in un’istantanea un momento particolare caratteristico di un insieme più vasto, catturandone la profondità, la complessità, il senso e l’importanza”. Hillman, La forza del carattere, p. 70. Dante è capace di condensare una vita e un carattere in pochi versi
Ma in ogni modo non abbandonare le azioni belle,
poiché l’invidia è meglio del compianto: krevsswn ga;r oijktirmou` fqovno~
guida l’esercito con timone giusto:
forgia la lingua sull’incudine della verità- cavlkeue glw`ssan ajyeudei` pro;~ a[mmoni-. Suggerimento al condottiero e a se stesso-
Il poeta come fabbro.
Cfr. Carducci- Rime Nuove, Congedo (vv. 19-21)
Il poeta è un grande artiere,
che al mestiere
fece i muscoli d’acciaio
Cfr. anche Orazio nell’Ars poetica.
Il poeta augusteo riferisce un suggerimento di Quintilio Varo, critico letterario del circolo di Mecenate: correggere due o tre volte le imperfezioni, e se questo non basta: “delere iubebat-et male tornatos incūdi reddere versus” (Ars, 440-441) ordinava di annientare i versi forgiati male e ribatterli sull’incudine.
Antistrofe V
Anche se sfugge un’inezia flau`ron
è riportata come cosa grande
detta da te. Sei rettore tamiva~ Ierone dispensiere, provveditore
di molti: molti sono i testimoni fedeli per l’uno e per l’altro verso.
Prospera persistendo nel tuo temperamento, ejn ojrga` l’impulso innato
se davvero ami udire sempre dolce fama
non stancarti nelle spese munifiche mh; kavmne livan dapavnai~.
Libera come il nocchiero
la vela gonfiata dal vento.
Non lasciarti ingannare, amico, da lucri kevrdesin eujtrapevloi~-
instabili: solo la gloria della reputazione- au[chma dovxa~- che sopravvive ai mortali ojpiqovmbroton
Epodo V
rivela la vita degli uomini già morti
attraverso narratori e poeti.
Non muore la benevola virtù di Creso.
Invece un’odiosa nomea-ejcqra; favti~- ha in suo potere dovunque Falaride,
mente spietata nhleva novon- che faceva arrostire delle persone in un toro di bronzo kauth`ra tauvrw/ calkevw/.
Né sotto i tetti lo accolgono le cetre
in tenero connubio con i canti dei giovani.
La prima cosa è gioire dei premi vinti;
la seconda fortuna è una buona fama- eu\ ajkouvein: l’uomo che abbia incontrato
l’uno e l’altro successo e li abbia afferrati
ha ricevuto la corona somma.
Solone nella sua Elegia alle Muse chiede alle pieridi di concedergli benessere (o[lbon) e una buona reputazione- dovxan ajgaqhvn-ù
Creso e Falaride.
Creso è stato re di Lidia nel VI secolo finché venne sconfitto da Ciro il Vecchio intorno alla metà del secolo. Erodoto nel primo libro delle Storie racconta il suo incontro con Solone. Lo rappresenta come un re ricchissimo e tanto pacchiano da esibire i propri tesori e domandare al legislatore ateniese se lo reputasse l’uomo più felice del modo.
Solone eluse la risposta diretta: gli disse che nella vita umana che dura mediamente 70 anni ogni giorno è diverso dall’altro e non si può dire se un uomo sia stato felice prima della sua morte. Il mortale si trovi in balia del caso (pa'n ejsti a[nqrwpo" sumforhv, I, 32, 4)
Plutarco racconta che Solone dopo avere visto l’enorme ricchezza esibita dal re gli disse: "Ai Greci, o re dei Lidi, il dio ha dato di essere misurati (metrivw" e[cein) in tutto, e, per questa misuratezza (uJpov…metriovthto" ) ci tocca una saggezza non arrogante ma popolare, non regale né splendida "(Plutarco, Vita , 27).
Lì per lì Creso non comprese, ma poi, una volta finito sul rogo, gridò tre volte "O Solone!", poiché aveva capito che la sua felicità era stata solo parola e opinione, fama e parvenza.
Del resto Creso ebbe buoni rapporti con i Greci della costa anatolica e con il santuario delfico. Per questo Pindaro lo ricorda positivamente nel celebrare questa vittoria pitica.
Falaride fu tiranno di Agrigento dal 571 al 554.
E’ rimasto famigerato per la sua crudeltà ricordata da diversi autori.
In questa ode di Pindaro il tiranno acragantino è il correlativo umano, anzi disumano, di Tifone, entrambi portatori di u{bri~ e disordine, ostli alla musica, mentre Ierone e il suo paradigma divino Zeus sono fondatori di ordine e latori di armonia.
Non faccio l’elenco delle testimonianze su Falaride. Mi limito a Dante che nel XXVI e XXVII canto dell’Inferno (cerchio VIII e ottava bolgia, quella dei consiglieri fraudolenti) vede delle fiamme parlanti e le ascolta. Prima quella di Ulisse e Diomede, poi la fiamma che avvolge di Guido da Montefeltro.
Questa, prima di articolare le parole, faceva uscire dalla sua cima “un confuso suon”. Sicché viene menzionato il bue di Falaride di cui Dante aveva letto in Ovidio e in Paolo Orosio.
Ripassiamo dunque Dante:
“Come il bue cicilian che mugghiò prima
col pianto di colui, e ciò fu dritto,
che l’avea temperato con sua lima,
mugghiava con la voce dell’afflitto,
sì che, con tutto che fosse di rame,
pur el parea dal dolor trafitto;
così, per non aver via né forame
dal principio nel foco, in suo linguaggio
si convertian le parole grame” (vv- 7-15)
Artefice del toro fu Perillo cui Falaride fece inaugurare il supplizio:
“Et Phalaris tauro violenti membra Perilli
torruit; infelix imbuit auctor opus” (Ovidio, Ars amatoria, I, 650-651)
e Falaride arse nel toro le membra del violento Perillo; l’infelice artefice bagnò la sua opera. Con i suoi liquidi organici immagino.
Anche Ovidio considera giusta la condanna di Perillo.
Fine della Pitica I.
Pesaro 3 ottobre 2024 ore 11, 15 giovanni ghiselli
p. s
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