Logica degli affetti: Chi non vuole bene agli amici del suo amante, vuole male all’amante.
Nell’agosto del 1980 io e Ifigenia andammo a Debrecen sperando di capire e rimediare gli errori dell’estate del 1979 .
Dopo quegli sbagli si era vissuto un anno tutt’altro che lieto. Sentivamo che si dovevano cambiare molte cose.
Con noi venne anche Fulvio alla guida della propria automobile per essere libero di tornare quando avesse voluto. Partimmo il primo del mese nel pomeriggio: in tempo per schivare l’orrenda strage, la più micidiale tra le tante che hanno insanguinato il nostro paese con lo scopo di sconciarne la politica e il costume.
Speravo che Ifigenia si sarebbe trovata a suo agio nell’ambiente internazionale frequentato da tanti giovani di educazione accademica, contenti di trovarsi là per fare conoscenze non senza imbastire amicizie e amori. Forse anche noi potevamo trarne motivi di crescita.
Quel luogo per me era stato cruciale: un incrocio di strade dove avevo incontrato diverse persone messaggere del destino: amanti, amiche e amici.
Ero in attesa di altri segni del fato.
Ifigenia era scontenta fin dall’inizio del viaggio. Già questo era un segno non bello né buono. Non gradiva la presenza di Fulvio che pure non viaggiava con noi. A Trieste la ragazza cercò di provocare un contrasto che sedai con fatica. Tra le mie donne e i miei amici non c’è mai stato buon sangue né tra le loro donne e me. Dipende dalla possessività di chi si accoppia senza amore.
Non ho mai permesso a nessuna delle mie amanti di maltrattare gli amici, i parenti e gli ospiti miei. Anzi, considero una mancanza di rispetto per me i maltrattamenti inflitti ai miei cari.
Vediamo il caso in questione, quasi un casus belli.
Sulla strada panoramica che scende su Trieste, Fulvio ci superò per suggerirci una sosta. Quando fummo scesi commentò il panorama della città e della costa. Senz’altro degno di nota.
Lo faceva soprattutto per Ifigenia che non l’aveva mai visto.
Eppure la sciagurata lo interruppe per dire che della toponomastica, non si curava, mentre il mare poteva vederlo anche dall’automobile, dato che rimaneva sotto la sua visuale, alla sua destra. Mi vergognai di tale brutalità e odiai la sua becera insolenza. Nulla la interessava se non le faceva comodo subito. Rimasti soli, le feci notare che il suo comportamento non era umano e neppure civile. Reagì trivialmente: disse che il mio migliore amico era stato un idiota a imporci una sosta solo per farci vedere un pezzo di mare qualsiasi. “Così faceva anche quell’imbecille di mio marito e io l’ho lasciato”. Risposi che il marito aveva potuto trattarlo come meglio credeva, ma Fulvio doveva rispettalo e non solo perché era il mio amico migliore appunto, ma anche in quanto era una persona di raro valore. Per giunta l’avevo invitato io a venire in Ungheria con noi, perciò, che le piacesse o no, doveva essere per lo meno corretta con lui, se voleva proseguire nel viaggio. Altrimenti poteva tornare a casa in treno.
“Cercherò di sopportarlo; comunque quella sosta era scema”. Volle avere l’ultima parola come fanno di solito gli imbecilli.
Irritato da tanta protervia, dissi che probabilmente lei aveva bisogno di un uomo che la facesse filare senza nemmeno darle spiegazioni.
“Provaci tu,-mi sfidò con volto torvo-provaci tu, se ci riesci.
Tale ostinazione mi diede la nausea, per cui strinsi le labbra e non la degnai di altre parole. Non parlammo quasi più per il resto del viaggio che terminò la sera seguente. Appena fummo arrivati all’Università estiva, alcuni italiani ci dissero della strage alla stazione. Una specie di correlativo enorme e criminale del frantumarsi dei sentimenti, degli affetti, di quanto di buono può esserci nell’animo umano.
Quando arrivammo a Debrecen era l’ora di cena: gli uffici amministrativi dell’Università erano chiusi e non potemmo prendere alloggio nel collegio. All’Aranybika non c’era posto, sicché dovemmo dormire in un alberghetto triste accanto alla stazione situata all’estremità orientale del centro. Anche questo fu un segno, un chiaro annunzio di futuri danni: mi respingevano i luoghi dove avevo passato i giorni e le notti migliori della mia vita con le amanti migliori.
Ero ridotto a dormire con una nemica in un postaccio rimediato per ripiego. Pensai che Ifigenia, sebbene non meno bella, come persona era pur sempre un ripiego, una pessima copia rispetto a Elena, Kaisa e Päivi di cui conosci le storie grandi e meravigliose, lettore.
Oltretutto, in quel luogo già connotato dallo squallore, Ifigenia vomitò quanto non aveva smaltito.
Il giorno seguente ottenni tre letti in collegio distribuiti in due stanze: Ifigenia con altre donne.
Me ne consolai. Per festeggiare il successo la sera invitai a cena Fulvio ovviamente e Alfredo che era arrivato prima di noi. La compagna di viaggio però aveva ancora la nausea e di sua iniziativa non diceva parola. Rispondeva a monosillabi. Ne avevo l’angoscia e rimpiangevo talmente tutte le estati passate, comprese quelle della mia solitudine antica, che alla fine dell’orribile cena, vaticinai una profezia lugubre:
“Sono sicuro che morirò come vivo: del tutto solo”.
Fulvio intanto disegnava con arte il mio volto buio, straziato e irrigidito e pietrificato dal dolore
“Bravo amico -pensai- Sei stato e sei un maestro: a fare il meglio per me ho spesso imparato da te, fin dal luglio remoto del 1966 quando ero pensoso di cessare il viver mio in qualche maniera, e tu mi salvasti dicendomi, tu solo allora, che valevo qualcosa. Ora mi insegni che devo curare questo dolore prima che causi altri danni: resecare questo falso amore che sta diventato penoso e pericoloso non meno di un cancro.
Morbosus amor cancer est.
Ipse valere opto et taetrum hunc deponero morbum”.
Non basterà un’untorella a sradicarmi.
Pesaro 5 ottobre 2024 ore 17, 05 giovanni ghiselli
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