giovedì 12 dicembre 2024

Ifigenia XXXI Il brutto stile che non fa onore. Davvero “Seneca bastonava gli schiavi”?

“Che cosa fate voi due appiccicati qui come piccioni o come ricci? Non avete sentito la seconda campanella? Che cosa aspettate a entrare ciascuno nella sua classe? Forse la fine dell’ora? Voi mi fate perdere tempo e rubate del tempo a tanto al vostro lavoro quanto agli alunni”.

 

In quel momento aveva ragione poiché facevamo aspettare i nostri allievi per problemi che riguardavano soltanto noi. Avrei potuto scusarmi del ritardo ma non me lo consentì lo stile maleducato e offensivo di quella censura verbale.

Dissi solo: “Ora vado”.

 Appena entrato in classe del resto mi scusai con i ragazzi.

Lo stile di un adulto non è un fatto esteriore alla persona ma ne rappresenta il pensiero, il carattere, lo stesso destino. Insomma non dobbiamo mai chiederci perché uno si comporti in un certo modo: ciascuno di noi “fa” così come “è”. In greco fare -dra`n- è il verbo che significa l’azione, compreso l’agire del dra`ma; ebbene io penso che vivendo ciascuno di noi reciti la persona che è, e la vera maschera-persona appunto in latino- di ognuno è la sua faccia. La maschera del resto può avere almeno due facce, come la testa di Giano. 

 

Il preside mio se doveva rivolgersi alle persone presunte deboli in quanto  sottopposte alla sua autorità, usava il tono del duce sicuro di sé, imperioso  e intollerante di qualsiasi obiezione, tuttavia non era efficace, cioè non otteneva il risultato voluto, in quanto appariva presto come di fatto era: un uomo stentato,  e per smontarlo bastava non dargli importanza, ossia rispondergli con signorile sprezzatura. Allora il suono rauco del suo trombone teso ad affermare supremazia diventava un singhiozzo strozzato.

Nei suoi momenti migliori quel pover’uomo  poteva manifestare aspetti di carattere non cattivo, perfino di umanità, come quando parlando con me ammise di avermi fatto un grave torto nello spostarmi in una classe inferiore: “abbia pazienza professore- mi disse- summum ius summa iniuria”. Rimaneva comunque un uomo dal potere meschino, privo di ogni potenza: il summum ius , voleva dire,  non era  tanto incarnato  da lui, quanto dalla vicepreside che gli aveva potuto ordinare quello spostamento, e lui, appena arrivato nel liceo,  non poteva dire di no a una che  nell’interregno aveva preso in mano la gestione della scuola e aveva attirato diversi seguaci tra i colleghi se non altro per i favori che poteva fare a chi le obbediva.

Se poi tale degradazione era ingiuriosa per me e danneggiava gli allievi del triennio, lui non aveva potuto fare altro. Davvero un pover’uomo.

 

Mi ero dunque mosso dal primo piano per scendere a fare la lezione peparata e dovuta agli scolari. Nel separarmi da Ifigenia, ella mi fece un cenno amichevole con volto rasserenato. Simili alla pioggia e al sole nel cielo, sul viso di lei si alternavano, talora perfino si mescolavano sorrisi e lacrime.

Dopo l’intervallo c’era un’assemblea studentesca. Il popolo degli studenti si radunava nella palestra. Mentre accompagnavo i miei, attendevo un altro segno da Ifigenia sperando che sarebbe stato buono. Infatti mi venne vicina con aria amichevole e disse che intendeva parlare agli studenti in assemblea. Se tornare a casa dal marito o in quella dei genitori l’avrebbe deciso più tardi. Che non avesse menzionato casa mia quale dimora fissa non mi dispiacque. Questo dovevo assolutamente evitarlo.

Alla fine di novembre gli studenti liceali, in particolare quelli educati da me nei due anni precedenti, non avevano fatto il callo al predominio  della nuova cricca al potere : i giovani non erano ancora deculturalizzati e spoliticizzati come sarebbero diventati nel giro di pochi anni. Il non impedito assassinio di Aldo Moro era stato un segnale forte per la stessa classe politica italiana. Aleggiava nell’aria il detto di Caifas: “expedit ut unus moriatur homo”. Il suo tentativo di avvicinare il PCI al governo non era piaciuto ai poteri veri. Il 9 maggio del 1978 ha segnato una svolta nella vita politica italiana. Più avanti saebbero stati annientati politicamente Craxi e Andreotti per la stessa ragione.

Non si erano sottomessi abbastanza al potere reale.

 

Da un paio di mesi il preside appena arrivato e i suoi complici pretendevano che a scuola non si facesse politica né cultura, che non si evidenziassero le immagini belle né le idèe originali, sovversive, secondo loro, anche se lette nell’opera di Seneca per esempio.

Tutto ciò che poteva smentire il modo comune di pensare stava diventando tabù.

Erano guardati e trattati male i pochi docenti che impiegavano i testi per aprire le menti dei giovani a quanto di intelligente e di bello c’è nell’umanità e nel mondo, al di là degli stereotipi imposti dalla pubblicità e dalla propaganda del potere.

Nel campo del latino e del greco docenti e discenti dovevano fermarsi a declinazioni, coniugazioni, regole ed eccezioni vere o presunte, senza arrivare al messaggio politico, estetico e morale contenuto nei testi. Come seppe che insegnavo il latino con la grammatica e la sintassi necessarie ma non mi fermavo lì e procedevo con i testi degli autori con i loro messaggi  etici e politici avversi all’ingiustizia e alla prepotenza, il preside entrò in classe e cercò di sbugiardare me e Seneca morale, del quale leggevo e commentavo la lettera 47. Disse ai ragazzini che quello pseudo filosofo bastonava gli schiavi. Le parole “Servi sunt, immo homines.  Servi sunt immo contubernales. Servi sunt immo humiles amici. Servi sunt immo conservi si cogitaveris tantundem in utrosque licēre fortunae (47, 1) secondo lui erano ipocrite e ingannevoli.

Gli alunni insomma dovevano pensare di meno e obbedire di più.

Pretendere che lo studio dei classici si fermi prima di dotare  i ragazzi dei mezzi della critica nei confronti delle varie tirannidi che vogliono annientare la libertà di parola, di pensiero e di sentimento, è come imporre che nel letto dove si nasce si dorma ma non si faccia l’amore o che nel bagno non ci si lavi.

 

Bologna 12 dicembre 2024 ore 10, 25 giovanni ghiselli

 

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