lunedì 14 gennaio 2013

F. Nodari. "Piovani interprete di Pascal" - di Giovanni Ghiselli

E’ uscito da pochi mesi un bel libro: Piovani interprete di Pascal (MassettiRodellaEditori, Brescia, ottobre 2012).
L’autrice, Francesca Nodari, è una studiosa di  valore: collabora alla
cattedra di Filosofia teoretica dell’Università Milano-Bicocca, autrice di
altri libri tra cui Il pensiero incarnato in Emmanuel Levinas (Morcelliana,
Brescia 2011 che abbiamo già recensito,  ed è direttore scientifico del Festival Filosofi lungo l’Oglio.
Nel Capitolo primo, Miseria e Deesse, (pp. 11-39)   l’autrice fa emergere un confronto tra la filosofia di Blaise Pascal  (1623-1662) e quella di Pietro Piovani (1922-1980), “il filosofo italiano della seconda metà del Novecento al quale dobbiamo un’originale teoresi storicistico-esistenziale”[1].
Piovani ha messo a punto un suo storicismo critico .
In esso “la conoscenza storica è, si fa coscienza morale[2], come pure è un farsi l’identità e la
libertà dell’uomo: “il mio esser  libero è un farmi libero…Il mio autentico essere è un esistere  perché è un farsi riempiendo il deesse…L’uomo è un dato che si dà”, scrive Piovani[3].
La conquista dell’identità però, il diventare se stesso, quello che era l’imperativo pindarico “diventa
quello che sei”[4], non è un compito sine cura, ma “appare nel suo aspetto di fatica grave, di pena insopportabile”[5].
Il mio contributo a questo studio non può che essere il ricordo e la citazione dei classici congruenti.
Nell’ultimo libro dell’Asino d’oro di Apuleiodopo lunghi e duri travagli, il protagonista Lucio prega la Regina del cielo, la luna che gli è apparsa con uno straordinario splendore sulla riva del mare, vicino a Corinto, e le chiede la fine delle fatiche e dei pericolo corsi nella sua vita asinina, una vita senza Iside: “sit
satis laborum, sit satis periculorum”. Quindi la prega di restituirlo alla forma umana, ai suoi affetti e, dopo tutto a se stesso, al Lucio che è:” Depelle quadripedis diram faciem, redde me conspectui meorum, redde me meo Lucio” (XI, 2), stacca da me l’orribile aspetto di quadrupede, rendimi alla vista dei miei, rendimi al Lucio che sono.
Diventare gli uomini che siamo è una grande fatica. Ma il risultato ha un grande valore. Gli dèi davanti al valore infatti hanno posto il sudore [6].
Piovani cita Amiel che paragona la vita umana alla sorte di un naufragio del battello dove siamo stati imbarcati con violenza.
La vita umana come naufragio si legge nel Satyricon dove il vecchio poeta Eumolpo davanti al cadavere dell’arcipirata monocolo  Lica, dice:"si bene calculum ponas, ubique naufragium est " (115, 17), se fai bene i conti, il naufragio è dappertutto. Marìa Zambrano afferma che l'uomo, da quando ha memoria e storia, ha sempre avuto nel fondo dell'animo il sentimento del naufragio e ricorda che il suo maestro Ortega y  Gasset nei suoi corsi su "La razòn vital" descriveva "la condizione di "naufragio" come la più umana della vita umana"[7].
Ma torniamo al libro della Nodari e allo storicismo di Piovani che è critico nei confronti di quella disposizione statolatrica , di quella storia “hegelianamente intesa” che, per dirla con parole di Nietzsche, “praticamente si trasforma a ogni istante in nuda ammirazione del successo”[8].
L’uomo tende a un trascendimento continuo attraverso un faticoso tentativo d’infinitarsi, “in virtù di quell’orizzonte de-ontologico[9], che è mancanza e bisogno”[10].
L’uomo dunque sente questo deesse, questo dei`, questa mancanza di essere, e cerca di trascendersi
“nell’intento di elevare a norma la veritas che lo abita e di impossessarsi della propria soggettività-continuamente experienda- in un moto di perfezionamento che è moto du cœur[11]
Quindi giungiamo a Pascal per il quale l’uomo è “qualcosa di mezzo tra il tutto e il nulla. Infinitamente
lontano dal comprendere gli estremi…egualmente incapace  di scorgere il nulla da cui è tratto, e
l’infinito in cui è inghiottito ”[12]
L’uomo dunque “ è caratterizzato da una dinamica di lacerazione, di contrasto, di incertezza, di instabilità che
sembra far capo ad una Stimmung dominante: la miseria[13].
Torniamo ai Greci.
Per alcuni versi l’uomo di Pascal ricorda quello di Sofocle che smonta il logos presuntuoso dei suoi
personaggi, in particolare di quello più noto, quando presume troppo di se stesso e della propria gnwvmh, del proprio intelletto. Edipo si illude, e pecca di presunzione, di u{bri~ intellettuale, quando dice:"arrivato io,/ Edipo, che non sapevo nulla, lo[14] feci cessare/ azzeccandoci con l'intelligenza (gnwvmh/// kurhvsa" ) e senza avere imparato nulla dagli uccelli" (vv.396-398).
Nell’Edipo a Colono, il protagonista, scopertosi parricida e incestuoso, trovata e accettata la propria identità, il proprio destino, trova anche la definitiva dimensione benefica: dalla sua tomba emaneranno influssi positivi su Teseo e gli Ateniesi che lo hanno accolto dandogli rifugio.
Edipo, attraverso il dolore, giunge a comprendere la limitatezza di ogni mente umana, non esclusa la sua. A Colono, il figlio di Laio è arrivato a pensare come deve pensare un uomo “L’uomo è manifestamente fatto per pensare; in questo sta tutta la sua dignità; e tutto il suo valore e tutto il suo dovere stanno nel
pensare come si deve”[15].
Alla fine, Edipo, come altri personaggi di Sofocle, obbediscono alla prescrizione deifica “conosci te stesso”.
E’ la somma delle conoscenze e la conoscenza somma suggerita anche da Pascal: “Bisogna conoscere se stessi: quand’anche non servisse a trovar la verità, giova per lo meno a regolare la propria vita; e
non c’è nulla di più giusto”[16].
L’uomo pascaliano è tentato di fuggire alla disperazione attraverso il divertissement, ma in
questo modo rinuncia alla propria dignità “se è vero che la sua grandezza”[17]  “sta in ciò, che si
riconosce miserabile. Un albero non si riconosce miserabile. Si è quindi miserabili perché ci si riconosce miserabili; ma è essere grandi riconoscere che si è miserabili”[18].
Altrettanto fa Edipo che non si ferma nell’indagine pericolosa sulla propria nascita, sebbene messo in guardia, avvertito da più voci sull’esito catastrofico della ricerca. E la sua grandezza, riconosciuta da lui stesso, sta proprio nell’avere voluto conoscere e soffrire fino in fondo la propria identità dolorosa e tragica. Dopo avere attraversato ogni  miseria, ed essersi punito da solo,  il cieco  rivendica, appunto,  la propria  grandezza  :" i miei mali/nessuno dei mortali è capace di sopportarli tranne me" ( Edipo re, vv. 1414-1415).
L’uomo “si sottrae alla sua dubbia e carente animalità liberandosene: 
nella lotta non rimane simile fra simili in una presunta affinità di natura che lo condannerebbe, ma ne evade ammettendo la dissomiglianza ed esasperandola con diversificazione accentuata”[19].
Di nuovo Edipo di Sofocle e pure Antigone che da sola si oppone a un ordine disumano e
affronta la solitudine e il martirio rinunciando a sposare il principe di Tebe .
Alla sorella Ismene che le fa notare:" tu hai il cuore caldo per dei cadaveri gelati", risponde: ma so di piacere a quelli cui prima tutti è necessario che io vada a genio ("ajll j oi\dj ajrevskou~ oi|" mavlisq j aJdei'n me crhv ", v. 89) mostrandosi di non curarsi dell'incomprensione della sorella più che delle minacce del tiranno. Questa
ragazza in tutta la tragedia afferma con fierezza la propria diversità.
"Come non avvertire, allora, nella miseria del moi pascaliano l'eco della dura datità che fa riscontrare al soggetto il fatto di essere un volente non volutosi ? Di più: che cosa rappresenta la mitica figura del re spodestato[20], se non" 'una suggestiva proiezione collettiva del sentimento di rifiuto dell'essere voluti, che, controllato o sfrenato, vive nelle radici di ognuno?[21]' "[22]
ll  paradigma mitico del re spodestato è il farmakov~, il re che nel corso della tragedia si capovolge a
"medicina umana" il cui allontanamento sarà la salvezza della città.  Edipo, ancora una volta, quello
di Sofocle che scopre di essere il mivasma contaminatore, e pure quello di Seneca,  che dice fecimus
coelum nocens, (Oedipus, 36).
La Nodari cita ancora Piovani  il quale ammette di essere "costretto a dire con Nietzsche "Io ho dimenticato perché mai ho cominciato ad essere"…E' una realtà che sfugge al mio essermi fatto". Ma attraverso lo
"scandaglio della rammemorazione"  emergono "alla fine, verità note, addirittura classiche". Quindi  "Posso
ripetere una frase delle Confessioni di Agostino: "Noi non ci siamo fatti"; o, alla luce di uno degli
agostiniani Pensieri di Pascal, posso osservare l'uomo smarrito nel mondo, in cui sta 'senza sapere chi ce lo ha messo' "[23].
Chi  lo ha messo e gettato nel mondo  è proprio l'oggetto della ricerca di Edipo che a un certo momento, dopo le reticenze di Giocasta che ha già capito tutto e si è allontanata, dice:"io, stimando me stesso figlio della Fortuna,/di quella che dà il bene, non rimarrò senza onore./ Questa infatti è la madre da cui sono nato e nati con me/ i mesi mi resero piccolo e grande"(vv. 1080-1083). E il coro lo asseconda.
Nel successivo terzo stasimo i coreuti invocano il Citerone, la montagna  che ha allevato Edipo e le
esprimono riconoscenza per avere svolto le funzioni benefiche di patria nutrice e madre del bambino abbandonato dai genitori.
Edipo è stato gettato dai genitori sul monte di Tebe dove però poi è stato salvato dalla compassione di un pastore.
“Lavorando, se così si può dire, sulla nozione pascaliana di divertissement [24]Piovani[25]
non esita a sottolineare che il deesse, avendo accettato di essere posto nel circolo dell’esistenza, non è da essa solutus : l’uomo è gettato, cosa tra le cose, è un inchoatus che trova la propria soggettività oggettificandosi nell’agire che si eleva a norma”[26].
E qui possiamo citare l’Aiace di Sofocle che zittisce l’amante Tecmessa (v. 293) la quale non può distoglierlo dalla decisione presa di uccidersi dopo che ha degradato la propria identità di eroe.
Telamonio prima di suicidarsi per non sopravvivere alla degradazione  aggiunge:"ajll j h] kalw'" zh'n  h] kalw'" teqnhkevnai- to;n eujgenh' crhv" ma il nobile deve  vivere con stile, o con stile morire.
(vv.479-480). Questa è la sua norma. 
Piovani dunque va "oltre l'Heidegger di Essere e tempo che intende"[27] "riportare l'esserci all'essere" in vista di una Totalità restauranda"[28] e "mette capo ad un'etica umanologica": "L'uomo non è, ma si fa. Si conosce esistente, verificandosi"[29].
"Un cogito, che prende sul serio l'azione del subconscio e…che porta il soggetto a trascendere la propria singolarità oggettificandosi attraverso l'azione"[30]. Mi viene in mente che in greco “stare bene”  si dice eu\  e[cein (Odissea, 24, 245 p, e). Stare coincide con “avere”, “possedere”, “conoscere”.
Allora “Chi sta nell’esistenza non può lasciarsi vivere; deve vivere. Non è, ma si fa. Se non si fa, non
è…E’ difficile dissentire da Ortega y Gasset quando, nella Storia come sistema, scrive: “La nota più ovvia, ma anche la più importante, della vita umana è che l’uomo non può fare a meno di star facendo qualche cosa per sostenersi nell’esistenza…La vita che ci è data, non ci è data fatta: dobbiamo farla da noi, ognuno la sua. La vita è qualcosa da fare”[31].
Il nobile deve vivere con nobiltà o con nobiltà (kalw`~) morire, dice l’Aiace di Sofocle prima di uccidersi (Aiace, v. 479).  Ma forse sarebbe più bello  tradurre quel kalw`~ con l’italiano “con umanità” 
Ho citato più volte Sofocle, ma se l’essere coincide con il divenire,
allora bisogna ricorrere anche a Eraclito, a Euripide con il dionisiaco, e naturalmente a Nietzsche.
 “Tutto ciò si definisce con forza, senza tentennamenti, l’essere come mobilità, divenire, continua trasfigurazione, dissoluzione dell’unum nel molteplice, scomposizione del mondo negato nella sua unità e riconosciuto nelle sue composizioni, risoluzione dell’universo nel multiverso, in base alla lezione tragica della diagnosi di Nietzsche: “ L’unità non esiste affatto nella natura del divenire”. L’esistere allora non ha altra condizione per riconoscersi che l’angoscia della sua costitutiva precarietà, della sua continua problematicità di instabile che è in quanto non è ma diviene in contatto costante con l’inesistente”[32].
 Gli ultimi versi delle Baccanti di Euripide, affermano l’imprevedibiltà degli eventi da
parte della limitatissima ragione umana. Gli dèi insomma, se pure ci sono,  fanno quello che vogliono e gli uomini non possono farci niente. Vediamoli
"Molte sono le forme della divinità
e molti eventi in modo insperato compiono gli dèi; 
e i fatti aspettati non vennero portati a compimento, 
mentre per quelli inaspettati un dio trovò la via. 
Così è andata a finire questa azione” ( 1388-1392) 
Questo finale di 5 versi è topico. Uguale è la conclusione dell'Alcesti, dell'Andromaca , dell'Elena e della Medea (con una variazione al  primo verso: "Di molti casi Zeus è dispensatore sull' Olimpo", Medea, v. 1415).
Allora l'uomo deve avere una coscienza di sé, deve sapere di che cosa ha bisogno per diventare quello che è, per diventare uomo.
"E proprio perché l'uomo è deesse, ossia "bisognosità" e mancanza, che egli deve riconoscere un ordine"[33]
Il cosmo, l’ordine e il ritmo, antonimo di caos, è il massimo oggetto  di ricerca di gran parte della letteratura
greca, a partire da Archiloco [34]: 
 “animo, animo sconvolto da affanni senza rimedio
sorgi e difenditi dai
malevoli, contrapponendo
il petto di fronte,
piantandoti vicino agli agguati dei nemici
con sicurezza: e quando
vinci, non gloriartene davanti a tutti,
e, vinto, non gemere buttandoti a terra in
casa.
Ma nelle gioie gioisci e nei dolori affliggiti
non troppo: riconosci quale
ritmo governa gli uomini. (mh; livhn: givgnwske d j oi|o~ rJusmo;~ ajnqrwvpou~ e[cei, fr. 67 aD).

Al ritmo e all’ordine “l’individuo umano obbligatoriamente si riferisce per agire una qualunque sua
attività, per far sì che le sue attività siano se stesse, cioè abbiano ognuna una loro non confusa individualità, vale a dire siano ordinate in un ordine che ordini l’intera esperienza o parte dell’esperienza”[35].
“Il deesse, che costruisce la storia costruendo se stesso, non può che cogliersi attraverso la miseria e l’inquietudine dell’agostiniano Pascal, in un circolo teso tra dialettica del bisogno e la norma”[36].
Ho concluso l’analisi del primo capitolo e per ora mi fermo poiché il libro della Nodari è molto denso e
ogni pagina dà lo spunto per riflessioni e ampi interventi. 
Se ci sarà occasione, proseguirò più avanti.
Giovanni Ghiselli g.ghiselli@tin.it


[1] F. Nodari, Piovani interprete di Pascal,  p. 11.
[2] F. Nodari, ivi, p. 12.
[3] P. Piovani,  Principi di una filosofia della morale, Napoli, 1972 II ed., ivi, 1989 ora in P. Piovani, Per una filosofia della morale, cit., pp.697-698.
[4]gevnoio oi|o~   ejssiv” (Pitica II,  v. 72).
[5] Piovani Op. e p. citate sopra.
[6] Questa è una dichiarazione topica: Esiodo  
dice che davanti al valore gli dei hanno posto il sudore: "th'" d j ajreth'" iJdrw'ta qeoi; propavroiqen e[qhkan"
(Opere, 289).
Nell'Elettra di Sofocle la protagonista dice alla
mite sorella Crisotemi: "o{ra, povnou toi cwri;" oujde;n eujtucei'''" (v. 945), bada, senza fatica niente ha successo.
[7] L'uomo e il divino , p.65 n. 9.
[8] F. Nietzsche, Sull'utilità e il danno della storia per la vita, cap. 8..
[9] Ricorda Piovani  “il greco dei` è soprattutto mancare, bisognare: designazione di un’insoddisfazione che chiede necessariamente di essere soddisfatta: indicazione di un’assenza”, 
[10] Natoli, Piovani interprete di Pascal, p. 14.
[11] Natoli, Op. cit., p. 16.
[12] B. Pascal, Pensieri, opuscoli, Lettere, Rusconi, Milano, 1978. fr. 84  p. 428.
[13] Nodari, Op. cit., p. 16. Le citazioni di Pascal provengono da B. Pascal, Pensieri, opuscoli, Lettere,
Rusconi, Milano, 19t8. Quella sopra si trova a p. 428.
[14] Intende il flagello della Sfinge. Nel film di Pisolini Edipo re, il mostro che cade nel burrone, grida:
“l’abisso in cui mi getti è dentro di te!”.,
[15] Pascal, Op. cit., fr. 210. p. 522
[16] Pensieri, 173,
[17] Nodari, Op. cit., p. 18.
[18] Pascal, Op. cit., fr. 255, p. 255.
[19] Piovani, Oggettivazione etica e assistenzialismo, p. 987.
[20] B.  Pascal,, Pensieri, opuscoli, lettere, cit., fr. 210, p. 481
[21] P. Piovani, Principi di una filosofia della morale, cit. p. 681,
[22] Nodari, Op. cit., pp. 19-20
[23] P. Piovanio, Principi di una filosofia della morale, cit. p. 680.
[24] Sul divertimento come fuga dalla propria condizione-la miseria- si rimanda ai numerosi frammenti; B. Pascal, Pensieri, opuscoli, lettere, cit. pp. 472, s., 478, ss., 482, ss.
[25] Cfr. P. Piovanil, L’etica dello stordimento, in “Nuova Antologia”, n. 210, gennaio 1976, pp 31-45.. Significativo quanto arriva a dire Piovani nel seguente passo: “Se, per distrar-si, l’uomo  distrae-sé dall’interezza della vita elevando il “perditempo” a una tetra volontà di liberarsi dal tempo col riempirlo di un’esistenza fatta di ore deliberatamente non-vissute, fermate negli attimi prolungati dalla frivolezza
assunta a un desiderio metafisico di banalizzazione, il momento ludico, che è nobiltà
dell’homo ludens , cessa di essere tale e si converte in ossessione pronta a tutti gli sforzi, a tutte le fatiche,
a tutti i parossismi, a tutte le violenze, pur di evitare che l’individuo rimanga, nel tempo, per qualche tempo solo con se stesso. Il frastuono diventa una droga morale che non è più giuoco, ma autocondanna a una
disindividualizzazione che ha una terribile serietà. Diventa la maschera grottesca della disperazione, il certificato lugubre della alienazione” (ivi, p. 37). L’immergersi nel frastuono  del gregge è l’antitesi del
Conosci te stesso di Delfi e del Diventa quello che sei di Pindaro e di Nietzsche.
[26] Nodari, Op. cit., p. 22.
[27] Nodari, ivi, p. 23.
[28] Piovani, Principi di una filosofia morale, cit., p. 672
[29] Ivi, p. 673.
[30] Nodari, ivi, p. 23.
[31] P. Piovani; principi di una filosofia della morale, cit., pp. 703-705.
[32] F. Tessitore, Dialettica delle forme morali e anti-ontologismi in Pietro Piovani, cit., p. 945
[33] Nodari, ivi, p. 29.
[34] Fiorito intorno alla metà del VII se. A. C.,
[35] Piovani, Normatività e società, p. 175.
[36] F, Nodari , ivi, p. 29, 

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