venerdì 11 gennaio 2013

Niobe e Ovidio - di Giovanni Ghiselli






Nel territorio del
comune di Ciampino dentro la villa di Valerio Messala, uomo politico, scrittore
e promotore di un circolo letterario dell’età di Augusto,  sono state trovate sette statue ispirate dal
mito di Niobe e dei Niobidi, i suoi numerosissimi figli,  uccisi da Apollo e Diana per punire la
prolifica donna che aveva offeso la loro madre, Latona, rinfacciandole che era
stata capace di generare un solo maschio e una sola femmina.

Secondo Feuerbach,  Niobe rappresenta “la mater dolorosa dell’arte antica”. Molti scrittori, Omero, Eschilo,
Sofocle, Ovidio,
  Dante per nominare
soltanto i sommi, diversi scultori, compreso Fidia, e pittori hanno raffigurato
questo esempio di superbia e presunzione pagate con dolore pietrificante. Non
voglio fare una rassegna delle ricorrenti presenze di Niobe in letteratura, più
numerose dei figli di lei, ma commentare alcuni versi di Ovidio, un poeta
collegato al circolo di Messala, e al potere di Augusto, gioiosamente prima,
dolorosamente poi. Infatti, al culmine del
 successo, il Sulmonese cadde in disgrazia,
anche per un suo
carmen, ossia per
quanto aveva scritto, e, nell’8 d. C, sui cinquant’anni,
 venne relegato nel confino di Tomi, sul mar
Nero, nel luogo, allora barbarico, dove ora si trova Costanza con una statua
del poeta sul lungomare. Non credo che questo onore lo consoli. Infatti vi morì
addolorato una decina di anni più tardi, dopo avere cercato di farsi richiamare
a Roma con elegie supplichevoli e piene di desolazione. Invano. Il potere non
sopporta alcuna forma di indipendenza dello scrittore: Ovidio aveva osato
irridere il moralismo di Augusto e degli intellettuali organici al suo regime
che voleva restaurare gli
antiqui mores
con il matrimonio, la castità delle donne, la
pietas, la  fides, la pudicitia,   mentre dilagavano il cinismo, l’adulterio, il
tradimento e così via





Il nostro autore fu,
secondo la definizione di Petrarca, un poeta
 lascivus et lubricus et prorsus mulierosus
(De vita solitaria 2,7,2), insomma un donnaiolo
dissoluto. In effetti   nelle sue elegie aveva celebrato il cultus, la cura della persona, la
libertà sessuale delle donne e degli uomini, perfino il libertinaggio. Arrivò a
deridere la castità, tra l’altro. Ricordo solo l’irrisorio “casta est quam nemo
rogavit

 (Amores, I, 8, 44), è casta
quella cui nessuno ha fatto proposte. 


Venne
dunque accusato di essere un maestro di
immondo adulterio come scrive  lui stesso
:"arguor obsceni doctor adulterii "
(Ars amatoria, II, 212.


 L’imperatore aveva promulgato, in più riprese,
leggi contro l’adulterio, e, sebbene lui, personalmente, in privato, lo
praticasse di continuo, non poteva ammettere che un suo suddito, e quasi
“cliente”, lo celebrasse.


Augusto, secondo Svetonio, faceva sesso più
per calcolo che per libidine: andava a letto con le donne dei suoi nemici quo facilius consilia adversariorum per
cuiusque mulieres exquireret
" (Vita
di Augusto
69), per indagare più facilmente i disegni degli avversari
attraverso le mogli di ognuno di loro.


 L’erede di Cesare fa venire in mente l’atteggiamento
ipocrita e supponente di certi politici nostri coevi che si dichiarano paladini
del matrimonio monogamico, costituito da un maschio e da una femmina dediti
l’uno all’altra per tutta la vita, mentre
loro hanno divorziato almeno una volta e “tengono” più di una famiglia, e
magari per questo si sentono anche autorizzati a rubare. 





Ma veniamo al mito di
Niobe: un esempio  di ybris spietatamente punita.


 Ovidio lo racconta  nei versi 146-312 del VI libro delle sue Metamorfosi, un poema epico di quindici
libri  che  narra in esametri la storia del mondo dall'origine
all'età dell’autore attraverso una serie di episodi che hanno in comune il tema
della trasformazione.


La filosofia del poema,
composto fra l'1 e l'8 d. C. , è che tutta la natura è


imparentata
con se stessa, che tutto scorre e ogni immagine si forma fluttuando :"Cuncta fluunt,
omnisque vagans formatur imago
" (XV, 
178).





 Niobe dunque era orgogliosa della sua numerosa
progenie. Era di origine Lidia, ma viveva a Tebe, la città tragica per
eccellenza, di cui suo marito Anfione aveva eretto le mura muovendo le pietre
con il suono della lira.


Ma la donna non era
fiera di questo, né di essere figlia di Tantalo,  che aveva banchettato con gli dèi, e la
nipote di Atlante che reggeva il mondo sulle spalle, bensì era orgogliosa dei
propri figlioli difficili a contarsi: Ovidio gliene attribuisce quattordici;
Omero “solo” dodici, Saffo diciotto, sempre metà maschi metà femmine.


Niobe può essere dunque
presa ad esempio di donna che si realizza nella maternità, un modello assai
fuori moda oggi, eppure tutt’altro che spregevole. Non depone a sfavore delle
donne e della loro condizione il fatto che siano una minoranza nei vari
parlamenti, quando sono in maggioranza nei luoghi dello studio e della ricerca
e dal momento che hanno la facoltà esclusiva di metterci al mondo nutrendoci
con il loro corpo. Il potere è spesso un nucleo di male che offende la vita.
Basta pensare ai soldi sottratti ai pensionati per comprare  sottomarini e bombardieri.


La Niobe di Ovidio dunque si sente sette volte superiore a
Latona che ha generato un settimo dei quattordici figli suoi, ossia soltanto
Apollo e Diana.


E si proclama felix, fertile e felice, e  dichiara che lo sarà per sempre (felixque manebo, VI, v. 192).


 C’è da notare, tra l’altro che felix è etimologicamente imparentato con
fecundus, fertile, con femina, con filius e con felicitas.


Infatti, come può
esserci fertilità e felicità senza la donna?


Senza la donna non c’è
nemmeno la vita.


  Le donne di Tebe, ingiunge la regina Niobe,
non devono onorare Latona che si può considerare sterile in confronto a
lei.  


I figli di Latona però,
non erano due ragazzi qualunque, di quelli fiacchi e piagnucoloni, magari
fannulloni disoccupati, ma erano figli di Giove, cioè dèi dal potere forte, mentre
Tantalo, il padre di Niobe,  faceva
oramai parte della mitologia inferiore ed era già caduti in disgrazia.


Opporsi ai poteri forti
è molto pericoloso, spesso mortale. Basta pensare alle stragi nostrane.


 I due dunque promisero alla madre di vendicarla.
Detto fatto. Scesero su Tebe, e Apollo si mise subito ad ammazzare, a uno a
uno, con colpi di freccia i sette Niobidi, tutti belli e sani fino a quel
momento, senza risparmiarne nessuno. Il padre loro, Anfione, si uccise, mentre
la madre, la nostra Niobe, rimase stupefatta e sdegnata da tanta crudeltà.
Quindi si gettò sui cadaveri baciandoli. Allora la regina prolifica si
capovolse da segno di invidia a oggetto di compassione. E’ il ribaltamento dei
ruoli che succede spesso nella pur brevissima vita degli uomini, ci insegnano i
classici. Noi passiamo la vita sfilando mascherati in una processione, e ogni
tanto cambiamo maschera e parte.  


Eppure Niobe non si
piega, e grida a Latona che lei continua pur sempre a esserle superiore come
madre, grazie alle sette figlie superstiti. A questo punto interviene Diana e
comincia  a tirare le frecce sulle
ragazze che stavano, vestite a lutto, davanti alle bare fraterne. E’ la volta
del femminicidio.


Perché ho usato il
tempo presente in queste ultime righe? Per imitare Ovidio che nel descrivere la
strage, alterna i tempi passati con il presente, non per vezzo o stravaganza
letteraria, ma perché vuole significare che certi fatti sono sempre attuali. Quante
ragazze innocenti infatti vengono  ammazzate ancora oggi, non dall’ira degli dèi,
ma dalla furia di maschi folli e feroci?


La madre cerca di
salvare l’ultima, la più piccola, coprendola con il corpo e chiedendo a Diana
di risparmiarla. Invano. Anche questa le viene uccisa.


Allora Niobe si
irrigidì nello strazio e si fece di sasso, tutta, fin dentro le viscere: “ intra quoque viscera saxum est (VI,
309). Tuttavia piange (flet tamen, 310) e trasportata ove nacque, in
Lidia, sul Sipilo, come pietra di forma umana, versa, e verserà per sempre,
gocce di pianto sulle altre rocce della montagna.


Vedremo le statue
romane che traducono in marmo questo mito, e intanto impariamo a non
inorgoglirci troppo per i successi, e a non inabissarci nello sconforto per gli
insuccessi: dobbiamo arrivare a capire quale ritmo regoli la nostra vita di
uomini, lunga, cioè breve, come cento vite di foglie messe insieme  quando va molto bene





giovanni ghiselli  g.ghiselli@tin.it.





NOTE:


[1]
Poema epico di quindici libri in esametri. Narra la storia del mondo dall'origine
all'età contemporanea attraverso racconti che hanno in comune il tema della
metamorfosi.  Fu composto fra l'1 e l'8
d. C
.

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