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William Blake, Pity |
Voglio rivedere e illustrare questo mito che mi sta molto a
cuore poiché insegna che dobbiamo restare fedeli al nostro carattere una volta
che l’abbiamo scelto, ossia individuato tra le varie possibilità.
Er, Panfilio di stirpe, era morto in guerra, ma al
dodicesimo giorno, quando si trovava già sulla pira, tornò in vita e raccontò quello che aveva
visto nell’aldilà (Platone, Repubblica,
614b).
Er disse che l’anima, quando esce dal corpo, si incammina, con molte altre, verso un luogo
soprannaturale eij~ tovpon tina; daimovnion , un prato, dove ci sono due
voragini (cavsmata. 614c) contigue,
nella terra, e altre due nel cielo di
fronte, in alto.
In mezzo a queste aperture siedono dei giudici i quali
ordinano ai giusti di procedere in alto a destra attraverso il cielo (eij~ dexiavn te kai; a[nw dia; tou` oujranou`) e agli ingiusti di precipitare in basso a
sinistra.
A Er i giudici dissero che doveva osservare e divenire
nunzio agli uomini delle cose
dell’aldilà (a[ggelon ajnqrwvpoi~ genevsqai
tw`n ejkei`, 614d).
Er dunque vedeva parte delle anime giudicate che salivano
verso il cielo per una delle due voragini volte in alto, parte scendevano nella
terra attraverso la voragine aperta verso il basso, mentre dalle altre due
aperture contigue scendevano dall’alto anime pure, e salivano dal basso anime
piene di lordura e di polvere (ejk th`~
gh`~ mesta;~ aujcmou` te kai; kovnew~).
Le anime giunte sul prato (eij~
to;n leimw`na, 614e) vi si attendavano come per un consesso festoso e si
salutavano, quante si conoscevano.
Quelle che venivano da sotto terra rievocavano piangendo il
loro viaggio ipogeo di mille anni (ei\nai
de; th;n poreivan cilievth, 615).
Quelle che venivano dal cielo invece facevano un racconto di
delizie e di spettacoli straordinari per la bellezza (eujpaqeiva~ dihgei`sqai kai; qeva~ ajmhcavnou~ to; kavllo~).
I puniti raccontavano che di ogni ingiustizia avevano pagato
il fio dieci volte tanto, ossia avevano subito dolori dieci volte maggiori di
quelli inflitti, e i premiati corrispettivamente ricordavano che pure i
benefici erano stati ricompensati in misura dieci volte maggiore.
Più grandi erano le retribuzioni per l’empietà e la pietà
verso gli dèi e i genitori e per le uccisioni di propria mano.
Il giudizio delle anime nel Gorgia di Platone.
Nel Gorgia c’è il racconto del giudizio delle anime. In
questo dialogo platonico Socrate dice a Callicle, il sofista fautore del
diritto del più forte, che al tempo di
Crono e all’inizio del regno di Zeus, c’erano giudici viventi che giudicavano
uomini ancora vivi, emettendo sentenze nel giorno in cui era destino che i
giudicati morissero. Ma i giudizi erano errati (kakw`~
ou\n aiJ divkai ejkrivnonto, 523b). Così succedeva che nel carcere del
Tartaro finissero i giusti e nelle isole dei beati i malvagi. Zeus comprese che
gli errori giudiziari dipendevano dal fatto che i giudici vivi emettevano sentenze su dei vivi,
e questi potevano trarre in inganno poiché
le anime malvagie erano rivestite con
corpi attraenti, autorizzate da stirpi illustri, coperte da ricchezze, e
aiutate da molti testimoni che davano false testimonianze (523c).
I giudici ne
restavano impressionati e condizionati.
Allora Zeus disse che gli uomini non dovevano conoscere in
anticipo il giorno della loro morte. Inoltre sarebbero stati giudicati del
tutto privi di orpelli, cioè da morti. Anche il giudice doveva essere nudo e
morto, così da penetrare direttamente con lo sguardo nell’anima di ciascun giudicato.
E veniva vietato il seguito di parenti.
Zeus designò quali
giudici tre figli suoi: Minosse[1] e
Radamanto[2]
provenienti dall’Asia, Eaco[3] dall’Europa. Il giudizio doveva avere luogo
nel prato di asfodeli, ejn th`// triovdw/
ejx h|~ fevreton tw; oJdwv (524a) nel triodo dal quale si dipartono due
vie: una porta all’isola dei beati, l’altra al Tartaro[4].
Socrate prosegue il racconto ricordando a Callicle che i
cadaveri conservano segni della vita vissuta. Se uno da vivo aveva le membra
rotte o contorte (kateagovta mevlh h]
diestrammevna, 524c), tali deformità sono evidenti anche nel
cadavere. Ebbene, questo avviene anche
per l’anima che prende delle segnature secondo il modo di comportarsi degli
uomini.
Quando il Gran Re d’Asia, per esempio, o un altro sovrano si
presenta davanti a Radamanto, questo vede che l’anima di molti dinasti è piena
di piaghe (oujlw`n mesthvn) causate
da spergiuri e ingiustizia (uJpo;
ejpiorkiw`n kai; ajdikiva~, 525a) che marchiano l’anima.
Tutto è distorto dalla menzogna e dalla impostura e non c’è nulla di retto poiché l’anima è
cresciuta lontana dalla verità (panta
skolia; uJpo; yeuvdou~ kai; ajlazoneiva~ kai; oujde;n eujqu; dia; to; a[neu
ajlhqeiva~ teqravfqai).
Radamanto vedendo
l’anima piena di disordine e bruttura (ajsummetriva~
te kai; aijscrovthto~ gevmousan), la caccia direttamente e con ignominia
in carcere, dove subirà i giusti patimenti.
Le anime curabili, qui nella terra e nell’Ade, traggono
giovamento dalle sofferenze e dai dolori. E’ il tw`/
pavqei mavqo~ di Eschilo[5].
Ma ci sono anche quelli che hanno coomesso ingiustizie
estreme e per queste sono diventati incurabili (ajnivatoi525c),
ebbene questi restano sospesi nel carcere dell’Ade a fare da esempi negativi:
la visione delle loro pene diventa un monito per quelli che li vedono. La
maggior parte di questi esempi negativi sono tiranni, re, dinasti e politico.
Omero ha voluto significare questo collocando tra i tormenti dell’Ade Tantalo, Sisifo e
Tizio[6].
Tersite e altri che furono malvagi da privati cittadini, non subiscono pene
eterne. Socrate ne deduce che i più malvagi appartengono al numero dei potenti,
anche se non è detto che tutti i potenti siano dei farabutti. Alcuni sono delle
eccezioni alla regola della loro casta e sono da ammirare poiché è meritorio
vivere da persone giuste avendo la possibilità di fare del male.
Del re di Persia in precedenza Socrate aveva detto a Polo
che ignorava se fosse felice in quanto non sapeva come stesse a educazione e a
giustizia (ouj ga;r oi\da paideiva~ o{pw~
e[cei kai; dikaiosuvnh~, 470e). Sono questi i criteri di giudizio della
felicità.
Ma torniamo alla Repubblica
platonica e al mito di Er.
Un esempio negativo molto evidente di cui Er aveva sentito
dire era quello del grande criminale Ardieo ( jArdiai`o~
oJ mevga~, 615 c). Costui era diventato tiranno in una città della
Pamfilia, mille anni prima, e aveva ucciso padre, fratello, non senza molte
altre scelleratezze. Chi l’aveva incontrato disse che quell’orribile criminale
non sarebbe mai arrivato nel prato del consesso festoso. Infatti era uno di
quelli così inguaribilmente malvagi (ti~
tw`n ou{tw~ ajniavtw~ ejcovntwn eij~ ponhrivan, 615c) che non potevano
risalire. La maggior parte di questi incurabili erano tiranni. Quando si
avvicinavano alla bocca d’uscita, questa emetteva un muggito (ejmuka`to)
Allora intervenivano uomini a[grioi,
diapuvroi ijdei`n (615 e) selvaggi, infuocati a vedersi che afferravano tali delinquenti e li portavano
via. I pessimi come Ardieo , venivano legati mani, piedi e testa, buttati a
terra, scorticati, trascinati fuori strada su piante spinose e gettati nel
Tartaro.
Dopo sette giorni passati nel prato dunque, le anime
dovevano viaggiare per quattro giorni finché giungevano in un luogo da dove
vedevano dall’alto una luce diritta (fw`~
euquv) distesa per tutto il cielo
e la terra (dia; panto;~ tou` oujranou`
kai; gh`~) come una colonna (oi|on
kivona, 616c), molto simile all’arcobaleno, ma più fulgida e pura.
Questa è l’anima del mondo.
Le anime degli umani camminavano un altro giorno e, arrivati
a metà della luce, vedevano teso dalle due estremità il fuso di Ananche (ejk de; tw`n a[krwn tetamevnon jAnavgkh~ a[trakton), l’asse
dell’universo attraverso cui avvengono tutti i movimenti circolari. Il fuso
aveva otto fusaioli (ojktw; ga;r ei\nai
tou;~ xuvmpanta~ sfonduvlou~, 616d), i contrappesi del fuso, racchiusi
gli uni negli altri.
Questi fusaioli rappresentano il cielo delle stelle fisse e
i sette pianeti. Partendo dall’esterno: Stelle fisse, Saturno, Giove, Marte,
Mercurio, Venere, Sole, Luna. Così nel Timeo.
E’ l’ordine pitagorico.
Il fuso si volgeva sulle ginocchia di
Ananche.
Su ognuno dei fusaioli circolari che rotavano lentamente
incedeva in alto una Sirena sumperiferomevnhn
(617b) tratta anch’essa nel moto circolare mentre emetteva una voce in
armonia con quella delle altre sette.
Le Sirene
“Chi sono veramente le Sirene? Esseri oscuri del mondo
sotterraneo, come voleva Platone nel Cratilo?[7] O,
come Platone stesso, con esemplare sublimazione ed implicita auto-decostruzione,
proponeva nella Repubblica, esseri
celesti che intonano la musica delle sfere nel mondo futuro[8];
quindi, per un’età successiva, ‘angeli’? Simboli del desiderio mondano e del
piacere dei sensi, cortigiane e prostitute, come credeva l’ellenismo, o icone del
sapere, sul tipo delle doctae sirenes
celebrate da Ovidio?”[9].
Ovidio nel V libro delle Metamorfosi
racconta che le doctae Sirenes,
figlie di Acheloo, erano compagne di Proserpina quando la figlia di Demetra
sparì, cum legeret vernos Proserpina flores (v. 554), mentre raccoglieva i
fiori primaverili. Come la Kore
scomparve, rapita da Plutone, le Acheloidi la cercarono per tutta la terra, poi
vollero volare sul mare sperando di rintracciarla.
Per questo divennero
alate. Ma conservarono volti virginei e voce umana (563), perché non perdessero
la facoltà del canto, ille canor mulcendas natus ad auras (561), fatto
per incantare gli orecchi.
Nell’ultimo libro delle Argonautiche
di Apollonio Rodio, Orfeo con il suo
canto neutralizza quello delle Sirene appostate sull’isola Antemoessa,
usualmente identificata con degli scogli
vicini a Sorrento. Esse sembravano in parte uccelli e in parte giovani donne,
incantavano e uccidevano con il loro canto, ma la cetra di Orfeo ebbe la meglio
sulla voce delle fanciulle che mandavano suoni indistinti. Soltanto Bute ne fu
affascinato e saltò in mare: le Sirene lo avrebbero ucciso, ma lo salvò
Afrodite, la dea protettrice di Erice e gli assegnò il promontorio Lilibeo per
dimora. (Argonautiche, 4, 892 sgg.).
Sembra che Apollonio voglia indicare una contrapposizione tra musica
benigna e maligna.
continua
[1] Cfr. Odissea, XI, 568-571, Virgilio, Eneide,
VI, 432 e Dante Inferno , V, 34 e
sgg.
[2] Cfr. Odissea, IV, 563-565
[3] Cfr. Pindaro, Istmica VIII, 26
[4] Cfr. Virgilio, Eneide
VI: hic locus est, partis ubi se via
findit in ambas,
Questo è il luogo dove la via
si divide in due parti.
E continua:
la destra che tende sotto le
mura del grande Dite,
per di qua la nostra via
verso l’Elisio; ma la sinistra dei malvagi
mette in atto le pene e
all’empio Tartaro invia”.
[5] Agamennone, v. 177.
[6] Cfr. Odissea, XI, 576-600.
[7] 403d, Sono le sirene
ctonie evocate già nella parodo dell’Elena
di Euripide dove Elena intona il
primo canto cui risponde il coro di donne greche rapite
dai corsari e vendute come schiave in Egitto.
La figlia di Zeus dunque chiama le Seirh`ne~ (v. 169)
pterofovroi neanivde~ ragazze
alate (v. 167), vergini figlie della terra parqevnoi
Xqono;~ kovrai (v. 168): le invita a venire compagne ai suoi gemiti con il flauto libico o le zampogne
, lacrime, canti di pianto accordati con
i suoi desolati lamenti, dolori per
dolori, canti per canti . Le Sirene erano rappresentate nei monumenti funebri
ndr
[8] Nella mito di Er della Repubblica, Platone racconta che
l’asse dell’universo, si volgeva sulle ginocchia di Ananche e che il
fuso era bilanciato da otto fusaioli, emisferi concentrici su ognuno dei quali
incedeva una sirena, tratta anch’essa nel moto circolare, e da tutte otto che
erano risuonava una sola armonia ( ejk pasw`n de; ojktw; oujsw`n mivan aJrmwnivan sumfwnei`n, 617b)
[9] P. Boitani, L’ombra di Ulisse, pp. 27-28
Il mito di Er è affascinante anche perchè precorre la moderna psicologia , veramente che i classici parlano di noi . Con più spessore e chiarezza di tanti contemporanei.Grazie. Giovanna Tocco
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