Il dado è tratto!
Cesare giunge sul Rubicone (gennaio del 49) e gli parla la ingens visa
duci patriae trepidantis imago (Pharsalia I, 185). Roma
è vultu maestissima, canos effundens vertice crines, caesarie lacera, nudisque
lacertis con le chiome scompigliate
Roma parlava gemitu permixta.
Dice: “Si iure venitis, si cives, huc usque licet “(Pharsalia I,
192), è lecito solo fin qui. Non dovete procedere.
Ma Cesare
prega gli dèi, e Roma in particolar modo: Roma, fave coeptis (200)
asseconda l’impresa. Non vengo furialibus armis, con le armi delle
furie ma quale victor terraque marique, ubique tuus (…) miles (202),
dappertutto soldato tuo. “ille erit, ille nocens, qui me tibi fecerit hostem”
(203). Poi si ferma un momento come un leone totam dum colligit iram, quindi
si avventa con un balzo.
Il Rubicone
è il certus limes che separa le terre galliche da
quelle coltivate ab Ausoniis colonis (216). Era inverno e il
fiume era gonfio. Cesare, giunto sui campi d’Esperia, dice: i patti precedenti
siano lontani “te, Fortuna sequor procul hinc iam foedera sunto - credidimus
fatis, utendum est iudice bellum” (226 - 227). I patti del triumvirato (60)
sono lontani. Ci siamo affidati al destino e come giudice bisogna servirsi
della guerra.
Molto
diverso è il Cesare del De bello civili.
“Nella sua opera sulla Guerra civile Cesare non fa cenno a
quell’ispirazione divina a cui i suoi contemporanei ricondussero la sua grande
decisione della notte fra il 10 e l’11 gennaio: il passaggio del Rubicone. Il
Cesare di tutti noi, è, ancor oggi, l’uomo che disse allora: “il dado è tratto”; questo non è il
Cesare del Bellum civile, ma il Cesare delle Historiae scritte
dal suo ufficiale più “indipendente” e acuto: Asinio Pollione.
Nel suo racconto Cesare aveva voluto esporre le ragioni storico - giuridiche
della decisione presa, “condensate” in un’arringa ai soldati (B. C. I,
7)”[1].
Insomma la più famosa
fanfaronata di Cesare non ce l’ha raccontata lui stesso.
Ne De bello civili, Caesar
apud milites contionatur , e denuncia il fatto che nella repubblica si
sia introdotto novum exemplum… ut
tribunicia intercessio armis notaretur atque opprimeretur” (I, 7), il veto dei tribuni veniva
censurato e soffocato con le armi.
Perfino Silla che aveva spogliato la tribunicia potestas, tamen
intercessionem liberam reliquisse. Bisognava dunque andare a Roma per
ripristinare la legalità.
“Asinio, che ancora portava nell’animo il ricordo fascinoso del capo, e
tuttavia voleva a suo modo esercitare una critica “indipendente”, dipinse
invece un “passaggio del Rubicone” in cui il lettore ritrovava ancora l’ansia e
la gravità di quella decisione suprema”.
“Tra il racconto di Cesare, scritto forse verso il 46 a. C., e quello
di Asinio, che cominciò le
sue Historiae verso il 30, corrono quindici anni, o
più; ma la differenza non è solo nelle date; è più significativa e
radicale; Cesare, scrittore
“tucididèo”, ossia razionale, non poteva intendere abbastanza i momenti
irrazionali della sua stessa impresa (…) le Historiae di
Asinio potevano riflettere la vera situazione, in maniera più adeguata, senza
preoccupazioni apologetiche (…) Il Cesare autentico è però un incontro della
razionalità tucididèa (…) con la passione politica, che lo animò in questi momenti
decisivi”[3].
Cesare “Non permetteva, anche se ciò possa deluderla, che il suo cuore disponesse della sua testa”[4].
giovanni
ghiselli, Pesaro 3 agosto 2020 ore 17
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