Il
rosseggiare del cielo. Il pianto senza dolore. La fine dell'anno scolastico.
Ifigenia in calzoni corti davanti al portone delliceo. Gli incoraggiamenti a
scrivere questo romanzo.
Mia sorella, che nulla sapeva della
catastrofe, mi domandò perché non andassi anche io a scuola di recitazione.
Risposi che la mia libido tirava allo scrivere. La sera, dopo la bicicletta
faticosa e la povera cena, partii per Bologna. Il sole era tramontato da poco
dietro la Panoramica del colle San Bartolo: là dove il suo pendio più
scosceso si tuffa nell’Adriatico; da quella parte il cielo era infuocato. Una
nuvola, colpita dai i raggi infiammati del dio declinante nel mare colore del
vino, era rossa come di sangue. Mi
vennero in mente le mestruazioni di Ifigenia, e, ancora una volta, il
meriggio d'estate nel quale facemmo l'amore in un'aia deserta, infuocata
dalla canicola e insanguinata da lei.
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"La ragazza allora culminò nel mio
cielo. – pensai – Adesso tramonta. E'
stata sì l'incarnazione della carne,
ma anche quella del sole, la fiamma che nutre la vita"[1].
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Mentre la bianca Volkswagen attraversava il
borgo di Cattabrighe, finalmente piansi, quasi senza dolore. Il nostro amore
era finito quando doveva, né prima né dopo: infatti era arrivato il momento di
cominciare il libro con il quale avrei reso migliore me stesso e quanti mi
avrebbero letto. Mi consolava anche il pensiero che la storia era stata
troncata da lei: così non avevo dovuto umiliarla o
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farle del male per proseguire il mio cammino
da solo, come era necessario oramai. L'iniziativa, se presa da me, poteva
essere perniciosa per Ifigenia che non aveva i mezzi difensivi con i quali io
mi stavo salvando.
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"Tu dovrai essere sempre felice
creatura" le dicevo, quando la vedevo contenta. Se lo sarebbe stata
davvero, e glielo auguravo, non dipendeva più da me. Se era affare
dell'attore famoso, povera creatura mia, stava fresca.
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La notte dormii. La mattina seguente, e
siamo tornati al punto di partenza del circolo formato da queste centinaia di
pagine, non feci lezione: mancava mezza
classe siccome sabato 13 il preside aveva annunciato la fine dell'anno
scolastico. Ai ragazzini andava bene non concludere il lavoro su Demostene, a
me anche. Infatti era necessario che cominciassi questo lavoro, di interesse
più generale. Conversai con i pochi presenti: mi trovarono meno infelice di venerdì
mattina. In effetti, sapevo con certezza ciò che volevo.
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All'uscita la vidi: era davanti al portone
del liceo. Aveva dei calzoni corti che lasciavano vedere le gambe fino a metà
coscia. Mi venne incontro.
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"Ciao
– feci - come va?"
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"Bene,
e a te Gianni?"
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“Non c'è male".
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"Vuoi che parliamo?" domandò.
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"Sì certo – risposi - ma non qui.
Andiamo da me".
Eravamo entrambi con la bicicletta.
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Arrivati a casa mia, disse che a Riccione si
era inserita nell'ambiente che la
interessava; in particolare aveva conosciuto un regista di Genova che
le aveva offerto una parte in una commedia ambientata in Irlanda: le era
tornato in mente quanto avevamo detto sull'Hibernia dell’Ulisse di Joyce
.
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"E tu che cosa hai fatto?"
chiese.
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"Ho pensato, ho annotato pensieri e
fatti. Oggi comincio a raccontare la nostra storia, per capire e fare capire,
per restare altro tempo con te, e per renderti eterna. Perché le azioni
grandi e meravigliose compiute da noi due, citai Erodoto[2] non
senza ironia, ma soprattutto da te, rimangano luminose e vive nella memoria degli uomini. Va bene? Così, mentre
tu avrai il tuo da fare per inserirti nello spettacolo, io avrò il mio per
trovare lo stile dell'universale e per conquistare l'immortalità. Anzi, se i
nostri propositi avranno successo, forse un giorno, quando che sia, per me ci
vorranno anni, potremo rimetterci insieme. L'arte, la gloria, l'educazione di
un popolo, giustificherebbero i dolori che ci siamo inflitti a vicenda, e
smentirebbero il fallimento finale. Non credi?"
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"Lo spero. Tu comunque fai bene a
scrivere, Gianni. Hai talento. Adesso è arrivato il momento di metterci tutte le forze; non puoi rimandare".
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"Lo so. Adesso infatti ti accompagno
di sotto, poi comincio".
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Erano le due di lunedì 15 giugno 1981. Nel
mio studio c'era un caldo pesante. Eravamo sudati.
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Gianni Ghiselli
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