Nel pomeriggio andai a correre, poi a nuotare, quindi contai quante volte batteva il cuore mio in sessanta secondi: quarantotto. “Segno di buona salute” , pensai, non senza sorridere di contentezza. Il battito brachicardico evocava l’eroe della mia infanzia, Fausto Coppi, che aveva una frequenza ancora più bassa della mia.
Se una donna della mia levatura mi avesse motivato e aiutato, se avesse acceso il mio animo, avrei compiuto cose egregie anche io.
Mentre tornavo dalla piscina, verso le sei ed ero arrivato davanti alla porta del secondo collegio, mi venne incontro un messaggero sconosciuto, un a[gnwsto" a[ggelo" che mi domandò se fossi gianni ghiselli e mi consegnò un telegramma. Lo presi e pensai: “vediamo se questo messo mi è stato inviato dal buon Dio o da qualche demone equivoco”
Era della mia donna. Diceva: “sono a Bologna. Telefonami questa sera alle nove. Ti amo tanto. Mi fido. Fidati. Ifigenia”.
Non avevo ancora smaltito del tutto l’emozione dubitosa delle due cartoline quando mi fu consegnato questo messaggio più preciso e perentorio. Erano già passate le sei e un quarto: volevo rispondere alla richiesta, obbedire all’imperativo della bella donna, poi andare alla festa dell’addio per ricordare e abbellire dell’altro le tracce antiche di quei congedi lontani; sicché dovevo salire le scale di corsa, eppure attento a non inciampare, fare una doccia in gran fretta ma senza scivolare magari su una saponetta lasciata cadere da qualcuno, poi andare alla posta il più rapidamente possibile, siccome per avere la linea bisognava attendere molto e alle 10 iniziava la serata solenne mentre la posta chiudeva. Volevo sentire Ifigenia, chiederle per quale arcana ragione non mi avesse mandato mai l’espresso più volte annunciato, e, se avesse risposto in maniera appena plausibile, le avrei detto che l’amavo anche più di prima della nostra separazione penosa.
Mi lanciai dunque a fare la doccia, mi lavai i capelli, poiché volevo essere al meglio, non tanto per la notte dei tanti saluti , quanto per parlare con lei, pur solo al telefono, del tutto aniconico allora.
Mi resi dunque il più possibile attraente e seduttivo per Ifigenia senza che lei potesse vedermi.
Come feci nel gennaio del 1978 quando volli lavarmi e indossare le lenti a contatto prima di dare il bacio di addio alla carissima nonna Margherita morta il giorno prima. Erano le sette della mattina e la mamma mi aveva svegliato perché andassi a dare l’ultimo bacio alla madre sua Margherita. Dovevo fare presto: i becchini impazienti, insolenti, avevano fretta di chiudere la bara con il coperchio di legno e metallo, con i chiodi e le viti e con una fiamma bluastra per giunta. Pregai la mamma di trattenerli: mi lavai i denti, mi ficcai negli occhi le lenti di plastica, quindi scesi le scale di corsa e andai a baciare la nonna Margherita che da viva, quando mi vedeva con il volto sciupato dagli occhiali diceva: “gianni, non presentarti da me in questo stato: così perdi il meglio di te e non assomigli più al tuo nonnaccio che era un gran porcaccione, ci provava con tutte, fino alla serva domestica, ma era comunque un bellissimo uomo alla tua età”.
Li ricordo entrambi con affetto e gratitudine grandi. Ho preso molto di buono da ciascuno di loro.
Dopo la doccia con shampoo dunque, con la testa ancora bagnata e gocciolante, non come quella della Gorgone Medusa decapitata da Perseo, per fortuna, nel senso che non perdevo gocce di sangue o di veleno, uscìi dal collegio di corsa e passai sul ponte di legno che rispose ai miei balzi con lieto rumore. Avevo deciso di attraversare il bosco velocemente per prendere il tram numero uno siccome con l’automobile, ritardata dai sensi vietati, ci sarebbe voluto più tempo.
Verso le sette il sole, già molto stanco del volo, declinava nel suo rifugio notturno e l’autunno aggrediva l’estate con violenza non dissimulata: le foglie non più illuminate, del tutto sbiadite e appassite, battute da un vento nordorientale già quasi freddo , rinforzato per giunta dal risucchio del tram, cadevano al suolo concludendo non senza rimpianto la loro breve stagione; le corolle dei fiori decolorati si piegavano rabbrividendo fino a toccare la terra nera e resa mézza dalla guazza del vespero, come una folla di schiavi si inchina davanti a un tiranno.
A me invece quella sera di autunno precoce non faceva piegare le ginocchia dell’anima. Presto avrei sentito la voce calda e amabile della mia donna, entro pochi giorni ne avrei rivisto il viso splendidamente abbronzato dal sole d’oro di Siracusa dorica e avrei accarezzato di nuovo la pelle liscia e profumata del suo corpo intero: le guance, le mani, le braccia, il collo, le cosce, il ventre suo. Avrei tratto nutrimento e salute dal suo seno ricco di vita , dalle labbra di lei saporite di gioventù, di estate, di vita. E finalmente avremmo fatto l’amore in casa mia, nel letto dei nostri tripudi gioiosi, innumerevoli volte. Chi avrebbe potuto contarle? Li avremmo mescolati e confusi perché nessun invidioso maligno potesse lanciarci il malocchio sapendo quanto eravamo capaci di amare. Avremmo altresì parlato dei lunghi giorni trascorsi durante il mese passato da soli, dei nostri pensieri, delle nostre letture. Questo meditavo, illudendomi, durante il tragitto nel tram che traballava. Invero la giovane donna dell’inverno e della primavera passate, non l’avrei trovata mai più.
Entrai nella grande sala della posta centrale e chiesi la comunicazione con Bologna. Mentre aspettavo, osservavo le persone in attesa. Notai un’ospite del collegio universitario: una finlandese senza colore e svuotata di vita, anche lei, come i fiori e le foglie. Per contrasto mi fece desiderare più che mai la mia donna bella, bruna e vivace, mediterranea e abbronzata come la musica di Bizet, la giovane amante che nelle membra adunava la luce del sole e con il sorriso la riproponeva irraggiandone chi aveva il privilegio di starle vicino. Quel fortunato, quell’uomo felice, ero io
Tali pensieri lieti mi aiutavano a passare il tempo mentre aspettavo il contatto vocale che avrebbe consentito una prima verifica.
All’ora della chiusura però la comunicazione non era giunta, sicché dovetti annullare la chiamata. Ne avrei fatta un’altra la mattina seguente. Uscìi dall’ufficio postale che era notte: il volgere delle settimane aveva già sottratto quaranta minuti di luce alle belle giornate giugno. Aspettavo il tram numero uno sotto l’insegna luminosa e circolare Hotel Aranybika.
Mi tornò in mente la sera antica quando lessi quelle lettere per la prima volta, nel luglio del 1966. Allora mi sentivo completamente desolato nel mondo. Mi accompagnava soltanto la pena. Due anni prima avevo smarrito la mia identità di studioso e sportivo bravo e non riuscivo a ritrovarla né a trovarne un’altra. Per giunta mi sentivo sperduto in quel paese dall’idioma incomprensibile, in quella landa all’estremo confine del mondo civile quale credevo che fosse.
Eppure speravo che qualche cosa di buono potesse accadermi ancora siccome ero molto infelice e mi sentivo brutto assai, ma avevo coscienza di non essere cattivo né scemo del tutto.
In qualche maniera pre-sentivo che in quella terra avrei fatto gli incontri della salvezza. L’ amicizia di Fulvio e la trilogia amorosa con le finlandesi.
Tre storie iniziate con una ricerca, proseguite con un approccio, incoronate dalla felicità che me le fa ricordare come le più belle della mia vita e me le ha fatte raccontare[1], pure con una fine non lieta: ciascuna dunque comprensiva di peripezia, riconoscimento, catastrofe al pari di un dramma dalla trama complessa.
Nel tempo della terza, quello di Päivi, non avevo ancora compiuto i trenta anni e non ero abbastanza maturo per comprendere i movimenti profondi del divenire dell’anima umana.
Nel ’79 cui siamo arrivati avevo capito qualche cosa di più e avevo rinunciato a mettere schemi sulle persone, sulla realtà multiforme e cangiante, a segnare la via della vita con lapidi prefissate. L’unica pietra sicura era quella del funus. Indeterminata nel tempo, però inevitabile. A dire il vero nemmeno quel sasso che possa distinguere le mie dalle infinite ossa che la morte semina ovunque è assicurato per me. Senza figli come sono, le mie ossa possono rimanere confuse con tante altre. Oramai non me ne importa più nulla.
Lascio le mie parole a quanti mi leggono. Sono il mio bene più prezioso cercato per tutta la vita.
Ero contento di tornare in Italia. Quell’anno non dovevo dire addio all’amore che saliva su un treno per sparire sine die nel gelo e nel buio dell’inverno iperboreo.
Sparita la bella, ogni volta cantavo malinconicamente
”Sento già che il treno va,
sento giá che il treno va,
sento già che, insieme a te,
lontano va”. Ma non piangevo: capivo che era bene così.
Nell’agosto del 1979 andava meglio: stavo per tornare in una città che mi piaceva, dove avevo un ruolo di educatore che poteva crescere ancora, dove avrei trovato una donna giovane e bella assai, pronta a fare l’amore con me diverse volte al dì, e c’era pure qualche sodale già messo alla prova dal volgersi di tante stagioni, in particolare un amico fraterno temprato e garantito come autentico: Fulvio.
Bologna 31 maggio 2025 ore 18, 54 giovanni ghiselli
p. s.
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