sabato 31 maggio 2025

Ifigenia CXLIII - Un altro telegramma. La corsa verso il telefono.


 

 

 

Nel pomeriggio andai a correre, poi a nuotare, quindi contai quante volte batteva il cuore mio in sessanta secondi: quarantotto. “Segno di buona salute” , pensai, non senza sorridere di contentezza. Il battito brachicardico  evocava l’eroe della mia infanzia, Fausto Coppi, che aveva una frequenza ancora più bassa della mia.

Se una donna della mia levatura mi avesse motivato e aiutato, se avesse acceso il mio animo,  avrei compiuto cose egregie anche io.

 

Mentre tornavo dalla piscina, verso le sei ed ero arrivato davanti alla porta del secondo collegio, mi venne incontro un messaggero sconosciuto, un a[gnwsto" a[ggelo"  che mi domandò se fossi gianni ghiselli e mi consegnò un telegramma. Lo presi e pensai: “vediamo se questo messo mi è stato inviato dal buon Dio o da qualche demone equivoco”

Era della mia donna. Diceva: “sono a Bologna. Telefonami questa sera alle nove. Ti amo tanto. Mi fido. Fidati. Ifigenia”.

 

Non avevo ancora smaltito del tutto l’emozione dubitosa delle due cartoline quando mi fu consegnato questo messaggio più preciso e perentorio. Erano già passate le sei e un quarto: volevo rispondere alla richiesta, obbedire all’imperativo della bella donna, poi andare alla festa dell’addio per ricordare e abbellire dell’altro le tracce antiche di quei congedi lontani; sicché dovevo salire le scale di corsa, eppure attento a non inciampare, fare una doccia in  gran fretta ma  senza scivolare magari su una saponetta lasciata cadere da qualcuno, poi andare alla posta il più rapidamente possibile, siccome per avere la linea bisognava attendere molto e alle 10 iniziava la serata solenne mentre la posta chiudeva. Volevo sentire Ifigenia, chiederle per quale arcana ragione non mi avesse mandato mai l’espresso più volte annunciato, e, se avesse risposto in maniera appena plausibile, le avrei detto che l’amavo anche più di prima della nostra separazione penosa.

Mi lanciai dunque a fare la doccia, mi lavai i capelli, poiché volevo essere al meglio, non tanto per la notte dei tanti saluti , quanto per parlare con lei, pur solo al telefono, del tutto aniconico allora.

Mi resi dunque il più possibile attraente e seduttivo per Ifigenia senza che lei potesse vedermi.

 

Come feci nel gennaio del 1978 quando volli lavarmi e indossare le lenti a contatto prima di dare il bacio di addio alla carissima nonna Margherita morta il giorno prima. Erano le sette della mattina e la mamma mi aveva svegliato perché andassi a dare l’ultimo bacio alla madre sua Margherita. Dovevo fare presto: i becchini impazienti, insolenti, avevano fretta di chiudere la bara con il coperchio di legno e metallo, con i chiodi e le viti e con una fiamma bluastra per giunta. Pregai la mamma di trattenerli: mi lavai i denti, mi ficcai negli occhi le lenti di plastica, quindi scesi le scale di corsa e andai a baciare la nonna Margherita che da viva, quando mi vedeva con il volto sciupato dagli occhiali diceva: “gianni, non presentarti da me in questo stato: così perdi il meglio di te e non assomigli più al tuo nonnaccio che era un gran porcaccione, ci provava con tutte, fino alla serva domestica, ma era comunque un bellissimo uomo alla tua età”.

 Li ricordo entrambi con affetto e gratitudine grandi. Ho preso molto di buono da ciascuno di loro.

 

Dopo la doccia con shampoo dunque, con la testa ancora bagnata e gocciolante, non come quella della Gorgone Medusa decapitata da Perseo, per fortuna, nel senso che non perdevo gocce di sangue o di veleno, uscìi dal collegio di corsa e passai sul ponte di legno che rispose ai miei balzi con lieto rumore. Avevo deciso di attraversare il bosco velocemente per prendere il tram numero uno siccome con l’automobile, ritardata dai sensi vietati, ci sarebbe voluto più tempo.

Verso le sette il sole, già molto stanco del volo, declinava nel suo rifugio notturno e l’autunno aggrediva l’estate con violenza non dissimulata: le foglie non più illuminate, del tutto sbiadite e appassite, battute da un vento nordorientale già quasi freddo ,  rinforzato per giunta dal risucchio del tram, cadevano al suolo concludendo non senza rimpianto la loro breve stagione; le corolle dei fiori decolorati si piegavano rabbrividendo fino a toccare la terra nera e resa mézza dalla guazza del vespero, come una folla di schiavi si inchina davanti a un tiranno.

A me invece quella sera di autunno precoce non faceva piegare le ginocchia dell’anima. Presto avrei sentito la voce calda e amabile della mia donna, entro pochi giorni ne avrei rivisto il viso splendidamente abbronzato dal sole d’oro di Siracusa dorica e avrei accarezzato di nuovo la pelle liscia e profumata del suo corpo intero: le guance, le mani, le braccia, il collo, le cosce, il ventre suo. Avrei tratto nutrimento e salute dal suo seno ricco di vita , dalle labbra di lei saporite di gioventù, di estate, di vita. E finalmente avremmo fatto l’amore in casa mia, nel letto dei nostri tripudi gioiosi, innumerevoli volte. Chi avrebbe potuto contarle? Li avremmo mescolati e confusi perché nessun invidioso maligno potesse lanciarci il malocchio sapendo quanto eravamo capaci di amare. Avremmo altresì parlato dei lunghi giorni trascorsi durante il mese passato da soli, dei nostri pensieri, delle nostre letture. Questo meditavo, illudendomi, durante il tragitto nel tram che traballava. Invero la giovane donna dell’inverno e della primavera passate, non l’avrei trovata mai più.

Entrai nella grande sala della posta centrale e chiesi la comunicazione con Bologna. Mentre aspettavo, osservavo le persone in attesa. Notai un’ospite del collegio universitario: una finlandese senza colore e svuotata di vita, anche lei, come i fiori e le foglie. Per contrasto mi fece desiderare più che mai la mia donna bella, bruna e vivace, mediterranea e abbronzata come la musica di Bizet, la giovane amante che nelle membra adunava la luce del sole e con il sorriso la riproponeva irraggiandone chi aveva il privilegio di starle vicino. Quel fortunato, quell’uomo felice, ero io

 

Tali pensieri lieti mi aiutavano a passare il tempo mentre aspettavo il contatto vocale che avrebbe consentito una prima verifica.

All’ora della chiusura però la comunicazione non era giunta, sicché dovetti annullare la chiamata. Ne avrei fatta un’altra la mattina seguente. Uscìi dall’ufficio postale che era notte: il volgere delle settimane aveva già sottratto  quaranta minuti di luce alle belle giornate giugno. Aspettavo il tram numero uno sotto l’insegna luminosa e circolare Hotel Aranybika.

Mi tornò in mente la sera antica quando lessi quelle lettere per la prima volta, nel luglio del 1966. Allora mi sentivo completamente desolato nel mondo. Mi accompagnava soltanto la pena. Due anni prima avevo smarrito la mia identità di studioso e sportivo bravo e non riuscivo a ritrovarla né a trovarne un’altra. Per giunta mi sentivo sperduto in quel paese dall’idioma incomprensibile, in quella landa all’estremo confine del mondo civile quale credevo che fosse.

Eppure speravo che qualche cosa di buono potesse accadermi ancora siccome ero molto infelice e mi sentivo brutto assai, ma avevo coscienza di non essere  cattivo né scemo del tutto.

In qualche maniera pre-sentivo che in quella terra avrei fatto gli incontri della salvezza. L’ amicizia di Fulvio e la trilogia amorosa con le finlandesi.

Tre storie iniziate con una ricerca, proseguite con un approccio, incoronate dalla felicità che me le fa ricordare come le più belle della mia vita e me le  ha fatte raccontare[1], pure con una fine non lieta: ciascuna dunque comprensiva di peripezia, riconoscimento, catastrofe  al pari di un dramma dalla trama complessa.

Nel tempo della terza, quello di Päivi, non avevo ancora compiuto i trenta anni e non ero abbastanza maturo per comprendere i movimenti profondi del divenire dell’anima umana.

Nel ’79  cui siamo arrivati avevo capito qualche cosa di più e avevo rinunciato a mettere schemi sulle persone, sulla realtà multiforme e cangiante, a segnare la via della vita con lapidi prefissate. L’unica pietra sicura era quella del funus. Indeterminata nel tempo, però inevitabile.  A dire il vero nemmeno quel sasso  che possa distinguere  le mie dalle infinite ossa che la morte semina ovunque  è assicurato per me. Senza figli come sono, le mie ossa possono rimanere confuse con tante altre. Oramai non me ne importa più nulla.

Lascio le mie parole a quanti mi leggono. Sono il mio bene più prezioso cercato per tutta la vita.

Ero contento di tornare in Italia. Quell’anno non dovevo dire addio  all’amore che saliva su un treno per sparire sine die nel gelo e nel buio dell’inverno iperboreo.

Sparita  la bella, ogni volta cantavo malinconicamente
Sento già che il treno va,
sento giá che il treno va,
sento già che, insieme a te,
lontano va”. Ma non piangevo: capivo che era bene così.

Nell’agosto del 1979 andava meglio:  stavo per tornare in una città che mi piaceva, dove avevo un ruolo di educatore  che poteva  crescere ancora, dove avrei trovato una donna giovane e bella assai, pronta a fare l’amore con me diverse volte al dì, e c’era  pure qualche sodale già messo alla prova dal volgersi di tante stagioni, in particolare un amico fraterno temprato e garantito come autentico: Fulvio.

 

 Bologna 31 maggio  2025 ore 18, 54 giovanni ghiselli

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[1] Nel romanzo Tre amori a Debrecen che si trova in prestito nella biblioteca Ginzburg di Bologna.

Simon Yates, il vincitore del Giro d’italia è poluvmhti~, come Odisseo.


 

Oggi Simon Yates, nato nel1992, ha vinto il Giro d’Italia  dia; mh`tin grazie all’intelligenza, l’astuzia, la capacità di cogliere il momento giusto. Il giro d’Italia.

 

I due rivali che hanno perso il giro: Isaac Del Toro (2003)  e Richard Carapaz (1993) questa mattina erano entrambi in vantaggio sul rivale più vecchio ma alla fine della tappa Del Toro ha dovuto lasciare il primo posto in graduatoria a Yates,  Carapaz il secondo a Del Toro,  perché hanno lottato tra  loro preferendo ostacolare l’uno la vittoria dell’altro piuttosto che darsi una mano per recuperare terreno sull’Inglese che aveva racimolato un piccolo vantaggio  nella penultima  salita.

Se avessero collaborato avrebbero potuto raggiungerlo, credo, e poi giocarsela tra loro nell’ascesa finale.  

Dunque la mh`ti~ del britannico ha prevalso. Non penso che Yates fosse il più forte dei tre. So che è il più vecchio e quello dalla minore rinomanza fra i tre.

Questa è stata una vittoria dell’intelligenza cioè dell’atleta  poluvmhti~ come era Odisseo. Ammiro sempre chi vince pur partendo poco reputato e non avvantaggiato.

 

Bologna 31 maggio 2025 ore 17, 16 giovanni ghiselli

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Feltri e la magistratura a proposito del caos di Garlasco.


 

Ieri sera Vittorio Feltri durante una trasmissione televisiva ha detto che la revisione del processo di Garlasco rivela una grande confusione e che “la magistratura è fuori di testa”.

Premesso che non si può parlare così in generale di nessun gruppo  di persone io credo che la confusione e il funzionamento non egregio che appare in molti mestieri e professioni deriva dal fatto che la scuola non funziona abbastanza bene da essere funzionale al benessere e all’ordine della società

La decadenza numerica del Liceo Classico è una della cause.

Faccio un esempio: una mia cugina romana nata nel 1935 non potè iscriversi a legge perché aveva fatto lo scientifico. Sicché suo fratello, del 1946,  si iscrisse al liceo classico Giulio Cesare e potè studiare legge alla Sapienza.

Io sono certo che determinate professioni richiedano lo studio serio e la  conoscenza del greco e del latino.

Un professionista che abbia studiato queste culture è vaccinato da tanti errori grossolani che possono inficiare il lavoro di persone anche oneste ma sprovviste di pensiero logico e di parole che sappiano comunicarlo con chiarezza.  

Tutte le scuole del resto dovrebbero essere gratuite, con tanto di presalario all’Università come ai tempi del mio studentato.

 

Bologna   31 maggio 2025 ore 12, 58

 

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Ifigenia CXLII Il calcolo positivo del Bene e del Male. Le due cartoline.


 

 

Dieci minuti dopo l’anestesia, il gentile odontoiatra con il trapano vorticoso forò due denti della fanciulla che poi sputò del sangue e, se pure non sentì molto male per via dell’iniezione, fastidiosa comunque, rimase così sbigottita che non poté trattenere qualche lacrima di compassione per sé.

La osservavo pensando: “probabilmente ogni uomo, persino il più avventurato, almeno una volta nel corso pur rapido della sua vita mortale, subisce una lacerazione cruenta nel corpo, destinato per giunta alla putrefazione nonostanti le cure, e sanguina e sente dolore; la vita però ci promette, e spesso mantiene, tanti momenti di gioia: prima di tutto l’amore quando nasce e cresce simultaneamente in due anime affini, una felicità di poco superata da quella divina, poi l’apprendimento, l’educazione ottenuta e donata, lo sport agonistico e no.

Se fai il calcolo del meno e del più ricordando il male e il bene: le botte, le ferite, le umiliazioni, le ingiustizie, le cattiverie, le calunnie subite da una parte; e dall’altra l’amore contraccambiato con reciproca felicità, il bene che fai e ti fanno, la giustizia che rendi e ottieni, il bello che crei, ispiri e ricevi con mutua beatitudine, il vero che cerchi e trovi e riveli: ebbene il risultato è positivo, se la coscienza non si è macchiata di grossi delitti e non hai commesso errori irreversibili. Sicché vivere tutto sommato vale la pena. Le perdite vengono compensate sempre, abbondantemente, finché viviamo. Poi, chi lo sa. Né Lucrezio né Dante, né il  vostro modesto redattore di vicende umane lo sa.

 

Se perderò Ifigenia- mi dissi- vorrà dire che non ho altro da darle e che da lei ho già ricevuto quanto la sua bellezza poteva donarmi perché accrescessi la mia potenza e la mia volontà di fare del bene.

Insomma lì dal dentista rinnovellai le speranze.

 

 

Il 14 agosto non arrivò posta per me. Il 15 nemmeno. Il 16 invece, era un giovedì, terminate le ore dell’ultimo giorno della scuola estiva, ancora prima che fossi uscito dall’Università per correre a vedere se c’era l’espresso, appena ebbi messo la testa fuori dall’aula, mi si avvicinò Stefania, la commediante di sempre, e disse: “Gianni Ghiselli, in collegio c’è posta per te”.

 

“L’espresso di Ifigenia  con la sentenza di vita o di morte su questo amore” pensai.

 

Il cuore mi balzò nel petto, le gambe tremarono, mi rombarono le orecchie e forse anche io, come la poetessa di Lesbo, divenni più verde dell’erba.

Tuttavia, facendomi forza per dissimulare la frenesia, ringraziai seccamente la messaggera quasi sempe maligna e mi avviai verso il collegio, in fretta ma senza correre. Allora quella donna, usa alla farsa, dispiaciutissima poiché non le avevo dato l’occasione di fare una delle sue scene tragicomiche, gridò. “Ehi tu, ghiselli! Guarda che è solo una cartolina!”

“Grazie, anche troppo per  uno come me!”, risposi senza voltarmi, per non farle vedere la mia delusione e non darle la gioia di avermela inflitta come una pugnalata dentro la schiena.

“Maledetta istriona ficcanaso!”  mormorai.

Quindi, con pena, pensai. “ magari sarà una cartolina di Fulvio”.

Allora non potevo sapere che di lì a pochi mesi la presenza di Fulvio mi sarebbe diventata più cara e gradita di quella dell’amante non amica e che l’anno seguente a Debrecen dove saremmo andati tutti e tre insieme, avrei preferito frequentare l’amico, e  altre persone da meno di lui, piuttosto che quella druda  dalla mente contorta, lamentosa, pesante, lugubre, ostile.

Nella cassetta posta presso la porta d’ingresso  dunque trovai non una ma due cartoline di Ifigenia che ancora una volta risuscitarono e rimisero in piedi la moribonda speranza.

Erano scritte in rosso, senza data. Nel timbro postale però si poteva leggere “Siracusa 7 agosto”.

Una diceva: “sono appena arrivata qui. Un bel posto. Mi manchi moltissimo, più di quanto immaginassi. Mi fido di te e di me. “Zazzì”. Tua Ifi. Quando ci vediamo?

E l’altra: “La Sicilia è magnifica. Il paesaggio stupendo: se tu fossi qui sarebbe meraviglioso. Ti amo tanto, sai? A presto. Ifigenia”.

Zazzì faceva parte del nostro linguaggio cifrato, del resto facilmente decifrabile da parte tua affezionato lettore che mi conosci, mi leggi, mi ascolti quando parlo in pubblico e con la tua attenzione mi spingi a scrivere e a parlare ancora.

Più o meno degnamente .

 

“E degnamente io, e  degnamente tu” (cfr. Sofocle, Edipo re, v. 1339) 

 

Bologna 31 maggio 2025 ore 9, 40  giovanni ghiselli

 

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venerdì 30 maggio 2025

figenia CXLI All’ospedale di Debrecen con Isabella. Il delicato corteggiamento del vecchio dentista.

I

 

Nei giorni seguenti, prossimi al ferragosto,  vissi qualche minuto di buona speranza: una serie di momenti nei quali immaginavo di ritrovare la bella Ifigenia come la sera di novembre quando venne a trovarmi innevata e innamorata salendo le scale come una baccante nella ojreibasiva invernale in onore di Dioniso, oppure la vedevo camminare in primavera sui prati odorosi dove il vento le gonfiava la gonna scoprendo le ginocchia rotonde e parte delle cosce tornite, profumate di vita, oppure la ammiravo di nuovo sull’aia deserta illuminata tutta dal sole ardente di giugno, nuda e incoronata di spighe come l’estate.

 

Tali ricordi pieni di gioia si alternavano con cupe visioni dove Ifigenia appariva  non priva di segni brutti: la vedevo quale immonda strige dalla fauce avida, dal morso pieno di denti, dalle fessure viperèe degli occhi  che mi fissavano cercando di gettarmi addosso un fascino paralizzante. 

 

Di questi ultimi giorni della Debrecen 1979 ricordo anche una scena simpatica siccome naturale e vivace.

Era lunedì 13 quando accompagnai l’amica Isabella dentro il grande complesso  ospedaliero  dove nel luglio del ’71 avevo portato Elena che voleva sapere se fosse incinta o malata di cancro.

Sentiva dolori nel ventre, il ventre suo benedetto, ricco di vita.

Volevo aiutarla certo, ma non senza l’intento di rendermela riconoscente e predisposta a contraccambiare il piacere di averle evitato l’autombulanza con un altro diverso e più grande piacere del quale avevo bisogno.

 Senza essere una ragazza splendidissima, tuttavia Isabella era gradevole  in quanto  dotata di stile, quindi aveva interessi elevati e a me congeniali come, per esempio,  il teatro. La accompagnai dunque nella clinica odontoiatrica senza l’intento palese o recondito di fare l’amore con lei. Tale mancanza di secondi fini mentre aiutavo una ragazza che non mi spiaceva, era segno di un pogresso non piccolo rispetto alle svariate volte in cui avevo dato una mano a una donna con lo scopo finale, latente tuttavia non secondario, che era diverso dall’aiutarla.

Quel giorno pensavo a Elena più che a qualsiasi altra persona: passando di fronte all’edificio con il frontone dove si leggeva “clinica delle donne malate e pregnanti” rivolsi un pensiero di riconoscenza alla finlandese bella e fine che con il suo dono meraviglioso mi aveva aiutato a trionfare sulle frustrazione che tante persone brutte, disordinate e cattive mi avevano inflitto. Se Ifigenia non riusciva ad abbindolarmi lo dovevo alla donn non meno bella di lei e molto più dotata di bello stile, l’Augusta Elena che mi aveva fatto uscire dalla spelonca degli ottenebrati. 

 

Il dentista era un vecchierello canuto, onesto e simpatico. Fu gentile con noi e bravo: lavorò bene, non volle denaro e parlando nella sua lingua con chierezza tranquilla, mi diede la possibilità, assai gradita, di tradurre tutto quanto diceva a Isabella che appariva pallida di amabile terrore.

La ragazza che parlava italiano, con forte inflessione napoletana per giunta, si faceva capire siccome l’anziano odontoiatra conosceva il latino e anche per quella magica capacità che hanno le fanciulle carine di comunicare ai maschi più o meno attempati i loro desideri usando, ancora prima di qualsiasi strumento logico, la meravigliosa vitalità della giovinezza  e gli eterni, potenti richiami del sesso.

Il vecchio fece un’iniezione anestetica alla ragazza che, sebbene paziente, quel giorno era più bellina del solito, poi le disse che doveva aspettare almeno dieci minuti.

“Se vuole, rimanga qui signorina, ma, se preferisce, faccia pure due passi con il suo fidanzato”. Mimò la mossa dell’ambulare muovendo lentamente l’ antico fianco.

Isabella rispose che non ero il suo fidanzato ma un caro amico.

Lo sussurrò con un tono dolce, sebbene un po’ impastato dall’iniezione.

Era spaventata dall’operazione cruenta che la attendeva ma anche un poco allusiva e stuzzicante nei confronti del simpatico anziano che, infatti, le disse: “Va bene kedves kisasszony, signorina cara, resti pure seduta qui, ma badi: siccome il giovanotto è solo un amico, io la corteggio: udvarolok”.  

Quel dottore non mirava al fiorino o al dollaro: non aveva altro scopo che  curare la giovane senza farle paura; il suo stile era bello, il tono cordiale; Isabella era impaurita e gradevole: non si lamentava né faceva pesare la sua paura, anzi la rendeva attraente con la sua femminilità squisita; io volevo aiutarla senza aspettarmi alcuna ricompensa: tutta la situazione era limpida e mi faceva obliare la partita truccata che da qualche tempo Ifigenia voleva giocare con me per usarmi il più possibile prima di andarsene via perfidamente.

 

Bologna  30 maggio 2025  ore 19, 09 giovanni ghiselli ore 22, 31

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Questo è il  link per seguire da lontano  la conferenza su l’Odissea di Omero che terrò lunedì  9 giugno dalle 17 alle 18, 30 nella biblioteca Ginzburg di Bologna. E’ tutto gratuito ma è gradita la prenotazione per il conteggio dei posti.

https://meet.google.com/wwe-depo-vzp?authuser=0&hs=122&ijlm=1747908475519

  

 

 

 

Ifigenia CXL Il sogno “che del futuro mi squarciò ’l velame”. L’acume di Isabella.


 

La notte tra l’11 e il 12 agosto feci un sogno angoscioso.

Mi vedevo a Pesaro nella casa delle zie, mentre studiavo e aspettavo un segno da Ifigenia o da qualche alato fatidico, o uno squillo  tinnulo oppure un suono lugubre.

 Ero in camera mia, quando udìi una voce di pianto. Veniva dal piano di sotto, forse dall’atrio dove si trovava il telefono. Era davvero flebile  e  mi entrava nel cuore mettendolo in agitazione. Pensai, dormendo e sognando, che quel suono di morte  potesse essere una richiesta di aiuto. Allora mi vidi uscire dalla stanza e correre giù per le scale. Queste però si muovevano verso l’alto come i gradini di ferro che avevo visto salire e scendere tra i piani della Rinascente di Milano nei primi anni Cinquanta, non senza stupore.

Scendevo di corsa ma guadagnavo poco terreno a costo di enormi fatiche poiché i gradini dentati di quella scala ferrigna mi riportavano in su con una velocità quasi pari alla mia .

Oltretutto davanti all’ultimo tratto del ferreo tappeto che risaliva ruotando e cigolando c’era un ostacolo: un inginocchiatoio con sopra la foto di un bambino nel giorno assai triste della prima comunione. Aveva l’aria di un orfano denutrito, infreddolito, reso trepido e pallido dai patimenti. Chi era? Ero io? Era nessuno? Erano tutti i bambini infelici? Con uno sforzo supremo riuscivo a raggiungere il penultimo gradino, a saltare l’ostacolo e  afferrare il telefono.

“Pronto dissi con l’ultimo fiato. Sono gianni, pronto”.

“Pronto” rispose una voce tanto lontana e fioca che sembrava provenire dal paese nebbioso dei morti dove non brilla mai il sole.

“Io sono Claudia, la sua allieva, si ricorda di me?

“Oh, sì, certo, ricordo, ricordo benissimo te, il Minghetti i suoi lunghi corridoi scuri nelle mattine invernali, i sorrisi viceversa luminosi di voi ragazzi e la giovane collega venuta dal cielo a rallegrarmi nella stagione dolente. Era bella ma dozzinale”

Seguì un poco di silenzio, quindi Claudia mi domandò:

“Ha saputo cosa è successo?”

“No, che cosa?”

“Una cosa terribile prof”,  disse l’alunna

“terribile come? terribile a chi?”

“Una cosa terribile, terribile”, ripetè, poi tacque

Allora gridai: “A chi, a chi, alla vita della mia vita?”

Quindi iniziai a singhiozzare convulsamente e continuai, fino a quando il vecchio boemo che dormiva con me, mi diede una strattone e mi svegliò.

Questo fu il sogno “che del futuro mi squarciò  il velame”.

Avevo bisogno di affondare lo sguardo nelle situazioni tragiche che vivevo se volevo raccontarle in maniera da renderle universali, eterne. Nel mio dolore se ne adunavano tanti altri perché il dolore è presente nella vita di tutti.

 

Il mattino seguente durante la colazione non parlai con nessuno né mi guardai intorno.

 Cercavo di interpretare le immagini oniriche  avvalendomi della lettura dei libri di Freud. Sapevo che la censura maschera il significato vero che cerca di rimanere latente. Volevo svelare  la verità che in greco oltretutto si dice ajlhvqeia, ossia “non latenza”.

Probabilmente la terribile notizia paventata al punto da farmi singhiozzare, io sotto sotto me l’aspettavo e addirittura la desideravo: Ifigenia me ne aveva fatte troppe perché potessi ancora desiderare una vita con lei. Non funzionavamo insieme: dovevo cercarmene un’altra. Oramai la lunga, vana e penosa attesa dell’epistola promessa  aveva causato in me un disgusto profondo per la giovane collega e amante, per quel mio pedagogico aborto, quel fallimento educativo nonostante tutte le fatiche umanamente spese per rendere anche buona quella donna bella che oramai mi appariva quale un diavolo incarnato.  Prospero e Calibano novelli eravamo noi due.

In lei vedevo disordine mentale, ingratitudine, mancanza di quella finezza d’animo di cui ho sempre sentito il bisogno nel prossimo mio.

 Mi sovvenni di quando l’aspettavo trepido sulla spiaggia di Pesaro, e lei, appena arrivata, disse con un sorriso sfacciato, plebeo, che in treno aveva vissuto tre quarti d’ora allegri e piacevoli, con un ferroviere fantastico.

“Di certo un cuccettista scaltro, abile nell’approfittare di ogni impudica disponibile”, avevo pensato.

Mi ricordai pure della sera quando, arrivato a Pesaro intorno alle 22 dopo un viaggio lungo e noioso sull’autostrada, ricevetti una telefonata da Ifigenia che mi chiedeva con insistenza di tornare indietro fino a Misano.

Ero reduce dallo scrutinio dell’esame di maturità al liceo Beccaria di Milano ed ero  assai affaticato, eppure ne fui contento. Ma  quando l’ebbi raggiunta, mi raccontò che nel pomeriggio era stata sul moscone con un uomo interessante , un tale più o meno della mia età, molto esperto di donne che le aveva proposto, solo ioci causa certo, di entrare nel suo harem. Aggiunse che nel serraglio non sarebbe entrata, ma se io non ero troppo geloso sarebbe uscita con lui qualche volta la sera mentre ero a Debrecen. Risposi che doveva deciderlo lei.

Da siffatto comportamento ho imparato a non essere geloso: dopo Ifigenia quando una donna si è messa a ingelosirmi per scherzo o sul serio, ho subito disdetto la relazione dicendo che era stata solo un’avventura già troppo lunga.

 Ho cacciato dal mio cervello il mostro dagli occhi verdi che ha annientato Otello rendendolo pazzo e assassino di Desdemona, la disgraziata.

Poi l’ultima iniezione di veleno nel mio sangue già intossicato da lei: la promessa non mantenuta dell’espresso postale.

Conclusi che il sogno mi aveva indicato la via della ritirata da quella donna. Non mi aveva ancora lasciato ma io vivevo già senza di lei.

Sul mezzogiorno andai a correre i 5000 metri: 20 minuti e 15 secondi. Un poco meglio dell’ultima volta. Dopo la prova, Isabella che era venuta a cronometrarmi, disse: “se la tua compagna non ti scrive perché amoreggia con un altro ma vuole restare ancora del tempo con te finché le conviene, stai certo che non ti farà sapere niente della sua estate.  Il suo tempus tacendi sarebbe già scaduto se tu le stessi a cuore. Credo che aspetti di vedere come andrà a finire con il ganzo dell’estate. Se non potrà o non vorrà restare con quello e avrà ancora bisogno dell’aiuto tuo, dirà che ti ha sempre amato e non ti ha scritto perché paventava la tua critica al suo stile che mi pare rozzo assai”. Isabella era lucida oltre essere buona.

 

Bologna 30 maggio 2025 ore 18, 10 giovanni ghiselli

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Questo è il  link per seguire da lontano  la conferenza su l’Odissea di Omero che terrò lunedì  9 giugno dalle 17 alle 18, 30 nella biblioteca Ginzburg di Bologna. E’ tutto gratuito ma è gradita la prenotazione per il conteggio dei posti.

https://meet.google.com/wwe-depo-vzp?authuser=0&hs=122&ijlm=1747908475519

  

 

 

Ifigenia CXXXIX Preghiera al dio Sole. Saluti alla signora e alla signorinella magiare. Addio a Marisa.


 

Uscito dalla csárda,  pregai  l’eroica luce del sole già molto vicino al margine occidentale della grande pianura.

“Aiutami Elio, a trovare dentro questo lungo travaglio l’idea del Bene di cui tu doni agli occhi mortali l’immagine visibile.

Dammi la lucidità necessaria per trovare nel dolore la comprensione del mio viaggio terreno, della serie di cause che mi hanno condotto qui e mi guideranno fino alla morte di questo povero involucro che tuttavia cerco di tenere bene con il tuo valido aiuto.

Voglio assecondare il mio fato comunque esso sia. In ogni caso non mi sembra meschino. Ho già educato centinaia di giovani. Vorrei diventare maestro di un popolo intero. Questa sofferenza, se me la sono cercata e la coltivo, vuole dire che è dovuta alla mia crescita, al mio progresso di educatore. Sulla fellona che non mi dà risposte, in verità non mi sono mai creato illusioni. Non risponde perché non mi corrisponde: non è del mio stampo. Mi ha potenziato con il piacere che mi ha offerto, ma ora devo cercare di trarre altro potenziamento dalla intelligenza di questo dolore. Dalle sofferenze e dalle ingiustizie subite ho sempre imparato. Aiutami a capire, santa faccia di luce, mente dell’Universo, primo fra tutti gli dèi. Aiutami a non impazzire per tanta pena, anzi a diventarne più saggio”.

Dalle canne della palude verde saettavano schiere di rondini verso sinistra, simili a frecce alate. Ottimo segno: volatus avium dirigit Sol invictus.

“Con il tempo-pensai- ho imparato che i segni del cielo sono tutti buoni se sappiamo volgerli al bene. Anche le sventure possono essere provvide. Sono funzionali all’insieme della vita: alla mia come a quella dell’Universo.

Scio sad conservationem Universi pertinere[1]”.

 

Alle 19, 41 il sole vermiglio spariva nella terra nera. “Dai contrasti bellissima armonia. –pensai ancora-Augurio di più sereno dì al pio educatore. Ma sono pio e sono davvero un educatore? Alcuni lo negano, altri lo giurano: sono segno di contraddizione anche io, come Socrate, come Giovanni Battista, l’onesto Giovanni, come Cristo e altri profeti”.

Ritenni che non aveva più senso rimanere lì fuori.

Rischiavo di compiacermi della solitudine fino a diventare un anacoreta demente.

Volevo rivedere la bambina con la madre per cogliere dei segni vocali da loro. Significavano molto parlando. Tornai seduto dov’era stato un quarto d’ora prima. La bella signora e la signorinella c’erano ancora.

La bambina mi domandò:

 “Dove sei stato Janos?”-

“A pregare, cara Sarolta”

“Chi, Gesù?”

“No; il Sole che è la sua immagine visibile. Pensa che gli antichi credevano chiamavano Natale  il giorno della rinascita del Sole”

“Come mai?”

“Perché nelle giornate più corte pensavano che stesse morendo, poi vedendo che la luce tornava a crescere, vedevano che era guarito poiché tornava ad alzarsi”

“Quale grazia gli hai chiesto pregandolo?”

“Di mettere al mondo una figlia simile a te”

“Perché simile a me? Io non sono tanto buona”

“Lo diventerai se studierai e farai sport. Molto buona e bella assai, come tua mamma”

Ero riuscito a dire queste semplici frasi in ungherese.

La signora mi fece un sorriso e mi ringraziò.

Poi mi domandò se fossi italiano

“Sì, risposi dell’Italia centrale. Come ha fatto a capirlo?’”

“Dalla  cortesia usata a noi due e dall’aspetto. Ho pensato che lei lo è tipicamente”.

“Anche voi siete state carine con me. E siete tipicamente, deliziosamente magiare. Ora vi devo salutare: vi auguro il meglio di tutto. Lo meritate”.

“Grazie. Arrivederci”.

Mi alzai e uscìi pensando: “missione compiuta. Ho raccolto i segni vocali di cui avevo bisogno”.

Dopo i complimenti di quelle due femmine umane beneducate potevo essere soddisfatto di me. Mi aveno fatto capire che meritavo una donna migliore della ragazza fallace, sgarbata che voleva indebolirmi cercando di farmi soffrire.

Sicché tornai in collegio e andai a dormire senza altro dolore.

 

 

p. s.

A proposito di signorinella.

Mi è  venuta in mente Marisa, la signorinella tredicenne di cui ero perdita mente innamorato in terza media. Eravamo entrambi nell’ultima classe della scuola Lucio Accio di Pesaro, io nella sezione B dei maschi, Marisa nella A delle femmine. Eravamo  i più bravi delle rispettive classi e gareggiavamo per chi fosse il più egregio di tutto l’istituto. Alla sorella che mi ha dato la notizia della morte di Marisa che mi ricordava come bravo a scuola, ho detto che non ero più bravo di Marisa.

Oggi l’ho ricordata Marisa  cantando con qualche variazione una canzoncina che sentivo dalla mamma quando ero bambino:

“Signorinella pallida,

amabile rivale delle medie,

la nostra legna è diventata cenera,

tu sei defunta e io sono un vecchio uomo  stanco!”

E non mi saziavo di lacrime.

Però ho studiato egregiamente preparando la prossima conferenza   perché il ricordo di Marisa e dei nostri tredici anni mi dà ancora energia e ni infonde volontà di essere il più egreggio di tutti

Quindi ho cantato ancora:

Negli occhi tuoi passavano

una speranza, un sogno, senza nemmeno una carezza

ma avevi un volto che non si dimentica,

e un nome che luminoso : giovinezza!”

Ho poi ricordato di avere ottanta anni compiuti e che se entrassi in un conclave a gareggiare, i cardinali antagonisti mi direbbero in coro:  Non es papabilis!!”

E io risponderei: “deo gratias!!!!”  

 

 

 

Bologna  30 maggio 2025 ore  11, 12 giovanni ghiselli

p. s.

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[1] Cfr. Seneca Ep. A Lucilio, 74, 20.

giovedì 29 maggio 2025

Ifigenia CXXXVII . La corsa, poi la gita nella puszta. Da solo.


 

Salito in camera rimuginavo: “Aspetta il mio espresso”, aveva telegrafato. Poi qualcuno le ha fatto cambiare roposito. Chissà quale rozzo bagnino l’ha stuzzicata , o quale borghesuccio l’ha manipolata dopo essersi spacciato da gran signore”.

“Faccia il tuo grande signore, gran signora pure te”, canticchiavo simulando noncuranza. Invero era il lugubre qrh`no", il canto funebre dell’amore morto male.

Poi tornavo a fare ipotesi più o meno balorde: “Oppure, perversa com’è, magari si è data da fare con il curiale cui  sfacciatamente esibiva le mutande celesti tra le coscione sudate durante la gita sul lago di Garda, a Sirmione. Salve o venusta, le aveva detto il domine non so quanto turbato, ma forse era un sant’uomo e probabilmente più che a lei si rivolgeva alla venusta Sirmio”, memore di Catullo.

Tali erano gli arzigogoli del mio cervello arido e inconcludente mentre calzavo le scarpe di gomma, rosse e non poco fetide, le stesse che avrei usato due anni più tardi quando andammo sull’ombelico del mondo a pregare Apollo, il signore di Delfi, perché ci concedesse felices in cetera cursus, percorsi ricchi di successi in quanto restava da fare a me e a lei. Allora i nostri cammini erano già volti in direzioni diverse. Eravamo contenti del discidium avvenuto. Si poteva fare ancora l’amore e non avere più il problema datato e stonato della fedeltà tra noi. Avevo finalmente capito che non potevo imporla chi non ne voleva sapere. Quel 9 agosto invece mi allacciavo le scarpe puzzolenti per correre e liberarmi dalle tossine dell’odio. Feci un tempo mediocre: superiore ai venti minuti. La pena mi appesantiva l’anima e il corpo.

 

Più tardi  andai a Hortobágy da solo. Partìi  dopo avere atteso tutti i passaggi del postino. Invano. Come succedeva a Moena, in via Damiano Chiesa 11 dove passavo parte dell’estate negli anni Cinquanta sotto la tutela della zia Giulia, aspettando ogni giorno per diverse  ore almeno una cartolina della mamma anche lei bella e bruna, pure lei sempre silente.

Pensavo che cantasse:

“oggi non ho scritto a Giannetto,

ieri nemmeno gli ho scritto,

neanche domani gli scriverò.

Lui deve attendere ancora:

ieri, oggi domani,

deve attendere ognor!”.

 

Cantavo  questo a Moena non senza singhiozzare. A Debrecen 25 anni più tardi sentivo ancora l’eco di quei singhiozzi antichi.

Dai novantanni però la mamma ha contraccambiato il mio amore. Abbiamo smesso di combattere il nostro bellum plus quam civile. Ora la madre mia sta nei cieli e ogni tanto si appare viva nei sogni. Ci abbracciamo quasi sempre.

 

Quel pomeriggio di fine estate dell’anno 1979 il cielo era tutto sereno: a mano a mano che il sole calava sulla grande pianura un po’ desolata lo supplicavo di farmi avere un segno da Ifigenia. Ma il dio non accennava ad ascoltarmi, a esaudirmi: avrei preso per buono financo un cenno pur quasi impercettibile del suo assenso. L’avrei notato e ne avrei tratto auspici. Ma non ci fu verso.

 

Allora mi venne in mente il pomeriggio radioso del luglio del 1974 quando andai là nella puszta con Päivi che credevo fosse il massimo scopo della mia eterna ricerca. Il punto d’arrivo: la meta dove il mio tanto ricercar fu volto. C’erano Bruno, Silvano e due tedesche amiche loro. Eravamo sei giovani educati, contenti, in due automobili. Uno dei momenti più belli della mia vita mortale fu quando scesi dalla Volkswagen e andai a urinare in direzione del sole. Allora Dio mi ascoltò, Dio mi esaudì. E’ stata l’ultima volta che ho amato una donna senza nessuna riserva. Eeo improvvido di un avvenir malfido con quella donna.

 Nei cinque anni passati da allora il caro Bruno era già morto e gli altri quattro erano andati comunque lontano da me. Anche la nostra bambina era morta. Più tardi è morto pure Silvano e anche Alfredo.

Mi fermai sul luogo dell’atto magico e propiziatorio di cinque anni prima. Ero già innamorato di Päivi e mi sentivo contraccambiato. Lo ero e lo sarei stato per un mese. Facemmo l’amore quella sera stessa, la sera del dì della festa dedicata alla conoscenza: in tutti i sensi. Meravigliosamente io conobbi quella ragazza rossa nel collegio numero due.

Mentre urinavo, osservavo la luce del sole al tramonto  e ci vedevo l’immagine della ragazza rossa la  donna amata quantum amabitur nulla pensavo. In lei avevo visto la luce di cui avevo bisogno.

 

Ma torniamo alla solitudine del 1979. Rivolsi  la parola all’amico morto ante diem e sempre rimpianto.

“Allora ci bastava poco per essere felici. E’ ve’ Bruno? Ci bastava una ragazza fine e bellina, almeno passabile, una per uno, se no si litigava. I nostri attriti di certi momenti dipendevano dal fatto che tanto a me quanto a te dava fastidio che l’altro, temuto magari a torto come rivale, piaceva alle donne lui pure, e ognuno di noi temeva di piacere di meno. Ma poi nell’età allegra di quegli anni con una ragazza a testa, una bottiglia di Egrikikavér, un bagno in piscina, una partita a tennis e due ghiribizzi eravamo contenti. Si era giovani allora e ci si accontentava. Ragazzi  eravamo. Tu caro amico, sei rimasto giovane e bello fino alla tua dipartita. Quando ti penso, mi tornano in mente le gioie ancora ingenue dei nostri venti anni che si avvicinavano ai trenta però, e incombevano già tempi peggiori per tutti. Il 1974 fu forse il limes, o limen se preferisci, da giurisperito qual sei.

 Tu non l’hai oltrepassato quel confine tra la nostra età dell’oro e le successive sempre più tristi. Non dico meglio per te, non lo dico, per carità,  ma è vero che ti sei risparmiato tanti orrori, tante delusioni, tanti disincanti che rendono vecchi.

Del resto con il passare degli anni , mentre le forze scemano, crescono le pretese. Adesso ci vuole altro che la ragazza bellina e una bottiglia di vino per essere appagati. Io ho bisogno di onestà, pulizia, intelligenza, cultura. Ifigenia la mia donna, non tiene fede alle promesse. Bella è bella ma una voce mi dice: “un altro amante la tiene in pugno”.  Poco, fa in piscina, ho contato i battiti cardiaci: quarantadue in un minuto. Ancora qualcuno in meno poi ti raggiungo dove sei ora: forse là, nella pianura Elisia ai confini del mondo dove è facilissima per i mortali la vita[1], dove ci ritroveremo e staremo bene come nel collegio di Debrecen quando eravamo nel fiore noi due. Ti ricorderò nel capolavoro che scriverò quando le Muse mi spingeranno a essere l’aedo di Debrecen. Fulvio me l’ha profetizzato e io aspetto l’ispirazione. Se arriverà, anche tu non omnis morieris[2]”.

Allora vorrò contrappore pagine che sappiano di umanità alla brutalità che ha dilagato dal 1969  al 1978 con l’assassinio di Moro.  Hominem pagina nostra sapiet.

 

Mi ero seduto sul paraurti posteriore della bianca Volkswagen. Pensai queste parole e le scrissi. Poi ripartii e arrivai a Hortobágy. Salìi sui gradini-sedili del teatro di legno situato davanti al fiume e al ponte famoso, quello a nove arcate: il kilenclyukú híd.

Luogo di ricordi e pure di attese: l’anno seguente, sul palcoscenico di quel piccolo teatro, Ifigenia in scarpe da ginnastica, calzoncini bianchi attillati e maglia rossa, aderente,  avrebbe alzato le braccia al cielo gridando : “

O! for a Muse of fire, that would ascend

The brightest heaven of invention[3] .

Voleva lasciare la scuola per recitare nei teatri i drammi dei grandi autori e io avrei voluto diventare il più grande di tutti.

Non sapevo che da conferenziere avrei recitato tante parti anche io.

Intanto Fulvio, l’amico caro e profetico la fotografava. Oggi nemmeno Fulvio c’è più qui sulla terra. E’ un amico celeste anche lui. Il più caro tra gli amici che stanno in cielo.

 

Nella O di legno[4] del teatro nella puszta  dunque l’anno seguente a questo che sto raccontando la mia giovane amante avrebbe pregato.

Chiedeva al buon Dio di farla diventare un’attrice famosa.

Insegnare proprio non le piaceva. Bella era bella kalh; kalhv[5].

Alle sue spalle, c’era la scenografia naturale: il paesaggio non dipinto ma vero: le canne, il fiume paludoso, il ponte a nove arcate, il cielo. Davanti, sulla càvea, non c’era altro pubblico che me e Fulvio intento a fotografarla. Bella era bella. Ma debole e vana, mio Dio, nervosa, non abbastanza proba e colta, e nemmeno tanto astuta e dura da evitare di venire strapazzata, stritolata, inghiottita e vomitata da globo cattivo e corrotto dove voleva entrare nuda inopsque.

In quel mondo  spietato, clientelare, mistificatòrio, le relazioni sono rapporti di forza e di potere.

Lei aveva solo la transeunte, effimera venustà della giovinezza. Per giunta il suo sguardo non era abbastanza espressivo né in termini di dolcezza né di potenza. Aveva commosso me per il mio narcisismo nel tempo in cui mi imitava. Poi avevo perso interesse in seguito ai  suoi sgarbi, al suo egoismo, figli della sua scarsa immaginazione. Senza questa non si capiscono gli altri e non si può divenire un buon attore.

Avrei voluto comunque aiutarla a diventare forte e bella per sempre, non certo vomitarla dopo averla mangiata[6]. Altri l’avrebbero fatto probabilmente.

 

Ma torniamo all’agosto del 1979 . Osservavo i maiali edaci e obesi come sempre. Pensavo: “I porci si nutrono, poi noi ci nutriamo di loro. Ci gonfiamo di carne non nostra. Negli uomini che non sanno o non vogliono pensare, l’anima forse serve soltanto a preservare il corpo dalla putrefazione, come fa il sale con i prosciutti di questi onnivori. Adesso chi sa pensare ed è capace di parlare con chiarezza, togliendo alle persone e alle cose le maschere imposte dal sistema, rimane isolato. Questo è un grave rischio per me. Io vorrei vivere una vita politica, al servizio degli altri”.

Dalla csárda veniva il suono dei violini che  intonavano le danze ungheresi di Brahms. Soffio possente di un fatale andare[7] sempre più avanti, quasi sicuramente da solo, come quando arrivai in Ungheria nel luglio del ’66, come quando me ne andrò per sempre via dalla terra con la più eroica delle morti: senza nessuno vicino.

Nella vita che mi resta invece vorrei imparare dell’altro e fare del bene.

Una donna che non risponde alle mie iterate  suppliche di  mandarmi una lettera, certamente non mi aiuterà. Anzi mi toglierebbe le grandi forze necessarie alla mia opera se rimanessimo insieme. Voglio procedere metodicamente sulla strada in compagnia di persone che condividano i miei gusti, i miei scopi, il mio bisogno di cultura e di arte”.

 

Intanto sopra il teatro di legno  avanzavano nuvole grosse, acquose: provenivano da ovest muovendosi verso il centro del cielo. Coprirono il sole portando un buio precoce, autunnale oramai. Mi si stringeva il cuore. I maiali invece continuavano a grugnire, a spalancare le fauci e mangiare.

Mancava solo che giocassero a tombola oppure a nercante in fiera come fanno gli umani ottenebrati dopo il cenone.

 Una vita la loro senza logos e con il solo pathos del consumo di cibo e la vaghezza di ciance infinite. Andrebbero recuperati a  quanto non è solo bestiale. Fare capire che l’umano riguarda anche loro.  L’umano è inattuale, tuttavia a me piace osare l’inattuale. 

Le nubi coprivano grandi tratti  dell’immensa pianura. Le automobili sulla strada di Eger accendevano i fari. Erano solo le sette di sera, ora legale. Da alcuni comignoli si alzavano spirali di fumo. Autunno era. Mi aspettavano mesi molto difficili se quella mi lasciava o mi costringeva a scappare ad maiora mala vitanda. A un tratto le nuvole raggiunsero la parte orientale del cielo, verso l’Unione Sovietica, e così il dio si spogliò dalle nere e  piagnucolose gramaglie .

Era più bello che mai: grande, rosso, e specchiandosi nell’acqua sotto le arcate si raddoppiava. Si inclinava sulla madre terra e le due immagini erano molto vicine. Si baciavano quasi. “Buon segno”, pensai. “domani mattina, o forse già questa sera, miracolosamente troverò la posta che restaurerà il mio equilibrio”. C’era un senso di pace nell’aria. Una cicogna  volava ad ali ampiamente spiegate verso il nido per nutrire i pulcini e passarvi la notte. Anche io presto sarei tornato ai miei affetti. Se Ifigenia non aveva scritto, c’erano comunque i libri dei miei autori e la bicicletta, organi sempre vivi, sostegni della mia vita . Poi l’amico carissimo Fulvio e gli studenti amati. E avrei trovato un’altra donna meno disordinata e cattiva. Così tra il rassegnato e il confortato entrai nella csárda.

Andai a sedermi al tavolo dove ero stato  con le  tre  finniche: Helena, Kaisa, Päivi in tre anni diversi. Dall’ultimo erano passati cinque estati, già un grande spazio nella vita di un uomo[8].

Da Elena Augusta, la prima in tutti i sensi, addirittura otto.

 

 

 Ricordare quelle tre muse mi spingeva a scrivere. Erano state loro  a scoprire il mio valore e a farlo riconoscere a me: ogni cosa ben fatta che ho compiuto la devo alle loro parole buone. Con l’aiuto che mi veniva dal ricordo del bene ricevuto da quelle tre fatidiche amanti amate trovavo la forza di rifiutare chiunque volesse svalutarmi e avvilirmi.

Non smetterò mai di unire le Grazie alle Muse, dolcissima unione.

Dunque scrissi: “Dopo non avere degnato di una risposta le mie suppliche e non avere mantenuto una promessa inviata in fretta, a casaccio  con un telegramma bugiardo, scritto tra una baldoria e un’altra, Ifigenia nihil iam putabit esse nefas nei miei confronti: crederà di poter infliggermi qualunque torto, menzogna e umiliazione”.

Cercavo le parole forti e atte a deprecare la sciagurata, quando una bambina bruna bruna di sette-otto anni che si trovava seduta su una panca contigua mi domandò perché non scrivessi in ungherese.

“Perché non lo so fare-risposi-conosco solo poche parole nella tua lingua”

“Per esempio?”

“Queste che sto dicendo a te”

“E poi?”

“Sei carina. Come ti chiami?”

“Sarolta[9]. E tu?”

“gianni, Jáno".”

La mamma seduta di fianco alla figlia intervenne: “Sarolta, ringrazia il signore e lascialo scrivere”

Allora la bambina disse, riempiendomi il cuore di gioia: “sei carino anche tu”.

“Grazie signorina”. Poi aggiunsi: “complimenti signora per questa bella bambina. Non c’è dubbio che sia sua figlia. Talis mater…”. Mi guardò stupita forse non si aspettava di venire corteggiata davanti alla figlia.

Ma io davanti a una bella donna non riesco a non farlo. Soprattutto se è una mamma e ancora di più se è la mamma di una bambina. Avevo comunque capito che bastava così. Corteggiare sempre, molestare mai.

Quindi le lasciai in pace. Non senza pensare che se al mio letto di moribondo si avvicinerà un’infermiera carina la corteggerò con l’ultimo fiato, e se questo angelo mi farà un sorriso ne sarò rallegrato in punto di morte. Morirò contento.

“Ecco- ripresi a scrivere- la mia compagna ideale dovrebbe essere ingenua e diretta come questa cittina. Le finniche un po’ primitive, pure se colte, si avvicinavano a questo modello. Con loro avevo potuto parlare senza infingimenti. Dopo altri cinque anni di partite a scacchi o di poker, insomma di mezze verità, con le amanti, le colleghe, i colleghi, i presidi e così via, non ne posso più di finzioni.

Perché quella non scrive? Come puoi avere ancora dei dubbi? Perché non ti ama. Allora se non sei un budello, se sei un uomo umano nei tuoi stessi confronti, devi disprezzarla e rigettarla. Già senti la nausea. Mettiti un dito in gola, l’indice, e vomitala tutta”.

Uscìi dalla csárda. Il sole si era avvicinato tanto alla strada di Eger da trasformarla in un tappeto di porpora. Una guida verso l’eternità dell’arte o la via dolorosa verso una morte straziante? Mi sovvenne il sire Agamennone[10]. Il futuro verrà[11], ricordai ancora

 

Bologna 29 maggio  2025 ore 18, 41giovanni ghiselli.

 

 

p. s.

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[1] Cfr. Odissea, IV, 563ss.

[2] Cfr. Orazio Odi, III, 30, 6

[3] Shakespeare, Enrico V Prologo vv. 1-2. Oh per una Musa di fuoco che sapesse salire al più luminoso cielo dell’invenzione

[4] Cfr. di nuovo Shakespeare, Enrico V, prologo v. 13 “this wooden O”

[5] Cfr. Callimaco, Antologia Palatina, XII, 43, 5

[6] Cfr. Shalespeare, Otello dove Emilia, la moglie di Iago, dice:

 “ ‘Tis not a year or two shows us a man

They are all but stomachs and we all but food;

They eat us hungerly, and when they are full

They belch us. Look you, Cassio and my husband” (III, 4)  

 

[7] Pascoli, Alexandros , v. 34

[8] Cfr.  Tacito, De vita Agricolae, III, quindecim annos, grande mortalis aevi spatium.

[9] Carlotta

[10] Cfr. Eschilo, Agamennone, 910: “porfurovstrwto" povro"”, via coperta di porpora.

[11]To; mevllon h{xei   Eschilo, Agamennone,  1240.