La notte tra l’11 e il 12
agosto feci un sogno angoscioso.
Mi vedevo a Pesaro nella casa
delle zie, mentre studiavo e aspettavo un segno da Ifigenia o da qualche alato fatidico,
o uno squillo tinnulo oppure un suono
lugubre.
Ero in camera mia, quando udii una voce di
pianto. Veniva dal piano di sotto, forse dall’atrio dove si trovava il
telefono. Era davvero flebile e mi entrava nel cuore mettendolo in agitazione.
Pensai, dormendo e sognando, che quel suono di morte potesse essere una richiesta di aiuto. Allora
mi vidi uscire dalla stanza e correre giù per le scale. Queste però si
muovevano verso l’alto come i gradini di ferro che avevo visto salire e
scendere tra i piani della Rinascente di Milano nei primi anni Cinquanta, non
senza stupore.
Scendevo di corsa ma
guadagnavo poco terreno a costo di enormi fatiche poiché i gradini dentati di
quella scala ferrigna mi riportavano in su con una velocità quasi pari alla mia
.
Oltretutto davanti all’ultimo
tratto del ferreo tappeto che risaliva ruotando e cigolando c’era un ostacolo:
un inginocchiatoio con sopra la foto di un bambino nel giorno assai triste
della prima comunione. Aveva l’aria di un orfano denutrito, infreddolito, reso
trepido e pallido dai patimenti. Chi era? Ero io? Era nessuno? Erano tutti i
bambini infelici? Con uno sforzo supremo riuscivo a raggiungere il penultimo
gradino, a saltare l’ostacolo e afferrare il telefono.
“Pronto - dissi con l’ultimo
fiato - Sono gianni, pronto”.
“Pronto” rispose una voce
tanto lontana e fioca che sembrava provenire dal paese nebbioso dei morti dove
non brilla mai il sole.
“Io sono Claudia, la sua
allieva, si ricorda di me?
“Oh, sì, certo, ricordo,
ricordo benissimo te, il Minghetti i suoi lunghi corridoi scuri nelle mattine
invernali, i sorrisi viceversa luminosi di voi ragazzi e la giovane collega
venuta dal cielo a rallegrarmi nella stagione dolente. Era bella ma dozzinale”
Seguì un poco di silenzio,
quindi Claudia mi domandò:
“Ha saputo cosa è successo?”
“No, che cosa?”
“Una cosa terribile, 'prof'”, disse l’alunna
“terribile come? terribile a
chi?”
“Una cosa terribile,
terribile”, ripeté, poi tacque
Allora gridai: “A chi, a chi,
alla vita della mia vita?”
Quindi iniziai a singhiozzare
convulsamente e continuai, fino a quando il vecchio boemo che dormiva con me,
mi diede una strattone e mi svegliò.
Questo fu il sogno “che del
futuro mi squarciò il velame”.
Avevo bisogno di affondare lo
sguardo nelle situazioni tragiche che vivevo, se volevo raccontarle in maniera
da renderle universali, eterne. Nel mio dolore se ne adunavano tanti altri
perché il dolore è presente nella vita di tutti.
Il mattino seguente, durante
la colazione non parlai con nessuno né mi guardai intorno. Cercavo di interpretare le immagini oniriche avvalendomi della lettura dei libri di Freud.
Sapevo che la censura maschera il significato vero che cerca di rimanere
latente. Volevo svelare la verità che in
greco oltretutto si dice ajlhvqeia, ossia “non latenza”.
Probabilmente, la terribile
notizia paventata al punto da farmi singhiozzare, io sotto sotto me l’aspettavo
e addirittura la desideravo: Ifigenia me ne aveva fatte troppe perché potessi
ancora desiderare una vita con lei. Non funzionavamo insieme: dovevo cercarmene
un’altra. Oramai la lunga, vana e penosa attesa dell’epistola promessa aveva causato in me un disgusto profondo per
la giovane collega e amante, per quel mio pedagogico aborto, quel fallimento
educativo nonostante tutte le fatiche umanamente spese per rendere anche buona
quella donna bella che oramai mi appariva quale un diavolo incarnato. Prospero e Calibano novelli eravamo noi due.
In lei vedevo disordine
mentale, ingratitudine, mancanza di quella finezza d’animo di cui ho sempre
sentito il bisogno nel prossimo mio.
Mi sovvenni di quando l’aspettavo trepido
sulla spiaggia di Pesaro, e lei, appena arrivata, disse con un sorriso
sfacciato, plebeo, che in treno aveva vissuto tre quarti d’ora allegri e
piacevoli, con un ferroviere fantastico.
“Di certo un cuccettista
scaltro, abile nell’approfittare di ogni impudica disponibile”, avevo pensato.
Mi ricordai pure della sera
quando, arrivato a Pesaro intorno alle 22 dopo un viaggio lungo e noioso
sull’autostrada, ricevetti una telefonata da Ifigenia che mi chiedeva con
insistenza di tornare indietro fino a Misano.
Ero reduce dallo scrutinio
dell’esame di maturità al liceo Beccaria di Milano ed ero assai affaticato, eppure ne fui contento.
Ma quando l’ebbi raggiunta, mi raccontò
che nel pomeriggio era stata sul moscone con un uomo interessante, un tale più
o meno della mia età, molto esperto di donne che le aveva proposto, solo ioci causa certo, di entrare nel suo
harem. Aggiunse che nel serraglio non sarebbe entrata, ma se io non ero troppo
geloso sarebbe uscita con lui qualche volta la sera mentre ero a Debrecen.
Risposi che doveva deciderlo lei.
Da siffatto comportamento ho
imparato a non essere geloso: dopo Ifigenia, quando una donna si è messa a
ingelosirmi per scherzo o sul serio, ho subito disdetto la relazione dicendo
che era stata solo un’avventura già troppo lunga. Ho cacciato dal mio cervello il mostro dagli
occhi verdi che ha annientato Otello rendendolo pazzo e assassino di Desdemona,
la disgraziata.
Poi, l’ultima iniezione di
veleno nel mio sangue già intossicato da lei: la promessa non mantenuta
dell’espresso postale.
Conclusi che il sogno mi
aveva indicato la via della ritirata da quella donna. Non mi aveva ancora
lasciato ma io vivevo già senza di lei.
Sul mezzogiorno andai a
correre i 5000 metri: 20 minuti e 15 secondi. Un poco meglio dell’ultima volta.
Dopo la prova, Isabella, che era venuta a cronometrarmi, disse: “se la tua
compagna non ti scrive perché amoreggia con un altro ma vuole restare ancora
del tempo con te finché le conviene, stai certo che non ti farà sapere niente
della sua estate. Il suo tempus tacendi sarebbe già scaduto se tu
le stessi a cuore. Credo che aspetti di vedere come andrà a finire con il ganzo
dell’estate. Se non potrà o non vorrà restare con quello e avrà ancora bisogno
dell’aiuto tuo, dirà che ti ha sempre amato e non ti ha scritto perché
paventava la tua critica al suo stile che mi pare rozzo assai”. Isabella era
lucida, oltre essere buona.
Bologna 30 maggio 2025 ore
18, 10 giovanni ghiselli
Già docente di latino e greco nei Licei Rambaldi di Imola, Minghetti e Galvani di Bologna, docente a contratto nelle università di Bologna, Bolzano-Bressanone e Urbino. Collaboratore di vari quotidiani tra cui "la Repubblica" e "il Fatto quotidiano", autore di traduzioni e commenti di classici (Edipo re, Antigone di Sofocle; Medea, Baccanti di Euripide; Omero, Storiografi greci, Satyricon) per diversi editori (Loffredo, Cappelli, Canova)
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