mercoledì 24 aprile 2013

La vecchiaia bella o brutta, secondo come ci si arriva.


Il 19 aprile scorso sono andato a Roma  per seguire il convegno della  Associazione Nazionale Partigiani Cristiani che si teneva all’Istituto Luigi Sturzo.
 Il tema era CATTOLICI E RESISTENZA A ROMA. Ho ascoltato le testimonianze di alcuni personaggi che hanno avuto parte attiva nella lotta antifascista e antinazista romana.

Dopo l’introduzione del presidente onorario Gian Luigi Rondi, hanno parlato il senatore  Adriano Ossicini, il professor Francesco Malgari, quindi  hanno portato le loro testimonianze, quasi Atti dei martiri, il cardinale  Andrea Cordero Lanza di Montezemolo, la senatrice Maria Lisa Cinciari Rodano, infine Antonio Parisella e Mario Barone.
Sono  tutte persone non giovani, alcuni anche molto lontani dalla gioventù anagrafica.
Non riferirò le loro parole ma le riflessioni che l’ascolto delle gesta di questi anziani mi hanno suggerito in contrapposizione al becero e trito luogo comune razzista  per il quale tutti i vecchi devono sparire, essere “rottamati” o gettati al macero, per fare largo ai giovani comunque essi siano.
Bisogna guardare sempre alle persone, una per una, indipendentemente dalla razza certo, ma anche dall’età e dal sesso, e scegliere quelle capaci, morali, colte, coraggiose.
Chi si vanta di mandare in parlamento giovani e donne, senza specificarne il valore, è un imbecille, o un truffatore, degno in ogni caso di irrisione, dal sorriso ironico alle più fragorose pernacchie.

 In questi partigiani cristiani intanto ho ravvisato il grado eroico dell’esistenza umana, un grado contraddistinto dal non cedere mai, dal fatto di non rinunciare agli ideali nei quali si crede, di perseguirli a qualsiasi costo.
Alcuni tra i relatori hanno rischiato la vita per mantenere questa fedeltà alle proprie convinzioni. Mi sono venuti in mente, per contrasto, con rabbia, la spregevolezza dei voltagabbana, dei coturni[1], dei camaleonti che vediamo insediati nelle poltrone grazie al servilismo dimostrato nei confronti di ogni padrone succeduto al potere
Poi ho pensato con pena ai giovani infingardi che sciupano il tempo nell’inerzia, uccidono la vita con le droghe o la avviliscono con querimonie sterili.
Dopo questo cappello sull’attualità voglio fare una breve rassegna letteraria riferendo alcuni  biasimi e diversi elogi della vecchiaia.

Biasimi della vecchiaia.
Partiamo da Mimnermo, un poeta del VI secolo a. C. che  considera la vita umana indegna di essere protratta quando la giovinezza è passata, e i giorni non hanno più l'unica giustificazione che li rendeva desiderabili: quella erotica, o amorosa che dire si voglia.
"Quale vita, quale piacere, senza l'aurea Afrodite?
Vorrei essere morto, una volta che non mi importi più di questi beni,
l'amore furtivo e i dolci doni e il letto:
che sono i soli fiori fugaci di giovinezza
per gli uomini e per le donne; poi quando sia giunta penosa
la vecchiaia che rende l'uomo turpe e insieme cattivo,
sempre  affanni tetri lo consumano nell'animo,
e non prova piacere neppure alla vista dei raggi del sole,
ma è odioso ai ragazzi, spregevole per le donne;
così tremenda  rese la vecchiaia un dio" (fr. 1D).

Vediamo a un altro frammento di Mimnermo: il 2 D.
Le traduzioni dal greco (e dal latino) sono tutte mie.
:"Come le foglie[2] che genera la fiorita stagione
di primavera, quando crescono in fretta ai raggi del sole, noi, simili a quelle, per il tempo di un cubito, godiamo dei fiori
di giovinezza, senza conoscere dagli dèi né il male
né il bene. Destini neri ci stanno accanto
uno che ha il termine della vecchiaia tremenda,
l'altro di morte: un attimo dura il frutto
di giovinezza, per quanto sulla terra si diffonde un raggio di sole.
Ma quando questo termine di tempo sia trapassato,
subito essere morto è meglio della vita:
infatti molti mali sopraggiungono nell'animo: talora la casa va in rovina e ci sono le vicende dolorose della povertà:
 a un altro poi mancano figli, di cui soprattutto
sentendo il desiderio va sotto terra nell'Ade;
un altro ha una malattia che gli consuma il cuore: non c'è nessuno
degli uomini, cui Zeus non dia molti mali".

Ancora un biasimo della vecchiaia (fr. 5 D).  Sembra che facesse parte della Nannò :
“A Titono , Zeus diede da sopportare, male immortale,
la vecchiaia, che è anche più raccapricciante della morte tremenda.
" Ma di breve durata è come un sogno
la giovinezza preziosa; e la tremenda e deforme
vecchiaia subito sul capo è sospesa,
odiosa insieme e spregiata, che rende l'uomo irriconoscibile,
e danneggia gli occhi e la mente versandosi attorno."
La conclusione di Mimnermo è che è auspicabile morire a sessant’anni:
 “Vorrei che senza malattie e preoccupazioni tremende
il destino di morte mi cogliesse a sessant’anni” (fr. 11 Gentili-Prato).

 Euripide nel secondo stasimo dell’ Eracle  fa dire ai  vecchi  compagni d'armi di Anfitrione che la vecchiaia grava sul loro capo dei come un carico più pesante delle rupi dell'Etna ("to; de; gh'ra" a[cqo"-baruvteron Ai[tna" skopevlwn-ejpi; krati; kei'tai" (vv. 638-640).
Callimaco, poeta alessandrino che ri-usa i classici apportando variazioni, scrive che vorrebbe spogliarsi delle vecchiaia la quale gli pesa addosso quanto l’isola tricuspide sul maledetto Encelado (Aitia fr. 1, vv. 35-36).
Per i vecchi di Euripide, la giovinezza  è preferibile alla ricchezza, ed è bellissima tanto nella prosperità quanto  nella povertà: “kallivsta me;n ejn o[lbw/, -kallivsta d j ejn peniva/”,  Euripide, Eracle, vv. 647-648.
 E allora, Se gli dèi avessero intelligenza e sapienza (xuvnesi"-kai; sofiva) riguardo agli uomini donerebbero una doppia giovinezza (divdumon h{ban) come segno evidente di virtù a quanti la posseggono, ed essi, una volta morti, di nuovo nella luce del sole (eij" aujga" pavlin aJlivou), percorrerebbero una seconda corsa, mentre la gente ignobile avrebbe una sola possibilità di vita (Euripide, Eracle, vv.661-669).
Ma la vecchiaia è diversa se è il seguito  di una gioventù vissuta bene o passata male, senza costrutto
Marziale afferma che l’uomo buono che è senza senza rimorsi e gode del frutto della sua vita, accresce e raddoppia lo spazio della sua esistenza: “ampliat aetatis spatium sibi vir bonus: hoc est/vivere bis, vita posse priore frui” (X 23, 7-8).
Nel Miles gloriosus di Plauto si trova un locus similis : "itidem divos dispertisse vitam humanam aequom fuit:/ qui lepide ingeniatus esset, vitam ei longiquam darent,/ qui inprobi essent et scelesti, is adimerent animam cito" (vv. 730-732), parimenti sarebbe stato giusto che gli dèi distribuissero la vita umana: a colui che avesse un carattere amabile, dovrebbero dare una vita lunga, a quelli che fossero cattivi e scellerati, portargliela via presto.
Ma sentiamo un altro biasimo dell’età avanzata.
Il terzo stasimo dell’ Edipo a Colono di Sofocle annuncia la sapienza silenica e maledice la vecchiaia:"Non essere nati (mh; fu'nai) supera/ tutte le condizioni, poi, una volta apparsi,/ tornare al più presto là/ donde si venne,/  è certo il secondo bene./ Poiché quando uno ha oltrepassato la gioventù/ che porta follie leggere (kouvfa" ajfrosuvna" fevron), /quale travagliosa disfatta resta fuori?/ Quale degli affanni non c'è?/Invidia, discordie, contesa battaglie,/ e uccisioni; e sopraggiunge estrema/ l'esecrata vecchiaia impotente (ajkrate;") ,/ asociale (ajprosovmilon), priva di amici (a[filon) /dove convivono tutti i mali dei mali"(vv.1224-1238).  non essere nati è la condizione che supera tutte e una volta nati
  Di questa maledizione della vecchiaia, possiamo trovare  una eco  in Menandro: un suo frammento arcinoto fa:" o{n oiJ qeoi; filou'sin ajpoqnhvskei nevo"”, colui che gli dei amano, muore giovane".
Virgilio mette la "tristisque senectus  "(Eneide , VI, 275)  in faucibus Orci (v.273), sulla bocca dell'Orco in compagnia di pianti, rimorsi vendicatori, pallidi morbi, e  diverse altre presenze inamene.
 Leopardi è un dichiarato nemico della vecchiaia: in Le Ricordanze  del 1829 scrive:"E qual mortale ignaro/di sventura esser può, se a lui già scorsa/quella vaga stagion, se il suo buon tempo,/se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta?"(vv.132-135). Quindi  premette il verso di Menandro, come epigrafe, ad Amore e morte  del 1832.
In Il tramonto della luna , del 1836, il poeta di Recanati poco prima di morire compone l'anatema definitivo dell'ultima età: "estremo/di tutti i mali, ritrovàr gli eterni/la vecchiezza, ove fosse/incolume il desio, la speme estinta,/secche le fonti del piacer, le pene/maggiori sempre, e non più dato il bene"(vv.45-50).

Elogi della vecchiaia

 Ebbene, a così forti biasimi vogliamo contrapporre qualche elogio della senilità cui tutti siamo avviati e alla quale arriveremo se non moriremo prima, forse schivando qualche incomodo, ma certamente perdendo parecchie occasioni, se non altre di "imparare molte cose", come ci ha  insegnato Solone: “ghravskw d   jaijei; polla; didaskovmeno"” (fr. 28 Gentili-Prato). Quindi il legislatore ateniese consiglia a Mimnermo di cambiare il verso con il quale augura a se stesso di morire a sessant’anni e di scrivere invece così: “ojgdwkontaevth moi'ra kivcoi qanavtou” (fr. 26 Gentili-Prato), il destino di morte mi colga ottantenne. Io andrei molto più in là: quella mi sembra solo l’età per cominciare a pensare alla pensione.
Un elogio della vecchiaia del resto si trova già in alcune parole di Omero: nel III dell'Iliade, Menelao, per fare un patto con i Troiani, esige la presenza di Priamo poiché non si fida dei figli del re di Troia: sempre svolazzano gli animi dei giovani, afferma, ma quando un vecchio (oJ gevrwn) è con loro, vede insieme il prima e il dopo (a}ma provssw kai; ojpivssw-leuvssei), come sia meglio per gli uni e per gli altri (vv. 108-110).

 Cicerone nel De senectute (del 44 a. C.)  compone l'elogio più articolato della vecchiaia, facendo dire a Catone ottantatreenne:"in moribus est culpa, non in aetate "(3), il difetto sta nei costumi, non nell'età; e la pena deriva dai sensi di colpa dovuti a una vita mal vissuta:"quia coscientia bene actae vitae multorumque benefactorum recordatio iucundissima est "(3), poiché la coscienza di una vita impiegata bene e il ricordo di molte buone azioni fatte sono fonti di dolcissima gioia.
Vengono portati esempi di vecchiaie vigorose e produttive: Platone che morì a ottant'anni "scribens ", scrivendo ancora, Isocrate che a novantatré anni compose il Panatenaico, poi visse altri cinque anni, e il suo maestro Gorgia che compì centosette anni, studiando e lavorando, tanto che disse:"Nihil habeo quod accusem senectutem "(5) non ho niente da rimproverare alla vecchiaia. Insomma, secondo Cicerone, c'è una montatura negativa nei confronti dell'età avanzata.
Montatura che ai giorni nostri è di moda.
Quello sfacciato di Renzi dovrebbe leggere i classici e riflettere prima di sparare parole a ripetizione.
 Quindi torniamo a Cicerone. Gli indebolimenti, almeno quelli mentali, sono dovuti alla mancanza di esercizio."At memoria minuitur ", ma la memoria diminuisce; ebbene a questa obiezione-luogo comune degli imbecilli, l’autore risponde:"credo, nisi eam exerceas, aut etiam si sis natura tardior ", lo credo, se non la si esercita, o anche se sei piuttosto stupido di natura, e fa l'esempio di Sofocle che"ad summam senectutem tragoedias fecit ", compose tragedie fino alla vecchiaia estrema, e anzi si difese dall'accusa di demenza senile contestatagli da un figlio che voleva venisse interdetto, leggendo l'Edipo a Colono scritta da poco, ai giudici che naturalmente lo assolsero a pieni voti  (7). Poco più avanti (8) il De senectute  ricorda anche Solone "qui se cotidie aliquid addiscentem dicit senem fieri ", che dice di diventare vecchio imparando ogni giorno qualche cosa; non solo, ma a Pisistrato che gli domandò in che cosa confidasse per opporsi a lui con tanta audacia, rispose "senectute ", nella vecchiaia (20).
I piaceri che scemano poi sono quelli volgari del corpo: “epularum aut ludorum aut scortorum voluptates” , dei banchetti o dei giochi o delle prostitute (14) certo non paragonabili a quelli dello spirito che invece crescono. Quanto alle solite accuse di essere bisbetici (morosi ), ansiosi (anxii), iracundi , difficiles, avari, questi sono difetti dei caratteri, non della vecchiaia:"sed haec morum vitia sunt, non senectutis "(18).
Nel campo della commedia, basta guardare i due fratelli degli Adelphoe  di Terenzio:"quanta in altero diritas, in altero comitas! ", quanta durezza nell'uno (Demea), dolcezza nell'altro (Micione)! Anche la vicinanza della morte non è terrificante, infatti"omnia quae secundum naturam fiunt sunt habenda in bonis", tutto quello che avviene secondo natura deve essere considerato tra i beni (19).
 E noi uomini:"in hoc sumus sapientes, quod naturam optimam ducem tamquam deum sequimur eique paremus ", in questo siamo saggi che seguiamo la natura ottima guida come un dio, e le obbediamo, aveva già detto Catone nel prologo (2).
J. Hilman è d’accordo con Cicerone: “I fatti dimostrano che, invecchiando, io rivelo più carattere, non più morte”[3].
Purtroppo non posso soffermarmi oltre sull'argomento, che mi sta a cuore, anche per ragioni anagrafiche oramai, però voglio menzionare un moderno: Italo Svevo nella cui opera, il protagonista di Senilità , Emilio Brentani, è un trentacinquenne dall'anima stanca, mentre la vecchiaia anagrafica di altri personaggi è, come nota Magris ne L'anello di Clarisse (p.198):" libertà dall'obbligo di attestare a se stessi e agli altri il proprio valore, la propria capacità e vitalità".
 Vediamo un breve brano di Carlotta a Weimar di T. Mann  (del 1939). Il romanzo tratta dell’ex ragazza ispiratrice del Werther, Charlotte Buff, la quale oramai era “una matrona non lontana certo dalla sessantina, piuttosto grassoccia, con un abito bianco ed uno scialle nero, mezzi guanti di filo ed una capote alta, che lasciava intravedere capelli ricci, di quel grigio cenere che succede al biondo” (p. 6). “Era una cosiddetta vecchia signora, si definiva ella stessa così, e viaggiava con una figlia di ventinove anni, che era per lo più la nonna delle creature donate al marito. Ma ecco che lì distesa sentiva il cuore battere come una ragazzina pronta ad una grossa birichinata” (p. 31). “E’ la fede della nostra giovinezza quella che in fondo non perdiamo mai. Constatare che tale fiducia ha resistito, che siamo restati gli stessi, che l’invecchiare è fenomeno fisico esteriore incapace di influire sulla perennità del nostro intimo io, di questo pazzo io che trasciniamo attraverso i decenni, è cosa che non dispiace mai quando siamo in età avanzata- in ciò sta anzi il pudico  e sereno segreto della nostra dignità senile” (p. 30).
 
Concludo con alcune riflessioni di U. Galimberti: “Nel suo disperato tentativo di opporsi alla legge di natura, che vuole l’inesorabile declino degli individui, chi non accetta la vecchiaia è costretto a stare continuamente all’erta per cogliere di giorno in giorno il minimo segno di declino. Ipocondria, ossessività, ansia e depressione diventano le malefiche compagne di viaggio dei suoi giorni, mentre suoi feticci diventano la bilancia, la dieta, la palestra, la profumeria, lo specchio.
Eppure nel Levitico (19, 32) leggiamo: “Onora la faccia del vecchio”…La faccia del vecchio è un bene per il gruppo, e perciò Hilmann può scrivere che, per il bene dell’umanità, “bisognerebbe proibire la chirurgia cosmetica e considerare il lifting un crimine contro l’umanità”, perché, oltre a privare il gruppo della faccia del vecchio, finisce per dar corda a quel mito della giovinezza che visualizza la vecchiaia come anticamera della morte. A sostegno del mito della giovinezza ci sono due idee malate che regolano la cultura occidentale, rendendo l’età avanzata più spaventosa di quello che è: il primato del fattore biologico e del fattore economico che, gettando sullo sfondo tutti gli altri valori, connettono la vecchiaia all’inutilità, e l’inutilità all’attesa della morte. Eppure non è da poco il danno che si produce quando le facce che invecchiano hanno scarsa visibilità…La faccia del vecchio è un atto di verità, mentre la maschera dietro cui si nasconde un volto trattato con la chirurgia è una falsificazione che lascia trasparire l’in
sicurezza di chi non ha il coraggio di esporsi con la propria faccia. Se smascheriamo il mito della giovinezza e curiamo le idee malate che la nostra cultura ha diffuso sulla vecchiaia potremmo scorgere in essa due virtù: quella del “carattere” e quella dell’ “amore”. La prima ce la segnala Hilmann ne La forza del carattere (Adelphi): “Invecchiando io rivelo il mio carattere, non la mia morte”, dove per carattere devo pensare a ciò che ha plasmato la mia faccia, che si chiama “faccia” perché la “faccio” proprio io, con le abitudini contratte nella vita, le amicizie che ho frequentato, le peculiarità che mi sono dato, le ambizioni che ho inseguito, gli amori che ho incontrato e che ho sognato, i figli che ho generato”[4].

Giovanni Ghiselli  g.ghiselli@tin.it


[1] Stivale degli attori tragici: andava bene per entrambi i piedi. Così venne soprannominato Teramene, un politico ateniese che fece tutte le parti.
[2] Cfr. Iliade VI, 146-149. Glauco chiede a Diomede:
"Tidide magnanimo, perché mi domandi la stirpe?
quale è la stirpe delle foglie, tale è anche quella degli uomini.
Le foglie alcune ne sparge il vento a terra, altre la selva
fiorente genera quando arriva il tempo di primavera;
così le stirpi degli uomini: una nasce, un'altra finisce".
[3] La forza del carattere, p. 27.
[4] U. Galimberti,  la Repubblica 29 febbraio 2008, p. 53 : Quando essere vecchi significa saggezza.

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