Riprendo il tema della
bellezza e della necessità dell’ascesi somatica, di quell’esercizio sportivo
senza il quale si rimane, o si diventa, "più molli del necessario"[1].
Dovevo vincere una gara allo stadio, ancora quello di Debrecen, ma quell’estate, era il 1980, ci ero andato con Ifigenia, la giovane collega e amante italiana. Era tornato nella cittadina universitaria ungherese anche Fulvio, stanco delle sue nozze diventate con gli anni tediose e dolorose.
Dovevo vincere una gara allo stadio, ancora quello di Debrecen, ma quell’estate, era il 1980, ci ero andato con Ifigenia, la giovane collega e amante italiana. Era tornato nella cittadina universitaria ungherese anche Fulvio, stanco delle sue nozze diventate con gli anni tediose e dolorose.
L’agone era quello dei 1500 metri per i quali non avevo allenamento né talento specifico. La mia distanza infatti era, ed è, quella dei 5000, 12 giri e mezzo di pista. Eravamo otto agonisti. Il più vecchio ero io. Il più temibile era un francese ventiduenne allenato a quel percorso, tre giri e trecento metri, troppo breve per le mie caratteristiche fisiche e per quelle mentali, che poi sono connesse. Io ho bisogno di tempi e distanze lunghe. Mi manca lo scatto, fisico e psichico. Tra gli altri c’era un centometrista, Diego, che se avesse resistito alle mie spalle fino all’ultimo rettilineo, mi avrebbe stracciato. Dovevo imporre un ritmo elevato sin dall’inizio, senza però arrivare sfiancato nella parte finale. Nonostante il mio allenamento negli stadi, dove gareggia velocità di piedi e vincono vertici ardimentosi di forza[2] intelligente, non ero sicuro di me: troppo breve era quella competizione rispetto ai miei mezzi, ai miei ritmi, perfino ai miei gusti. Nello sport e nella vita ho bisogno del beneficio del tempo per utilizzare la mia tenacia e la mia resistenza alla fatica e al dolore. Anche per questo prego, oltrepassando Solone[3], che il destino di morte mi colga per lo meno novantenne.
Ifigenia faceva il tifo per
me, mi incoraggiava: diceva che avrei vinto di sicuro, e quando quella creatura
mi dava fiducia, preferivo morire che demeritarla.
Al momento della partenza ero
nervoso: andavo nel bagno degli spogliatoi a orinare ogni cinque minuti, tutte
le volte volta nella speranza di perdere qualche grammo aggravante di peso
superfluo la nobile gara. Lo sforzo mi provocò perfino una goccia di sangue,
con terrore e presagi di qualche sfacelo forse nemmeno abbastanza remoto[4].
Ma oramai ero quasi in ballo,
ossia in corsa e dovevo correre.
Sul traguardo, con Ifigenia, c’era Fulvio, l’amico più caro, e
una ventina di conoscenti, persone assai meno importanti. Anche con loro però
avrei fatto una bella figura oppure una figura grama, da senescente fallito.
Indossavo una maglietta gialla con il nome del nostro liceo dove avrei
trionfato anche sui malevoli, vecchi[5]
colleghi se avessi vinto quell’agone latore di auspici. Sotto la maglia avevo
un paio di calzoncini rossi, aderenti, leggeri, regalo ben augurante della mia
bella compagna. Partii dunque in testa imponendo un’andatura veloce per stancare
subito Diego, il ragazzo napoletano dal temibile scatto finale. Invero dopo
solo trecento metri, ossia all’inizio del terz’ultimo giro, avevano perso
terreno tutti, tranne l’antagonista francese che mi restava attaccato alle
spalle, e, a giudicare dal respiro, sembrava più sciolto e meno affaticato di me.
Ifigenia intanto, al primo passaggio sul traguardo, saltava e gridava
incoraggiandomi assai. Procedemmo nella stessa maniera per tutto il giro
seguente: io davanti, sperando di sentire affannata la lena del transalpino, lui dietro, continuando
a tallonarmi e a respirare senza fretta, quasi senza fatica. Dal suo fiato più
lento e disteso del mio, capivo che, se voleva, poteva imporre un ritmo più
alto. Infatti, all’inizio del penultimo giro mi superò.
Ifigenia non smetteva di
incoraggiarmi, fiduciosa nella mia, nella nostra vittoria.
Tutti gli altri, distanziati
parecchio, erano ormai fuori gioco.
L’unico antagonista dunque,
agli ottocento metri dalla linea d’arrivo mi superò, poi proseguì nel suo attacco:
come il fiato, anche il passo aveva agile e sciolto, e io stentavo a rimanergli
dietro. Mi sembrava di ciabattare rigido, contratto, appesantito; mi sentivo
pure macchiato di sangue appiccicoso e oneroso nelle mutande , mentre il rivale
pareva divinamente a suo agio: come se
si allenasse per gioco, in tranquilla attesa di darmi la botta finale,
l’implacabile colpo di grazia. Pensavo alla sconfitta come a un presagio
sinistro, un triste preannunzio di danni futuri[6].
Ai cinquecento metri dall’arrivo, poco prima
di passare per la terza volta davanti a Ifigenia che mi incitava a gran voce e
mostrava di credere in me, nella mia vittoria, nonostante fossi già prossimo
allo stremo, volli fare la prova dello sprint che avrebbe risolto la gara dopo
un altro giro, in fondo agli ultimi 400 metri. Per non correre il rischio di
restare chiuso all’interno, mi spostai all’esterno, raccolsi buona parte delle
forze residue e feci uno scatto con il quale oltrepassai il rivale e, per la
penultima volta, il traguardo. Ifigenia gridò: "bravo, bravo!" e fece due salti
battendo freneticamente le mani. Mancavano ancora quattrocento metri però, e io
avevo dato quasi tutto. Meta erat longe[7] rispetto a quanto
mi restava di forza fiato.
Dopo una trentina di metri
infatti il rivale tornò a superarmi, e non con uno scatto repentino e inopinato, come avevo
fatto io prima impiegando una dose spropositata di energie, ma con l’alzare
progressivamente il ritmo delle sue lunghe, potenti falcate. Aveva quattordici
anni meno di me ed era una decina di centimetri più alto. Ali sembravan le sue
gambe snelle[8].
Ali del divino uccello di
Zeus[9].
Parevano sollevarsi e
distendersi senza troppa fatica, quasi con negligenza sovrana, mentre le mie,
per reggere il nuovo ritmo, arrancavano rigidamente con rabbia pesante, con
stento, fatica, dolore, umiliazione.
Secco usciva l’affanno dalla mia bocca aperta e stremata[10].
Secco usciva l’affanno dalla mia bocca aperta e stremata[10].
Per non rimanere turpemente staccato, dovevo adoperare tutta quanta la forza che potevo trovare frugando a fondo nella mia persona, tutte le energie positive accumulate in trentacinque anni e mezzo di vita.
Pensai a Ifigenia che mi
aveva sempre apprezzato anche per come correvo i 5000 metri. Poi mi feci venire
in mente che in luglio avevo scalato il Pordoi con una bici pesante, vecchia, arrugginita,
eppure a una media di 18 chilometri all’ora, che con tre anni di studio intelligente ero
diventato un professore egregio e avevo fatto innamorare di me, non bellissimo,
non ricco, del tutto privo di ogni potere, la più bella, giovane e corteggiata
supplente del liceo classico più frequentato della dotta città di Bologna.
Ebbene quella ragazza sarebbe rimasta delusa se fossi arrivato secondo.
Probabilmente mi avrebbe disprezzato e lasciato. Infatti la donna che può
scegliere in un mazzo di pretendenti, non perdona l’insuccesso[11] al
prescelto, ed è giusto così. Dopo tanta prosopopea, debole e imbecille mi sarei rivelato arrivando
secondo.
Non mi voltai, poiché non
sentivo nessuno dietro di me: il secondo posto era assicurato, per carità, ma
cosa me ne facevo? Non potevo rassegnarmi a non vincere senza avere spremuto me
stesso fino all’ultima goccia di forza, di sangue, di vita, di tutto. Ifigenia
da me si aspettava almeno il primo posto. Meglio ancora, del tutto degno di
tanta amante sarebbe stato che io vincessi con cento metri di vantaggio. Ma
questo non era possibile. Mentre pensavo e mi spronavo come potevo, dovevo
usare tutte le energie rimaste per non perdere metri preziosi. Ho scritto sopra
che mi manca lo scatto in partenza, però quando arrivo in fondo a un percorso
meno stanco degli altri, posso avvalermi di questa relativa freschezza negli
ultimi metri. Quindi, se riuscivo a rimanergli dietro fino all’ultima curva,
sfruttando oltretutto la scia, nel rettilineo finale potevo cercare di superarlo
mettendo in lizza tutto quanto di vivo poteva esserci ancora in me. "Oh mia
bella mora, no, non mi lasciare, non mi devi abbandonare, no, no, no, no, no,
no!", canticchiai mentalmente, per sdrammatizzare, il ritornello di una
canzoncina della mia prima adolescenza.
L’ultima curva fu atroce. Il rivale mi attaccò ancora, scattando a ripetizione. Prese un vantaggio di tre-quattro metri. Quando sbucai sul rettilineo dell’arrivo, vidi Ifigenia. Agitava le braccia alzate sopra la testa e gridava: "Dai Gianni, non cedere amore, non cedere!"
Mi vennero in mente le tante
volte che avevo corso gli stadi: prima per meritarmi l’amore di donne giovani e
belle, poi per conservarlo. La più bella, la vera borsa di studio e di ogni
erculea fatica era lì, e mi incitava con tutta la forza, e pretendeva che il
suo uomo non fosse soltanto il secondo.
"Non cederò[12]
- pensai - prima crepo. Senza l’aurea Afrodite non potrei vivere più".
Richiamai alla memoria i
faticosi successi della mia travagliosa esistenza per ottenere il consenso,
l’ammirazione e l’amore delle femmine umane: dagli ottimi voti scolastici con i
quali volevo conquistare la mamma, la nonna, le zie, la bruna compagna di
scuola Marisa, alle citazioni di
Leopardi o di Dante, di Petronio, di Eliot, di Pavese per colpire Elena
Sarjantola, alle conversazioni intelligenti, con Päivi, al matto, eppure non
disperato impegno nelle materie di insegnamento che mi avrebbe procurato
l’agognata borsa di studio incarnata nella splendidissima supplente Ifigenia
che era lì a Debrecen con me, presente e viva.
Poi pensai di nuovo alle
fatiche fisiche: gli allenamenti a piedi e in bicicletta, le nuotate nel mare
di Pesaro; ricordai l’impiego tedioso del tempo: le ore passate in solitudine a
prendere il sole, disidratato sulla sabbia rovente, o scorticato dal freddo
sulla neve delle montagne battute da soffi acuti di vento ghiacciato,
rabbrividendo fino alle viscere, in solitudine immobile per ricavarne
l’abbronzatura che mi rendesse più piacente e
gradito alle femmine umane. Poi i digiuni, la fame a volta crudele,
talora insonne, per conquistare, o
recuperare, o mantenere la linea da asceta, la forma stilizzata che mi
soddisfaceva e mi rendeva in termini di rapporti umani. Nell’itinerario lungo e
difficile c’erano molti sacrifici, fino alla spietatezza verso me stesso, c’era
del dolore, c’era qualche frustrazione, ma c’erano anche diversi successi.
Potevo vincere ancora.
Feci uno scatto a novanta metri dall’arrivo: ai settanta avevo raggiunto la schiena dell’antagonista. Temporeggiai per dieci metri, onde lenire un momento l’affanno, quindi mi portai sulla destra e scattai di nuovo: lo superai, poi vidi che guadagnavo terreno; allora, con gli occhi chiusi e il collo tutto teso all’indietro, senza pensare più a niente, quasi non respirando, mi scagliai sul traguardo impiegando e impegnando allo spasimo tutto quanto di vivo mi restava dentro.
Superata la meta, respirai e
riaprii gli occhi. Ifigenia esultava. Mi buttai boccheggiante sul prato interno
alla pista. Il francese arrivò distanziato di cinque o sei metri. Diego di un
centinaio. Gli altri dopo di lui.
Quando ebbi ripreso fiato e
piena coscienza, Ifigenia venne a dirmi: "Bravo, non mi aspettavo meno da te".
Fulvio disse che avevo fatto un figurone con quei ventenni. Ero felice.
Quella sera io e la mia donna
capimmo che il nostro rapporto aveva valore finché l’uno dava all’altro la
spinta verso le cose egregie. La gara vinta era un segno, un gran buon segno.
La sera, non avendo in collegio una stanza comune, facemmo l’amore diverse volte nella nera
Volkswagen tra gli alberi antichi dell’antica foresta. Non sentivo il desiderio
né il rimpianto di donne migliori. "Finché mi fa vincere - pensai - l’ottima è
lei".
Naturalmente dovevo, e volevo,
a mia volta incoraggiarla a primeggiare sempre, a essere egregia tra tutte le altre[13].
Giovanni
Ghiselli. g.ghiselli@tin.it
Nella foto: io in Grecia nel 2009, sotto lo spruzzo dell'acqua di un parco dopo una giornata di sport
Nella foto: io in Grecia nel 2009, sotto lo spruzzo dell'acqua di un parco dopo una giornata di sport
Il blog http://giovannighiselli.blogspot.it/ è arrivato a 52413
[1] Nella Repubblica
(410d), Platone rappresenta suo fratello Glaucone che conversa co Socrate e
sostiene che coloro i quali praticano la sola e pura ginnastica sono ajgriwvteroi tou` deevonto~, più rozzi del necessario, ma quelli che non praticano
l’esercizio fisico sono malavkwteroi, più molli del necessario. Parole sante. Si può
pensare da una parte a tanti calciatori, dall’altra agli umbratici doctores alle
talpe che si acciecano nel buio e nella polvere delle biblioteche.
[2] Cfr. Pindaro, Olimpica
I, vv.95-96
[3] ojgdwkontaevth moi`ra kivcoi qanavtou, (fr. 22D, v. 4), il destino di morte mi colga ottantenne.
[4] "Essi fuggono via/da qualche remoto sfacelo;/ma
quale, ma dove egli sia,/non sa né la terra né il cielo" (Giovanni Pascoli, Myricae, Scalpitìo, vv. 9-12)
[5] Cfr. Terenzio, Andria,
6-7.
[6] Cfr. Dante,
Inferno, XIII, 10-12: "Quivi le brutte Arpìe lor nidi fanno, / che cacciar
delle Strofade i Troiani / con tristo annunzio di futuro danno".
[7] Cfr. Ovidio, Metamorfosi,
X, 665, la meta era lontana. Il poeta peligno racconta la gara tra Atalanta e
Ippomene che vince la corsa grazie all’astuzia dei pomi d’oro.
[8] Cfr. Dante, Inferno,
XVI, 87.
[9] Cfr. Pindaro, Olimpica
II, 88.
[10] Cfr. Ovidio, Metamorfosi,
X, 663: "aridus e lasso veniebat
anhelitus ore". Ippomene non ce l’avrebbe fatta senza l’aiuto di Venere che
gli aveva dato le mele d’oro. Né io senza l’incoraggiamento, l’aiuto mentale di
Ifigenia.
[11] Cfr. Čechov, Il
gabbiano, II. "Le donne non perdonano l’insuccesso", dice Kostantin che poi
si uccide.
[12] Cfr. Iliade, XIX, 423 ouj lhvxw. E’ Achille che risponde a Xanto, il cavallo fatato
che, abbassato il capo e tutta la chioma, gli ha predetto la morte vicina.
sei bravo anche come cronista sportivo.
RispondiEliminaalessandro
Stamane son andata a Ravenna in bici, ci ho messo 3h e 15m per 79km
RispondiEliminaIeri sera avevo letto questo racconto - avevo comunque già deciso di fare Bologna-Ravenna - e stanotte ho sognato la tua gara...
E oggi ci pensavo durante il tragitto: mi ha stimolata!
E intanto mi ispira per vincere altre gare, decisamente meno fisiche, decisamente più
morali, sentimentali...
Bello!!!
Maddalena