Storia di Dolores. Lettera al
padre che non ho mai avuto di
Francesca Nodari.
Ho letto con interesse un bel
libro appena uscito : Storia di Dolores
Lettera al
padre che non ho mai avuto di
Francesca Nodari (edizione Pagine, Roma 2013).
L’autrice è una giovane
studiosa che ha conseguito il Dottorato di ricerca in Filosofia presso
l’Università degli Studi di Trieste, ha pubblicato diversi altri libri tra i
quali ho già recensito Il pensiero
incarnato in Emmanuel Levinas, ed è Direttore scientifico del Festival
Filosofi lungo l’Oglio al quale ho partecipato l’anno scorso con una conferenza
sul tema della Dignità.
Ebbene questo suo ultimo
libro insegna la dignità nel dolore.
Il volume è dedicato “A tutte
le donne vittime della violenza”.
Le epigrafi premesse al testo
sono citazioni da Eschilo (Coefore,
1029-1030) , Teognide (Silloge,
1029-1030) e Agostino (Confessioni,
X, 28), autori i quali ci avvertono che il dolore è il prezzo da pagare per
questa nostra vita di uomini.
Eschilo anzi considera la sofferenza addirittura
un’occasione per accrescere la conoscenza e la comprensione: “tw`/ pavqei mavqo~”, canta il coro di vecchi
Argivi nella Parodo dell’Agamennone
(v. 177).
Il personaggio che scrive
questa lettera al padre ha un nome sinistramente ominoso, Dolores, un nomen omen che prefigura un destino di
dolore, ma le ferite ricevute da un
padre che non vuole essere padre, un anti padre, un dys-padre [1], sono
pure destinate, data l’ntelligenza, la sensibilità, la cultura e la moralità
della figlia, a “fiorire in tanta luce” [2].
Scrivere questa lettera, per
Dolores è una necessità, una medicina che la aiuta a liberarsi dal male che le
è stato inflitto da un genitore maschio energumeno. Le letture, poi la
scrittura, la aiutano a cercare di capirne le ragioni che del resto non
sembrano esserci: il male appare gratuito e brutale. La donna, la ragazza che
scrive, ha una trentina d’anni che vengono ripercorsi a partire dall’età
infantile.
Colpisce la totale anomalia
di questo rapporto di un uomo con l’unica figlia, una femmina, la cui
persecuzione da parte del padre suo crea stupore siccome molto più spesso
l’eventuale conflitto, di tipo edipico, avviene tra il padre e il figlio
maschio, come nella Lettera al padre
di Kafka, o tra la figlia e la madre, come nell’Elettra di Sofocle o nel rifacimento di O’ Neill, Il lutto si addice a Eletttra.
E’ pure vero che Oreste uccise la madre e che il
mandante dell’assassinio di Agrippina, Nerone recitava volentieri la parte del
figlio di Agamennone poiché quel matricidio presente in tante tragedie aveva una dignità mitologica, e per giunta era
stato giustificato da Apollo e da Atena nelle Eumenidi di Eschilo.
A questo proposito, Apollo nel
difendere Oreste, sostiene che ammazzare la madre non è un delitto orribile con
una affermazione di patriarcato e di
antifemminismo estremo:"La cosiddetta madre non è la generatrice
del figlio (tevknou
tokeuv~ ), ma la nutrice (trofov~) del feto appena seminato: genera (tivktei) il maschio che la monta;
colei come un ospite con un ospite salva
il germe (e[rno~), per quelli ai quali gli dèi non
l’abbia distrutto" [3].
Ebbene, nel caso
di Dolores, la mamma è l’unica genitrice, anzi è la bisgenitrice, colei che più di una volta dà la vita alla
figlia, mentre il padre rinnega del tutto la propria funzione creatrice,
ripudia se stesso come padre: è un ex padre il quale osa chiamare la ragazza
che ha messo al mondo con “un maledetto neologismo da lui coniato ‘ex figlia’ ”
(p. 33).
Il bruto che
usurpa il nome di padre un giorno arriva a un passo dall’uccisione della
ragazza con le proprie mani.
E’ la madre che la
salva: “Le tue cinque dita sulla mia gola, il mio inutile tentativo di
liberarmi da quella stretta che sapeva di morte…Il respiro che mancava. Lo
stordimento. Se oggi posso raccontare questo orribile momento è grazie
all’intervento della mamma…Mamma-alla cui “misericordia delle viscere”, per
ricordare un’espressione usata da Levinas, che si rifà al termine biblico “Rachamìn”, “che si traduce
misericordia, ma che contiene un riferimento alla parola “Rechèm”-utero”, mi
ritrovai di nuovo debitrice-fu colei che, in quella circostanza, in certo
senso, mi diede la vita per la seconda volta” (p. 23).
Si può
dunque ribaltare l’Apollo delle Eumenidi di Eschilo con l’Ulisse
di Joyce: “Amor matris , genitivo soggettivo e oggettivo, questa è forse l'unica
cosa vera nella vita. La paternità forse è una finzione legale. Chi è il padre
di un qualsiasi figlio perché qualsiasi figlio debba amarlo o viceversa (...)
Il figlio nascituro guasta la bellezza: nato, porta dolore, separa l'affetto,
accresce le preoccupazioni. E' un maschio: la sua crescita è il declinare del
padre, la sua giovinezza l'invidia del padre, il suo amico il nemico del padre
(...) Che cosa mai li congiunge in natura? Un istante di cieca foia" [4].
Il
padre di Dolores è sempre in preda alla rabbia, è un uomo incapace di qualunque
affetto positivo, di qualsiasi dialogo: “L’unico linguaggio decifrabile era e
sarebbe stato quello della forza e della violenza. Una tracotanza che nasconde,
forse, la fragilità o l’incapacità di esprimersi in altro modo” (p. 18).
Alla
figlia bambina e ragazzina viene negata ogni possibilità di chiarimento, di
spiegazione, di comunicazione con il padre che la rifiuta.
Viene in mente la giovinetta Ottavia alla corte di Nerone:
"Octavia quoque, quamvis rudibus annis, dolorem caritatem omnes
adfectus abscondere didicerat" ( Annales, XIII, 16), anche
Ottavia, sebbene non scaltrita dall'età [5],
aveva imparato a nascondere la pena, l'amore e tutti i sentimenti.
Ma Ottavia non aveva padre né madre che la
difendessero [6].
Dolores invece ha una madre buona, cara, preziosa.
Del resto la scrivente non può colmare la lacuna della
figura paterna: “Ho sempre sognato ciò di cui sono stata privata: una figura
protettiva, autorevole, certo, ma non autoritaria” (18). Tale figura viene
rimpiazzata, a mano che la ragazza cresce, dai suoi Maestri: Natoli, Levinas e
altri.
Il padre dunque è bestialmente manesco in molte
circostanze: maltratta e picchia i dipendenti, ma nessuno lo denuncia: “sembrava
che tutto ti fosse concesso, in nome di quell’omertà che rende muti, o, forse,
di quell’ingenuo pudore che porta alla rinuncia della parresìa, al desistere da ogni azione che si configuri come
resistenza al male e al ricatto che lo sottende” (p. 20).
E’ un termine chiave della democrazia. Nello
Ione [8] di Euripide,
il protagonista esprime il desiderio di ereditare da una madre ateniese
questo privilegio, recandosi ad Atene, poiché lo straniero che piomba in quella
città, anche se a parole diventa cittadino, ha schiava la bocca senza la
libertà di parola ("tov
ge stovma-dou'lon pevpatai koujk e[cei parrhsivan", vv. 674-675).
Dolores dunque considera “l’errore più grande della
sua vita” non avere denunciato il padre. Quante donne, si domanda, non hanno il
coraggio di denunciare i loro aguzzini?
Diverse sono le cause che bloccano la parresia.
Esterne e interne. Tra le altre, il dolore. A questo proposito, Dolores cita uno dei suoi padri
spirituali: “Ha ragione Salvatore Natoli quando sostiene che il dolore rende
muti e riduce le parole a un balbettio…Chi è preda del dolore non sente il
mondo, ma quella piaga che si rimargina: è nel mondo, ma vive a se stante e non
aspetta altro che la parola che salva” (p. 25).
Ma il dolore può essere un maestro, un educatore che insegna il difficile mestiere di vivere.
Seneca nel De providentia trova un significato positivo non solo nel
lavoro ma pure nelle disgrazie (incommoda), nei dolori e nelle perdite quali prove per
esercitare e temprare la virtus :"Marcet sine adversario virtus"
(2, 4), senza un avversario la virtù marcisce.
E' la medesima impostazione del Giobbe
biblico:"Se nella cultura occidentale inglobiamo, per l'innesto operato
dal cristianesimo, la cultura ebraica, allora la più antica occorrenza di
questo "perché" [9]
potrebbe essere il Libro di Giobbe
" [10].
Ne riporto una massima:"Felice l'uomo che è
corretto da Dio" [11].
Ricordo anche un Giobbe moderno (1930)
di Joseph Roth: un pio ebreo orientale, Mendel
Singer:"la sua vita era una perpetua fatica". Aveva un figlio
piccolo, Menuchim, che cresceva male, era malato, ma il Rabbi disse alla madre
Deborah:"il dolore lo farà saggio, la deformità buono, l'amarezza mite e
la malattia forte. I suoi occhi saranno grandi e profondi, le sue orecchie
limpide e piene di risonanze" [12].
Ma
ora torniamo a Dolores di Francesca Nodari. Anche lei dal dolore impara: “Solo
oggi mi rendo conto, fino in fondo, di quante energie richiedesse quello stato
d’emergenza, quale condizione eccezionale, alla quale, comunque, devi cercare
di far fronte. E’ la týche greca, il
caso. Natoli ha di nuovo ragione: per far fronte al destino occorre divenire
abili al mondo, diventare signori di sé. In una parola pensare la felicità
possibile, non in termini di eutychía (buona
sorte) ma di eudaimonía (demone
favorevole). Quel daimon che troviamo
dentro di noi per “stare al mondo” da soggetti responsabili, e non come
semplici marionette eterodirette” (p.29).
E
allora dobbiamo ricordarci della “Provvidenza che rischiara le giornate buie”.
C’è
un altro grande personaggio femminile, oltre lei stessa e la mamma, nel romanzo
di Dolores, ed è la nonna, l’amabile madre dell’odioso padre che arriva a dire
alla figlia: “Buttati sotto il primo treno che trovi. Perché dovresti vivere?”
(p. 33).
La
ragazza, con l’esempio del coraggio materno, con l’aiuto dell’affetto della
nonna, con l’ausilio dei bravi maestri incontrati via via, ha saputo trovare
quella identità di persona che il padre cercava di negarle, una persona ricca
di umanità, dignità e moralità. Senza questo patrimonio non può esserci
felicità
" Sostengo che non vi è profonda felicità senza
morale profonda" [13].
Dolores, con la sua
intelligenza morale, è stata capace di trasformare l’orrore subito in un motivo
di crescita: “Perché, forse, senza quella sofferenza non sarei diventata la
persona che sono oggi” (p. 35).
Non so quanto sia
autobiografico un libro, ma so, da Flaubert e da altri, che ogni libro lo è
sempre, e in non piccola parte, e so che Francesca Nodari è una bella persona.
Le persone che siamo,
quando, e se, diventiamo quello che siamo [14]
raccolgono la storia di
migliaia di generazioni che ci hanno preceduti.
Si possono avere
antenati spirituali al di fuori della parentela, nella letteratura per esempio, come sostiene
Dorian Gray nel romanzo di Oscar Wilde. Ebbene Dolores non sente il non padre
come suo genitore, ma i suoi padri spirituali sono i Maestri più volte citati.
C’è comunque la nonna cha la collega alla
famiglia paterna, poiché dal passato
della nostra stirpe, delle nostre stirpi, non possiamo prescindere. Voglio
riferire una citazione illuminante che
Dolores-Francesca prende da La memoria di
Dio di Paolo De Benedetti: “In ebraico il concetto di storia si pensa e si
esprime come una sequenza di generazioni
che ricevono ciascuna dalla precedente e trasmettono ciascuna alla seguente. In
questa storia ebraica, in questa storia biblica, la stella polare è il ricordo
(zachor). Io sono recettore di
ricordi e un produttore di ricordi: ecco perché ha senso parlare di storia in
termini di toledot (generazione) di
contro al concetto greco-latino di
historia, che viene da indagare. La storia, nel concetto biblico, è un
trasmettere, è un trasmettersi (…) Questo non è un bisogno di nobiltà, è un
bisogno di trasmissione, è un bisogno di salvare la vita di chi non c’è più”
(p. 45).
La nonna è malata e
muore senza che l’ex padre permetta a Dolores di assistere a quella morte
dolorosissima per lei. Il dys-padre si è trovato un’altra donna, pare degna di
lui, che contribuisce a tenere lontana la ragazza da quella che era stata la
casa sua.
Con la dipartita della
nonna esplode di nuovo quella fase acuta del dolore che non è possibile
anestetizzare, né riscattare con la cultura, con l’arte, con la bellezza
trasformando il tragico in sublime. Il non padre cerca di escludere Dolores
persino dal funerale della propria madre, della nonna che invece aveva sempre
cercato l’affetto della nipote: “L’ex figlia-ti prodigasti di farmi sapere
attraverso un tuo mandatario-non può partecipare al funerale, né far visita al
feretro” (p. 54). Ma Dolores non accetta il divieto disumano e si reca a fare
quella visita dettata dalla pietas e
dall’amore: “Vidi la bara lunga e stretta. E dentro un corpicino divorato dal
male. Una donna di poco più di trenta chili che non mi pareva avesse le
sembianze di nonna…Scoppiai a piangere…In piedi, di fronte a me, c’eri tu,
padre…Ex figlia-urlasti-la butto fuori” (p. 54).
Dolores non si spaventa. “Avvertii una forza
che mi veniva, credo, da nonna e da Dio”. Dei nostri consanguinei, di quelli
che ci hanno voluto bene, possiamo pensare che sono vissuti per noi, per
favorire le nostre vite.
Poi c’è il giorno delle
esequie “Uno dei giorni peggiori della mia vita” (57)
E’ il giorno in cui Dolores si identifica con
il proprio nome e con il proprio destino: “Ora capisco, fino in fondo, il
destino contenuto nel mio nome, Dolores”
(p. 59).
Il non padre preclude
alla nipote di sua madre l’ingresso nella cappella dov’è sepolta la nonna. E’
il decreto disumano di Creonte [15] che
vuole negare la pietà, la celeste corrispondenza di amorosi sensi [16] tra
i vivi e i morti dello stesso sangue.
Ma il divieto non può
impedire la preghiera che “come insegna il filosofo della religione Bernhard
Camper in Evento e preghiera- si
mostra come l’accadimento che, volendo utilizzare il linguaggio kantiano,
potremmo chiamare l’accadimento estremo della “ragione pura pratica” (p.
60).
Siamo arrivati
all’epilogo
“Mi sono resa conto che
l’unico modo per superare o, almeno, alleviare un dolore non conosce
alternative se non quella-l’unica- di attraversarlo. Sofferenza con amore e
timore di Dio” (p. 61).
E’ l’ajrti manqavnw dell’Alcesti di Euripide (v. 940) ed è l’ora
comprendo di Giobbe: “Ecco, temere Dio questo è sapienza e schivare il male,
questo è intelligenza” (Gb 28, 28)…Ora mi sento più leggera” (p.61)
Dolores nelle ultime
pagine ringrazia la mamma sua e i Maestri “padri nobili che mi hanno sostenuto
nel percorso, che mi hanno incoraggiato, che mi hanno saputo ascoltare e
spronare a sperare. Di più a non demordere, ad andare avanti, a crescere” (p.
62). Segue una citazionr di Levinas che mostra la luce del Bene in fondo al
tunnel del male: “la teofania” (p. 62).
Quindi un ricordo del
Cardinale Carlo Maria Martini, morto nei giorni in cui Dolores concludeva la
sua lettera, un altro Maestro e padre di cui viene citato il libro La forza della debolezza con l’invito “a
resistere alle tribolazioni (…) L’uomo nel dolore coglie il senso più autentico
della vita e, se non smette di credere, percepisce la compagnia di Dio,
sorgente di energia rinnovata e di forza per rialzarsi dopo qualsiasi caduta”
(p. 63) .
Dolores ha capito tutto.
Ha compreso che la vita è comunque un dono di Dio, è piena di Dio.
Ogni
persona religiosa riconosce la bellezza della vita e ne sente la gioia poiché
“Chi dava a voi tanta gioia è per tutto; e non turba mai la gioia de’ suoi
figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande” [17].
Una comprensione di fondo che anche
Dostoevkij, un altro scrittore che ha attraversato grandi sofferenze,
raccomanda ai suoi lettori.
Il
principe Myškin ritiene connaturata all’uomo e naturale la felicità: “Io non so
come sia possibile passare accanto a un albero e non sentirsi felici di
vederlo. Parlare con una persona e non essere felici di volerle bene! Oh, io
non so esprimere bene i miei sentimenti…ma quante cose belle vediamo ad ogni
pie’ sospinto, belle al punto che l’uomo più abbietto non può che vederle
sempre belle? Guardate un bambino, guardate l’alba divina, guardate come cresce
un fuscello, guardate negli occhi che vi guardano a loro volta e vi vogliono
bene…” [18].
Voglio convalidare questo precetto santo con altri tre maestri.
Strabone [19] ha scritto una Geografia della quale
riporto questa sentenza educativa e
religiosa: “ gli uomini imitano benissimo gli dèi quando fanno del bene, ma, si
potrebbe dire anche meglio, quando sono felici (" a[meinon d j a[n levgoi
ti", o{tan eujdaimonw'si", X, 3, 9).
Spinoza, e per l’impiego di questo autore dipendo da
Remo Bodei, associa la virtù alla
felicità: “Spinoza intende condurre gli uomini verso la felicità e la pienezza
mediante un sereno rifiuto dell’amor
mortis, della malinconia, della vanitas,
della misantropia e del sentimento di caducità, argomentando in favore della
“meditazione della vita”, anche perché è la felicità che produce la virtù, e
non viceversa (…) gli uomini sono
malvagi perché infelici, perché in preda alla tristitia che ne diminuisce la gioia o il potere di esistere e che
li precipita spesso sempre più in basso, avvitandoli in una spirale di
distruzione e autodistruzione” [20].
Concludo citando le ultime parole del libro di
Francesca Nodari: “Dolores, per te l’”ex figlia” si congeda. E lo fa
sottoscrivendo le mirabili parole di Rilke: “Vedi, io vivo. Di che? Né
infanzia, né futuro decrescono…Un più di esistenza mi sgorga nel cuore”.
Da quest’istante una svolta s’è compiuta. Una nuova
vita ha inizio,
Per aspera ad astra. E così sia.
Dolores”
Giovanni Ghiselli
[1] Cfr. Iliade,
III, 39 dove Ettore chiama il fratello Paride “Duvspari”
rinfacciandogli la natura di donnaiolo poco valente in battaglia.
[2] H. Hesse, in Siddharta
esprime con altre parole l'antica
legge eschilea del tw/' pavqei mavqo":"Profondamente sentì in cuore l'amore per
il figlio fuggito, come una ferita, e sentì insieme che la ferita non gli era
stata data per rovistarci dentro e dilaniarla, ma perché fiorisse in tanta
luce".
[4]Ulisse , p
38 e p. 284.
[5] Tacito ha appena raccontato l’avvelenamento di
Britannico da parte di Nerone. Siamo nel 55 d. C. e Ottavia ha solo quindici
anni.
[6] I suoi genitori, Claudio e Messalina erano morti
quando Nerone la terrorizzava.
[9] Quare aliqua incommoda bonis viris accidant, cum
providentia sit . E' il sottotitolo, probabilmente autentico, del De
providentia: perché agli uomini buoni capitano delle disgrazie dal momento
che c'è la provvidenza.
[10] A. Traina (a cura di) La provvidenza, p. 8.
[11] La Bibbia di Gerusalemme, Giobbe , 5.
[12] J. Roth, Giobbe, p. 19.
[13]R. Musil, L'uomo senza qualità , p. 846.
[14] Cfr. Pindaro: “gevnoio oi|o~
ejssiv” (Pitica II v. 72), diventa quello che sei.
[15] Ovviamente nell’Antigone
di Sofocle.
[16] Cfr. Ugo Foscolo, Dei Sepolcri, 29-30.
[17] A. Manzoni, I promessi sposi, cap. VIII.
[18] F. Dostoevskij, L’idiota,
p. 700-
[20] Remo Bodei, Geometria
delle passioni, p. 100.
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