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mercoledì 8 maggio 2013

Storia di Dolores. Lettera al padre che non ho mai avuto di Francesca Nodari

Storia di Dolores. Lettera al padre che non ho mai avuto di Francesca Nodari.

Ho letto con interesse un bel libro appena uscito : Storia di Dolores
Lettera al padre che non ho mai avuto di Francesca Nodari (edizione Pagine, Roma 2013).

L’autrice è una giovane studiosa che ha conseguito il Dottorato di ricerca in Filosofia presso l’Università degli Studi di Trieste, ha pubblicato diversi altri libri tra i quali ho già recensito Il pensiero incarnato in Emmanuel Levinas, ed è Direttore scientifico del Festival Filosofi lungo l’Oglio al quale ho partecipato l’anno scorso con una conferenza sul tema della Dignità.
Ebbene questo suo ultimo libro insegna la dignità nel dolore.
Il volume è dedicato “A tutte le donne vittime della violenza”.

Le epigrafi premesse al testo sono citazioni da Eschilo (Coefore, 1029-1030) , Teognide (Silloge, 1029-1030) e Agostino (Confessioni, X, 28), autori i quali ci avvertono che il dolore è il prezzo da pagare per questa nostra vita di uomini.
Eschilo anzi  considera la sofferenza addirittura un’occasione per accrescere la conoscenza e la comprensione: “tw`/ pavqei mavqo~, canta il coro di vecchi Argivi nella Parodo dell’Agamennone (v. 177).
Il personaggio che scrive questa lettera al padre ha un nome sinistramente ominoso, Dolores, un nomen omen che prefigura un destino di dolore,  ma le ferite ricevute da un padre che non vuole essere padre, un anti padre, un dys-padre [1], sono pure destinate, data l’ntelligenza, la sensibilità, la cultura e la moralità della figlia, a “fiorire in tanta luce” [2].
Scrivere questa lettera, per Dolores è una necessità, una medicina che la aiuta a liberarsi dal male che le è stato inflitto da un genitore maschio energumeno. Le letture, poi la scrittura, la aiutano a cercare di capirne le ragioni che del resto non sembrano esserci: il male appare gratuito e brutale. La donna, la ragazza che scrive, ha una trentina d’anni che vengono ripercorsi a partire dall’età infantile.
Colpisce la totale anomalia di questo rapporto di un uomo con l’unica figlia, una femmina, la cui persecuzione da parte del padre suo crea stupore siccome molto più spesso l’eventuale conflitto, di tipo edipico, avviene tra il padre e il figlio maschio, come nella Lettera al padre di Kafka, o tra la figlia e la madre, come nell’Elettra di Sofocle o nel rifacimento di O’ Neill, Il lutto si addice a Eletttra.
E’ pure  vero che Oreste uccise la madre e che il mandante dell’assassinio di Agrippina, Nerone recitava volentieri la parte del figlio di Agamennone poiché quel matricidio presente in tante tragedie  aveva una dignità mitologica, e per giunta era stato giustificato da Apollo e da Atena nelle Eumenidi di Eschilo.
A questo proposito, Apollo nel difendere Oreste, sostiene che ammazzare la madre non è un delitto orribile con  una affermazione di patriarcato e di antifemminismo estremo:"La cosiddetta madre non è la generatrice del figlio (tevknou tokeuv~ ), ma la nutrice (trofov~) del feto appena seminato: genera (tivktei) il maschio che la monta; colei  come un ospite con un ospite salva il germe (e[rno~), per quelli ai quali gli dèi non l’abbia distrutto" [3].

Ebbene, nel caso di Dolores, la mamma è l’unica genitrice, anzi è la bisgenitrice,  colei che più di una volta dà la vita alla figlia, mentre il padre rinnega del tutto la propria funzione creatrice, ripudia se stesso come padre: è un ex padre il quale osa chiamare la ragazza che ha messo al mondo con “un maledetto neologismo da lui coniato ‘ex figlia’ ” (p. 33).
Il bruto che usurpa il nome di padre un giorno arriva a un passo dall’uccisione della ragazza con le proprie mani.
E’ la madre che la salva: “Le tue cinque dita sulla mia gola, il mio inutile tentativo di liberarmi da quella stretta che sapeva di morte…Il respiro che mancava. Lo stordimento. Se oggi posso raccontare questo orribile momento è grazie all’intervento della mamma…Mamma-alla cui “misericordia delle viscere”, per ricordare un’espressione usata da Levinas, che si rifà al termine  biblico “Rachamìn”, “che si traduce misericordia, ma che contiene un riferimento alla parola “Rechèm”-utero”, mi ritrovai di nuovo debitrice-fu colei che, in quella circostanza, in certo senso, mi diede la vita per la seconda volta” (p. 23).
 Si può dunque ribaltare l’Apollo delle Eumenidi di Eschilo con l’Ulisse di Joyce: “Amor matris , genitivo soggettivo e oggettivo, questa è forse l'unica cosa vera nella vita. La paternità forse è una finzione legale. Chi è il padre di un qualsiasi figlio perché qualsiasi figlio debba amarlo o viceversa (...) Il figlio nascituro guasta la bellezza: nato, porta dolore, separa l'affetto, accresce le preoccupazioni. E' un maschio: la sua crescita è il declinare del padre, la sua giovinezza l'invidia del padre, il suo amico il nemico del padre (...) Che cosa mai li congiunge in natura? Un istante di cieca foia" [4].
Il padre di Dolores è sempre in preda alla rabbia, è un uomo incapace di qualunque affetto positivo, di qualsiasi dialogo: “L’unico linguaggio decifrabile era e sarebbe stato quello della forza e della violenza. Una tracotanza che nasconde, forse, la fragilità o l’incapacità di esprimersi in altro modo” (p. 18).
Alla figlia bambina e ragazzina viene negata ogni possibilità di chiarimento, di spiegazione, di comunicazione con il padre che la rifiuta.
Viene in mente la giovinetta Ottavia alla corte di Nerone: "Octavia quoque, quamvis rudibus annis, dolorem caritatem omnes adfectus abscondere didicerat" ( Annales, XIII, 16), anche Ottavia, sebbene non scaltrita dall'età [5], aveva imparato a nascondere la pena, l'amore e tutti i sentimenti.
Ma Ottavia non aveva padre né madre che la difendessero [6].
Dolores invece ha una madre buona, cara, preziosa.
Del resto la scrivente non può colmare la lacuna della figura paterna: “Ho sempre sognato ciò di cui sono stata privata: una figura protettiva, autorevole, certo, ma non autoritaria” (18). Tale figura viene rimpiazzata, a mano che la ragazza cresce, dai suoi Maestri: Natoli, Levinas e altri.
Il padre dunque è bestialmente manesco in molte circostanze: maltratta e picchia i dipendenti, ma nessuno lo denuncia: “sembrava che tutto ti fosse concesso, in nome di quell’omertà che rende muti, o, forse, di quell’ingenuo pudore che porta alla rinuncia della parresìa, al desistere da ogni azione che si configuri come resistenza al male e al ricatto che lo sottende” (p. 20).
Parrhsiva è parola greca che significa “tutto è dicibile” [7]
 E’ un termine chiave della democrazia. Nello Ione [8] di Euripide,  il protagonista esprime il desiderio di ereditare da una madre ateniese questo privilegio, recandosi ad Atene, poiché lo straniero che piomba in quella città, anche se a parole diventa cittadino, ha schiava la bocca senza la libertà di parola ("tov ge stovma-dou'lon pevpatai koujk e[cei parrhsivan", vv. 674-675).
Dolores dunque considera “l’errore più grande della sua vita” non avere denunciato il padre. Quante donne, si domanda, non hanno il coraggio di denunciare i loro aguzzini?
Diverse sono le cause che bloccano la parresia. Esterne e interne. Tra le altre, il dolore. A questo  proposito, Dolores cita uno dei suoi padri spirituali: “Ha ragione Salvatore Natoli quando sostiene che il dolore rende muti e riduce le parole a un balbettio…Chi è preda del dolore non sente il mondo, ma quella piaga che si rimargina: è nel mondo, ma vive a se stante e non aspetta altro che la parola che salva” (p. 25).
Ma il dolore può essere un maestro, un educatore  che insegna il difficile mestiere di vivere.
  Seneca nel De providentia  trova un significato positivo non solo nel lavoro ma pure nelle disgrazie (incommoda),  nei dolori e nelle perdite quali prove per esercitare e temprare la virtus :"Marcet sine adversario virtus" (2, 4), senza un avversario la virtù marcisce.
E' la medesima impostazione del Giobbe biblico:"Se nella cultura occidentale inglobiamo, per l'innesto operato dal cristianesimo, la cultura ebraica, allora la più antica occorrenza di questo "perché" [9] potrebbe essere il Libro di Giobbe[10].
Ne riporto una massima:"Felice l'uomo che è corretto da Dio" [11].
 Ricordo anche un Giobbe moderno (1930) di Joseph Roth:  un pio ebreo orientale, Mendel Singer:"la sua vita era una perpetua fatica". Aveva un figlio piccolo, Menuchim, che cresceva male, era malato, ma il Rabbi disse alla madre Deborah:"il dolore lo farà saggio, la deformità buono, l'amarezza mite e la malattia forte. I suoi occhi saranno grandi e profondi, le sue orecchie limpide e piene di risonanze" [12].
Ma ora torniamo a Dolores di Francesca Nodari. Anche lei dal dolore impara: “Solo oggi mi rendo conto, fino in fondo, di quante energie richiedesse quello stato d’emergenza, quale condizione eccezionale, alla quale, comunque, devi cercare di far fronte. E’ la týche greca, il caso. Natoli ha di nuovo ragione: per far fronte al destino occorre divenire abili al mondo, diventare signori di sé. In una parola pensare la felicità possibile, non in termini di eutychía (buona sorte) ma di eudaimonía (demone favorevole). Quel daimon che troviamo dentro di noi per “stare al mondo” da soggetti responsabili, e non come semplici marionette eterodirette” (p.29). 
E allora dobbiamo ricordarci della “Provvidenza che rischiara le giornate buie”.
C’è un altro grande personaggio femminile, oltre lei stessa e la mamma, nel romanzo di Dolores, ed è la nonna, l’amabile madre dell’odioso padre che arriva a dire alla figlia: “Buttati sotto il primo treno che trovi. Perché dovresti vivere?” (p. 33).
La ragazza, con l’esempio del coraggio materno, con l’aiuto dell’affetto della nonna, con l’ausilio dei bravi maestri incontrati via via, ha saputo trovare quella identità di persona che il padre cercava di negarle, una persona ricca di umanità, dignità e moralità. Senza questo patrimonio non può esserci felicità
"  Sostengo che non vi è profonda felicità senza morale profonda" [13].
Dolores, con la sua intelligenza morale, è stata capace di trasformare l’orrore subito in un motivo di crescita: “Perché, forse, senza quella sofferenza non sarei diventata la persona che sono oggi” (p. 35).
Non so quanto sia autobiografico un libro, ma so, da Flaubert e da altri, che ogni libro lo è sempre, e in non piccola parte, e so che Francesca Nodari è una bella persona.
Le persone che siamo, quando, e se, diventiamo quello che siamo [14]
raccolgono la storia di migliaia di generazioni che ci hanno preceduti.
Si possono avere antenati spirituali al di fuori della parentela,  nella letteratura per esempio, come sostiene Dorian Gray nel romanzo di Oscar Wilde. Ebbene Dolores non sente il non padre come suo genitore, ma i suoi padri spirituali sono i Maestri più volte citati.
 C’è comunque la nonna cha la collega alla famiglia paterna, poiché dal  passato della nostra stirpe, delle nostre stirpi, non possiamo prescindere. Voglio riferire una  citazione illuminante che Dolores-Francesca prende da La memoria di Dio di Paolo De Benedetti: “In ebraico il concetto di storia si pensa e si esprime come  una sequenza di generazioni che ricevono ciascuna dalla precedente e trasmettono ciascuna alla seguente. In questa storia ebraica, in questa storia biblica, la stella polare è il ricordo (zachor). Io sono recettore di ricordi e un produttore di ricordi: ecco perché ha senso parlare di storia in termini di toledot (generazione) di contro al concetto greco-latino di historia, che viene da indagare. La storia, nel concetto biblico, è un trasmettere, è un trasmettersi (…) Questo non è un bisogno di nobiltà, è un bisogno di trasmissione, è un bisogno di salvare la vita di chi non c’è più” (p. 45). 
La nonna è malata e muore senza che l’ex padre permetta a Dolores di assistere a quella morte dolorosissima per lei. Il dys-padre si è trovato un’altra donna, pare degna di lui, che contribuisce a tenere lontana la ragazza da quella che era stata la casa sua.
Con la dipartita della nonna esplode di nuovo quella fase acuta del dolore che non è possibile anestetizzare, né riscattare con la cultura, con l’arte, con la bellezza trasformando il tragico in sublime. Il non padre cerca di escludere Dolores persino dal funerale della propria madre, della nonna che invece aveva sempre cercato l’affetto della nipote: “L’ex figlia-ti prodigasti di farmi sapere attraverso un tuo mandatario-non può partecipare al funerale, né far visita al feretro” (p. 54). Ma Dolores non accetta il divieto disumano e si reca a fare quella visita dettata dalla pietas e dall’amore: “Vidi la bara lunga e stretta. E dentro un corpicino divorato dal male. Una donna di poco più di trenta chili che non mi pareva avesse le sembianze di nonna…Scoppiai a piangere…In piedi, di fronte a me, c’eri tu, padre…Ex figlia-urlasti-la butto fuori” (p. 54).
 Dolores non si spaventa. “Avvertii una forza che mi veniva, credo, da nonna e da Dio”. Dei nostri consanguinei, di quelli che ci hanno voluto bene, possiamo pensare che sono vissuti per noi, per favorire le nostre vite.
Poi c’è il giorno delle esequie “Uno dei giorni peggiori della mia vita” (57)
 E’ il giorno in cui Dolores si identifica con il proprio nome e con il proprio destino: “Ora capisco, fino in fondo, il destino contenuto nel mio nome, Dolores” (p. 59).
Il non padre preclude alla nipote di sua madre l’ingresso nella cappella dov’è sepolta la nonna. E’ il decreto disumano di Creonte [15] che vuole negare la pietà, la celeste corrispondenza di amorosi sensi [16] tra i vivi e i morti dello stesso sangue.
Ma il divieto non può impedire la preghiera che “come insegna il filosofo della religione Bernhard Camper in Evento e preghiera- si mostra come l’accadimento che, volendo utilizzare il linguaggio kantiano, potremmo chiamare l’accadimento estremo della “ragione pura pratica” (p. 60).  
Siamo arrivati all’epilogo
“Mi sono resa conto che l’unico modo per superare o, almeno, alleviare un dolore non conosce alternative se non quella-l’unica- di attraversarlo. Sofferenza con amore e timore di Dio” (p. 61).
E’ l’ajrti manqavnw  dell’Alcesti di Euripide (v. 940) ed è l’ora comprendo di Giobbe: “Ecco, temere Dio questo è sapienza e schivare il male, questo è intelligenza” (Gb 28, 28)…Ora mi sento più leggera” (p.61)
Dolores nelle ultime pagine ringrazia la mamma sua e i Maestri “padri nobili che mi hanno sostenuto nel percorso, che mi hanno incoraggiato, che mi hanno saputo ascoltare e spronare a sperare. Di più a non demordere, ad andare avanti, a crescere” (p. 62). Segue una citazionr di Levinas che mostra la luce del Bene in fondo al tunnel del male: “la teofania” (p. 62).
Quindi un ricordo del Cardinale Carlo Maria Martini, morto nei giorni in cui Dolores concludeva la sua lettera, un altro Maestro e padre di cui viene citato il libro La forza della debolezza con l’invito “a resistere alle tribolazioni (…) L’uomo nel dolore coglie il senso più autentico della vita e, se non smette di credere, percepisce la compagnia di Dio, sorgente di energia rinnovata e di forza per rialzarsi dopo qualsiasi caduta” (p. 63) .
Dolores ha capito tutto. Ha compreso che la vita è comunque un dono di Dio, è piena di Dio.
Ogni persona religiosa riconosce la bellezza della vita e ne sente la gioia poiché “Chi dava a voi tanta gioia è per tutto; e non turba mai la gioia de’ suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande” [17].

  Una comprensione di fondo che anche Dostoevkij, un altro scrittore che ha attraversato grandi sofferenze, raccomanda ai suoi lettori.
Il principe Myškin ritiene connaturata all’uomo e naturale la felicità: “Io non so come sia possibile passare accanto a un albero e non sentirsi felici di vederlo. Parlare con una persona e non essere felici di volerle bene! Oh, io non so esprimere bene i miei sentimenti…ma quante cose belle vediamo ad ogni pie’ sospinto, belle al punto che l’uomo più abbietto non può che vederle sempre belle? Guardate un bambino, guardate l’alba divina, guardate come cresce un fuscello, guardate negli occhi che vi guardano a loro volta e vi vogliono bene…” [18].
Voglio convalidare questo precetto santo con altri tre  maestri.
Strabone [19]  ha scritto una Geografia  della quale riporto questa  sentenza educativa e religiosa: “ gli uomini imitano benissimo gli dèi quando fanno del bene, ma, si potrebbe dire anche meglio, quando sono felici (" a[meinon d j a[n levgoi ti", o{tan eujdaimonw'si", X, 3, 9).
Spinoza, e per l’impiego di questo autore dipendo da Remo Bodei,  associa la virtù alla felicità: “Spinoza intende condurre gli uomini verso la felicità e la pienezza mediante un sereno rifiuto dell’amor mortis, della malinconia, della vanitas, della misantropia e del sentimento di caducità, argomentando in favore della “meditazione della vita”, anche perché è la felicità che produce la virtù, e non viceversa (…)  gli uomini sono malvagi perché infelici, perché in preda alla tristitia che ne diminuisce la gioia o il potere di esistere e che li precipita spesso sempre più in basso, avvitandoli in una spirale di distruzione e autodistruzione” [20].

Concludo citando le ultime parole del libro di Francesca Nodari: “Dolores, per te l’”ex figlia” si congeda. E lo fa sottoscrivendo le mirabili parole di Rilke: “Vedi, io vivo. Di che? Né infanzia, né futuro decrescono…Un più di esistenza mi sgorga nel cuore”.
Da quest’istante una svolta s’è compiuta. Una nuova vita ha inizio,
Per aspera ad astra. E così sia.

Dolores”

Giovanni Ghiselli



[1] Cfr. Iliade, III, 39 dove Ettore chiama il fratello Paride “Duvspari” rinfacciandogli la natura di donnaiolo poco valente in battaglia.
[2] H. Hesse, in Siddharta  esprime con altre parole l'antica legge eschilea del tw/' pavqei mavqo":"Profondamente sentì in cuore l'amore per il figlio fuggito, come una ferita, e sentì insieme che la ferita non gli era stata data per rovistarci dentro e dilaniarla, ma perché fiorisse in tanta luce".   
[3] Eschilo, Eumenidi,  vv. 658-661.
[4]Ulisse , p 38  e p. 284.
[5] Tacito ha appena raccontato l’avvelenamento di Britannico da parte di Nerone. Siamo nel 55 d. C. e Ottavia ha solo quindici anni. 
[6] I suoi genitori, Claudio e Messalina erano morti quando Nerone  la terrorizzava.
[7] E’ formata da pa`~ e rJhtov~.
[8] Del 411 a. C.
[9] Quare aliqua incommoda bonis viris accidant, cum providentia sit . E' il sottotitolo, probabilmente autentico, del De providentia: perché agli uomini buoni capitano delle disgrazie dal momento che c'è la provvidenza.
[10] A. Traina (a cura di) La provvidenza, p. 8.
[11] La Bibbia di Gerusalemme, Giobbe , 5.
[12] J. Roth, Giobbe, p. 19.
[13]R. Musil, L'uomo senza qualità , p. 846.
[14] Cfr. Pindaro: “gevnoio oi|o~   ejssiv” (Pitica II  v. 72), diventa quello che sei.
[15] Ovviamente nell’Antigone di Sofocle.
[16] Cfr. Ugo Foscolo, Dei Sepolcri, 29-30.
[17] A. Manzoni, I promessi sposi, cap. VIII.
[18] F. Dostoevskij, L’idiota, p. 700-
[19] 63 a. C.-23 d. C
[20] Remo Bodei, Geometria delle passioni, p. 100.

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