Kiev |
Debrecen 1966
La ragazza di Kiev.
Mezzanotte a Mosca. La
Britanna. Il primo bacio. La paralisi della Fiat Seicento. La
solidarietà della coppia.
Certamente mi ci vollero anni per trovare uno stile mio, ma
avevo già cominciato a orientarmi. La sera di quel primo giorno intero di
Debrecen entrai nella mensa e sedetti a tavola con i compagni di camera: così
mi inserii tra loro a tutti gli effetti e un poco alla volta mi liberai dalla
paura dell’emarginato. Mi sentivo già un poco meno preso di mira dai dardi
ostili[1] della
sorte. Nel petto non concepivo più solo
tristezze incombenti e sfaceli remoti.
Con Helena Sarjantola
poi, nel
’71, Eros e il destino si convertiranno e mi daranno carezze benefiche. Con Helena diventai quello che sono, quello che prima
della Sarjantola ancora non ero
Già nel ’ 68, con
quell’altra Helena, la ragazzina della
primavera di Praga, la Sorte
ridente mi aveva dischiuso l’uscio alla gioia.
Alle due Elene, quindi a Päivi, a Ifigenia, e
a ciascuna delle altre donne benefiche, da mia madre in poi, devo dire: “ Carminibus vives tempus in omne meis”[2],
vivrai in eterno nella mia poesia.
Oujk
e[st j ejrasth;ς o{stiς oujk ajei; fileĩ[3], non
è amante quello che non ama sempre, e io voglio essere l’eterno amante di tutte voi, donne mie.
Il quadro dell’estate propedeutica del ’66, introduttivo
alle successive mensilità debrecine, è quasi completo. Stabiliti i contatti
umani fondamentali, prendemmo queste abitudini: la mattina andavamo alle
lezioni di lingua ungherese tenute in inglese, sicché si studiavano due lingue
alla volta, dopo prendevamo il sole sul prato, o facevamo una passeggiata nel
bosco, quindi si andava a mangiare. Il pomeriggio un po’ studiavamo, un po’ si
andava in piscina a nuotare e a puntare ragazze. Volevo diventare puellis idoneus[4] anche a costo di
essere scartato decine di volte prima di venire arruolato nella schiera dei non
riformati dalla dea dell’amore, il legione eletta dei non falliti sessuali. Il
più tragico dei fallimenti.
I dinieghi, le ricuse
mi avrebbero insegnato cosa dovevo fare per correggermi, minimizzare le
deformità, valorizzare le qualità. Del resto non era difficile immaginarlo:
cura del corpo e coltivazione dell’anima ci volevano. Poi l’usus, la pratica via via meno rozza e
fallimentare. I successi col tempo, speravo, non sarebbero mancati e mi
avrebbero indicato la via, quella del destino mio.
Durante quel mese
remoto conobbi una brunetta gentile di Kiev, cui arrivai ad accarezzare le mani
cantando con lei Mezzanotte a Mosca.
Niente di più, ma allora non era poco. Mi incoraggiò, mi incoraggiai.
Quando la ragazza scitica partì, mi dissi: “la vita
continua”.
Altro coraggio me lo diede una biondina francese che mi fece
un sorriso mentre in corriera cantavamo “Chevaliers
de la table ronde-dites moi si ce vin est bon”. La fanciulla della Gallia
mi infuse altro coraggio. A volte, pedalando la mia bicicletta da solo, canto
quella canzone antica e, ripensando a quel sorriso spontaneo e gratuito, piango,
piango
di gioia. Anche tu
francesina, creatura benedetta da Dio e da me, vivrai nei miei carmi.
In Italia all’epoca
nessuno mi trattava bene, tanto ero diventato disgustoso e spregevole, prima,
al liceo, con l’arroganza, poi con l’autoumiliazione.
A una creatura
degradata e disperata, e non ancora del tutto incattivita, un segno di gentilezza, di simpatia, di umana
solidarietà, può dare molto, può addirittura salvargli la vita.
Dopo questo sorriso
della Sorte, avvicinai una britanna,
Elizabeth, a dire il vero un po’ cavallina, cioè con i denti alquanto in fuori,
ma non orribile come avevo letto non senza curiosità e stupore in Catullo[5].
In ogni caso questa britanna ventenne fu importante per il mio apprendistato, poiché
fu la prima femmina umana che baciai di mia iniziativa: ricordo che quando
uscimmo dal cinema dove lei aveva appoggiato la testa sulla mia spalla destra
riempiendomi di commozione, lanciai nervosamente la scassata Fiat Seicento
verso il margine del grande bosco; come mi trovai davanti un albero, frenai di
colpo, spensi il motore, e senza dire verbo né lanciarle un’occhiata,
audacemente la baciai sulla bocca. Il commovente abbraccio di due ventenni
destinati, però, alla putrefazione. Ma anche tu fanciulla tutt’altro che
perfida venuta a salvarmi da Albione, vivrai eterna in questa pagina mia.
Elizabeth rimase stupita e perplessa ma non mi respinse né, dopo, mi redarguì.
L’atto di immenso coraggio e la totale assenza di riprovazione, mi diede fiducia in me stesso, dato il contesto che
conosci lettore, una confusa letizia e altre emozioni vaghe, comunque preziose
per la mia crescita. Quella notte di luglio dell’anno di mia salvazione 1966,
pensai: tra cinquant’anni[6],
anche se i capelli saranno perduti o incanutiti del tutto[7],
questo bacio lo porterò sulle labbra e nel cuore che ne saranno santamente
stigmatizzati per sempre”. Da quella
sera considerai Elizabeth la mia compagna e la portavo con me a vedere i
dintorni di Debrecen. Sentivo che quella terra era fatata e fatale per me.
Dovevo conoscerla, non senza fare dei riti. Tutte le sere all’ora del tramonto,
per esempio, mi appartavo e orinavo osservando il sole, la fiamma che nutre la
vita, e lo pregavo di nutrire la mia. Una sera, dopo il tramonto del primo di
tutti gli dèi, io e la
Britanna ci trovammo arenati in uno sperduto villaggio
prossimo al confine dell’Unione Sovietica. La vecchia automobile era rimasta
senza acqua e senza olio. Provammo a chiedere aiuto nelle nostre lingue ma in
quella zona rurale nessuno capiva l’inglese né l’italiano. Noi due non
riuscivamo a comprende l’ungherese parlato in fretta da un gruppo di persone
campagnole adunatosi per curiosità intorno alla Seicento rimasta ferma come una
carrozza senza cavalli.
A un tratto, ebbi un’idea bizzarra e domandai:” loquimini latine?”
Può sembrare una battuta da commedia buffa fatta per
impressionare Elizabeth. Invece si fece avanti uno che rispose: “ita, loquor”. Doveva essere un prete, un
curato di campagna spretato dal regime. Quindi il dominus pannonius mi domandò, sempre in latino, di che cosa avessi
bisogno. Arrangiandomi per trovare termini
comprensibili e non troppo inadeguati alla situazione, né latinamente
del tutto impropri, gli spiegai il nostro problema, cosa che non mi era
riuscita né con l’italiano, né con l’inglese che pure si avviava già a
diventare la lingua franca del mondo, né con il poco ungherese imparato nelle
prime settimane di lezione. Così provai l’utilità pratica del mio latino e
sentii la solidarietà della coppia: Elizabeth non si era lagnata, della situazione, né disinteressata, ma si
era adoperata con tutti i suoi mezzi, cioè interpellando persone e collaborando
a trasportare un bidone sesquipedale, poiché non avevamo nemmeno una tanica.
Britanna gentile e solidale. Me ne sarei ricordato trentotto
anni più tardi quando, in una notte illune di gennaio, una tipa mi aggredì
inveendo contro di me siccome la portavo a cena, con la mia Beetle nuova e
sicura, su una strada piena di curve e male illuminata.
E sì che avevamo fatto l’amore più e più volte quel
pomeriggio. Contorto e privo di luce era il cervello di quella.
giovanni ghiselli
Il blog è arrivato a 170303 contatti umani.
[1] Cfr. Ovidio, Epistulae
ex Ponto, II, 7, 15-16: “ Sic ego
Fortunae telis confixus iniquis/pectore concilio nil nisi triste meo”, così
io trafitto dai dardi ostili della Sorte, non concepisco nel mio cuore nulla
che non sia triste.
[2] Ovidio, Tristia,
I, 6, 36.
[3] Euripide, Troiane,
1051. Sono parole di Elena a Menelao.
[4] Cfr. Orazio, Carmina,
III, 26, 1
[5] Horribilesqua
ultimosque Britannos, 11, 11-12.
[6] Ora ne mancano meno di due a questo anniversario:.
Come si chiama: nozze d’oro o di diamante o di che altro?
[7] Avertat Deus
omen, pensai. Dio mi ascoltò, Dio mi esaudì.
Molto piacevole
RispondiEliminaAlessandro
la finezza e la vera anima delle persone emerge nelle contrarietà , questo brano ne è un esempio. Non avrei potuto trovare parole più vere e belle per esprimere l'universalità di questo concetto. Hai inquadrato una spigolatura dellìanimo umano in modo magistrale. Mi piace Giovanna Tocco
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