La mattina seguente, giovedì
15 marzo, quando entrai nel liceo la vidi seduta anche un poco scomposta sopra
una cattedra situata a metà del corridoio del piano terreno. Intravvidi il
baluginare paradisiaco delle cosce tornite. “Blén prò”, pensai in pesarese,
bellina però.
Aveva seduta al suo fianco
con aria di complicità l’altra supplente giovane e carina, Paola. Parlavano fitto.
Ebbi l’impressione che stessero accordandosi per non fare tregua con il vile
professore che ci provava con tutte le femmine dell’Istituto, maggiorenni, ma
giovani molto comunque.
Appena mi ebbe scorto infatti
Ifigenia volse la testa da un’altra parte mentre l’altra le stringeva una mano.
Forse le aveva anche detto: “queste dita sono tutte tue”. Mi avvicinai alle due
madamigelle assumendo un’aria dolce e pentita per imbonirle. Volevo chiedere
venia a Ifigenia senza corteggiare l’altra ovviamente, ma quando fui giunto
alla loro presenza le due fanciulle congiurate contro il maschio bieco, già
mezzo vecchio e del tutto vizioso e malfido, quasi un rudere libertino, si
accostarono ancora di più l’una all’altra divorandosi con gli occhi e parlando
a turno senza interruzione. Aspettai qualche secondo ma venivo volutamente
ignorato. Quindi provai a dire: “scusate colleghe”, alzando l’indice della mano
destra, come uno scolaro che chiede il permesso di parlare. Ma nessuna delle
due dava segno di essersi accorta di me. Mi allontanai sconsolato e desolato.
Oltretutto era tempo di entrare in classe. Mi trascinavo verso l’aula
malvolentieri: adagio come una tartaruga decrepita e con l’artrite. Non vedevo
luce nel mio futuro.
Feci lezione svogliatamente e
distrattamente nell’attesa dell’intervallo. Quando suonò la campanella attesa,
corsi a cercarla. Avevo ancora in mente le sue cosce benedette da Dio, viste
quasi fino alle mutande bianche, adorabili, profumate. Un visione dove avevo
visto internarsi tutta la bellezza che per l’universo si squaderna.
Non era con l’altra, la complice
delle 8 di mattina e mi azzardai a dire: "Ifigenia, posso parlarti?”
Lei mi guardò appena e
rispose: “Non ho tempo. Ho altro da fare”
“Dopo la scuola puoi trovare
cinque minuti per me?”
“Secondo te? Staremo a vedere”
Mi rincuorai un poco. Mi
venne in mente la prima accoglienza di Helena che nel luglio del 1971 mi
congedò dopo un giro di csárdás,
abbreviato per giunta, eppure ne seguì un grande amore epocale, capace di
cambiarmi in meglio la vita. E’ stato un
episodio paradigmatico infatti.
Quid agi oporteat bonis successibus instruendus
ero, mi dissi ricordando Giuliano Augusto in Ammiano Marcellino.
Uscii in via Nazario
Sauro per trarre altro conforto dal
sole.
Alla fine delle lezioni la
avvicinai di nuovo all’uscita, sempre pensando alle sue mutande meravigliose, a
quando se le levava questa volta, per farmi coraggio con la speranza di
rivedere quel gesto sacro, preludio e prodromo della nostra ierogamia.
Passava nei pressi il collega
di religione, un prete simpatico. “Mi benedici pur nella mia lussuria don
Costiero?” gli domandai. Il santo sacerdote non ebbe dubbi: “Come no? Tu sei
sempre nelle mie preghiere!”
“Grazie, domine, che Iddio ti
benedica!”
Buon segno, pensai e mi
tornarono in mente le mutande.
A Ifigenia avevo insegnato
quanto avevo imparato da Helena: metterle sotto il cuscino per ritrovarle subito
dopo avere fatto l’amore.
Finalmente accettò di
ascoltarmi. Ero andato a Canossa con l’aria del pentimento. Non avevo fatto
alcun torto a quella incarnazione di Afrodite, ma l’avrei fatto a me stesso se
l’avessi perduta.
Le dissi: “tesoro, non
deturpiamo con mutua demenza la preziosa icona dell’ amore che Dio ci ha donato”.
Non escludevo che mi desse un’altra volta del
fellone. Allora per anticiparla e spiazzarla, la buttai sul tragicomico: “ti
presento nuda la gola dove puoi ficcare lo spillone che usi come fermaglio:
arresta la mia vita, se vuoi. Questa, senza di te non è vita. So est tamen…" Mi interruppi vedendo che
mi guardava divertita, con simpatia. Le presi una mano, lei me la strinse e io
l’abbracciai. Non accennò a respingermi. Sicché le dissi: “ Non perdiamoci per
delle sciocchezze. Tu sei la mia donna, l’unica che possa amare con la mente,
con il cuore e tutto il resto, e io sono tuo, tutto e soltanto tuo”.
Mi venne in mente il recupero
di Helena dopo la crisi di Josiane.
Le stesse cose ritornano: era
andata così con Helena Augusta, nell’agosto del 1971: anche Ifigenia quasi otto
anni più tardi capì e sentì che l’amavo, che avevo bisogno di lei quanto lei di
me.
Disse; “Oh gianni, ho avuto
tanta paura!”
Ci baciammo con passione
vera.
Eravamo ancora piuttosto
vicini alla scuola, in un vicolo dove passava qualche studente mio e suo.
Sorridevano contenti, senza dire niente: avevano visto due esseri umani,
giovani, belli e contenti quasi come loro.
Bologna 22 aprile 2025 ore
18, 56 giovanni ghiselli
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Già docente di latino e greco nei Licei Rambaldi di Imola, Minghetti e Galvani di Bologna, docente a contratto nelle università di Bologna, Bolzano-Bressanone e Urbino. Collaboratore di vari quotidiani tra cui "la Repubblica" e "il Fatto quotidiano", autore di traduzioni e commenti di classici (Edipo re, Antigone di Sofocle; Medea, Baccanti di Euripide; Omero, Storiografi greci, Satyricon) per diversi editori (Loffredo, Cappelli, Canova)
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