Dopo le accoglienze oneste e liete, le dissi subito che amavo una collega giovane e bella assai. Una che irrobustiva la mia persona: l’intelligenza, la fantasia e pure il corpo.
Insomma Apollo, il dio della luce e della bellezza, che ero andato a pregare nell’Ellade perché mi facesse partecipe delle sue doti, mi aveva esaudito.
Durante quel viaggio ciclistico estivo avevo mandato diverse cartoline provocatorie all’amica cristiana professando la mia devozione agli dei della Grecia a partire da Febo, quello a me più congeniale.
Anche quando insegnavo a Carmignano volevo distinguermi dal credo religioso e politico di tanti colleghi di quella scuola diretta da un preside bigotto e refrattario agli spiriti nuovi dei quali mi ero entusiasmato durante l’ultimo anno passato a Bologna dando l’esame residuo di glottologia e frequentando le assemblee del movimento studentesco, partecipando ai cortei e facendo miei tanti slogan.
Furono mesi, quelli della primavera del ’68, in cui la gioventù delle Università di buona parte del modo ebbe fiducia in se stessa e nel proprio avvenire. Molti di quei giovani hanno abiurato. Io non sono un apostata e credo ancora in ciò che propugnavo allora: giustizia, uguaglianza, libertà e pace. Comunismo aristocratico lo chiamo. Sul tipo di quello platonico.
Quando arrivai a Carmignano la prima volta era la sera del 28 ottobre 1969 e il monte Grappa era già bianco di neve come il Soratte dell’ Ode di Orazio.
Pensai che nemmeno la bicicletta dovevo tradire e promisi che in giugno avrei pedalato su per i 30 chilometri abbondanti di quella salita.
Lo feci con vigorosa gioia.
Ma torniamo al dicembre del 1978,
Ricordavo che Antonia aveva sempre cercato di redimermi dal mio libertinaggio dicendomi: “si ravveda, si penta, metta la testa a posto: si trovi una buona compagna e la sposi. Si penta e cambi vita: è l’ultimo momento”.
“No, no, ch’io non mi pento”, rispondevo a tono citando a mia volta le parole di Da Ponte per la musica di Mozart dove sento la presenza di Dio.
Questo era un nostro duetto non del tutto faceto né serio.
Quel pomeriggio del 23 dicembre però l’amica Antonia non voleva scherzare: era preoccupata del fatto che io fossi tanto innamorato di una donna sposata. Mi piaceva sentirle parlare il suo bel dialetto veneto, tra il padovano e il vicentino.
La pregai di farlo. Sicché cominciò: “mi conosso un vecioto” e si interruppe. Allora domandai: “sicché?”
“El fa come éo” rispose, fa come lei
“Che cosa vuole dire Antonia?” insistetti fingendo di non capire,
Mi spiegò che questo uomo mezzo vecchio ci provava con tutte finché i mariti delle corteggiate, alcune forse già adultere, si coalizzarono, lo bastonarono e lo gettarono in un fosso. Non ne morì ma ci mancò poco.
Antonia dunque temeva che potessi fare la fine del seduttore professionista ucciso da Eufileto, il marito tradito e assassino difeso da Lisia per il delitto d’onore.
Le feci presente che il marito di Ifigenia nemmeno sapeva chi fossi e che comunque la mia ultima relazione era irreprensibile perché noi ci amavamo e rendevamo migliori a vicenda: Ifigenia mi ribattezzava nelle onde fresche della sua gioventù mentre io la impregnavo dello spirito mio coltivato e cosciente.
L’amica si rassicurò soltanto un anno più tardi quando portai Ifigenia a Carmignano per fargliela conoscere e l’amica giudicò la mia amante “bella con semplicità e intelligente”. Dovevo sposarla.
Nel frattempo aveva lasciato il marito. Intanto però il nostro amore si avviava al tramonto.
Mentre di notte tornavo a Bologna sull’autostrada, tonda era la luna.
La pregai chiamandola Antonia, Selene, Artemide, Diana, Trivia, Helena, Ifigenia: una sola forma di molti nomi, come la magna mater di Prometeo: pollw'n ojnomavtwn morfh; miva[2].
Avevo le lacrime agli occhi perché mi sentivo di nuovo partecipe della vita di questo universo bello, ordinato da un Dio buono, demiurgo e artista.
Chiesi a quella bianca, rotonda, femminea creatura di conservarmi ancora per tanti dei suoi eterni giri celesti l’amore di Ifigenia e la facoltà di muovermi ancora in buona salute sulle strade del meraviglioso capolavoro che è il mondo illuminato ora da lei, ora dal suo splendente fratello.
Ero felice come non ero più stato dopo Helena Augusta diversi anni prima e lo dovevo a Ifigenia.
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