Odissea I, 7 " infatti per la loro stupida presunzione perirono".-
Il v. 7 contiene un'affermazione della responsabilità umana che poco più avanti Zeus chiarirà affermando che gli uomini sbagliano attribuendo agli dèi le cause dei loro mali i quali invece derivano dalle loro colpe (I, 32 e sgg.). Così i proci vengono avvertiti nel secondo libro, durante l'assemblea convocata da Telemaco dietro suggerimento di Atena, di cessare dal loro parassitismo in casa altrui se vogliono evitare la punizione che il figlio del re chiederà contro di loro ai numi eterni:"keivret j : ejgw; de; qeou;" ejpibwvsomai aije;n ejovnta",-ai[ kev poqi Zeu;" dw'/si palivntita e[rga genevsqai.-nhpoinoiv ken e[peita dovmwn e[ntosqen o[loisqe" (II, 143-145), consumate pure, io invocherò gli dèi sempiterni,-se mai Zeus conceda che le vostre opere siano ricompensate adeguatamente.-Invendicati allora potreste perire nella mia casa.
Dunque subisce morte violenta chi se la merita.
Così interpreta Jaeger l'uccisione di Egisto e la strage dei proci:"L'assemblea del popolo di Itaca nel libro II, in cui Telemaco espone il suo caso e fa l'ultimo appello ai Proci per una lotta leale, ha lo scopo definito nella composizione dell'Odissea di affermare che la colpa della tragica fine della storia, cioè dell'uccisione dei Proci, è dei Proci stessi. Il poeta che scrisse il libro II e il discorso di Atena che ordina a Telemaco di convocare l'assemblea (a 252 ss.), volle dare una giustificazione morale e giuridica che soddisfacesse la sua mente moderna e razionale all'antico canto che finiva con la mnesterophonia . Mi pare che egli abbia messo in bocca ad Atena il suggerimento di convocare l'assemblea prima che Telemaco lasci Itaca per il suo viaggio di ricerca, a ragion veduta. Questo conferisce all'azione di Telemaco una sanzione divina e conferisce alla convocazione un solenne carattere di ammonimento che dà ai Proci la piena responsabilità delle conseguenze del loro rifiuto di adottare una condotta più ragionevole. Ancora più rilievo ha il discorso di Atena (I, 252) in quanto ella ha già prima, nel concilio degli dei sull'Olimpo (I, 90), annunziato la sua intenzione di convocare l'assemblea ed accusare i Proci dinanzi al popolo. Questo dimostra che ella agisce col favore di tutti gli dèi e di Zeus stesso, che non solo approva il suo piano, ma anche il metodo di eseguirlo. Quando Atena ammonisce i Proci delle conseguenze delle loro azioni, essa applica il principio che Zeus stesso ha affermato nel suo discorso (I, 32) sulle responsabilità dell'uomo per i suoi stessi dolori. L'esempio di Egisto, a cui Zeus si riferisce, prova che Egisto era stato giustamente punito perché aveva agito male non ostante l'avvertimento divino"[1]. Era andato addirittura ujpe;r movron (I, 32) contro la parte assegnatagli dal destino. Così dobbiamo anche interpretare la stolta scelleratezza dei compagni di Ulisse i quali perirono per loro colpa.- Questa affermazione della responsabilità dell'uomo per quanto gli capita, trova una controtendenza nella tragedia, e nella storiografia erodotea, che non poche affermano il prevalere della Necessità
Più avanti però il libero arbitrio ritorna riprende la sua strada nella filosofia di Platone il quale alla fine della Repubblica (617 e) fa dire a Lachesi, la vergine figlia di Ananche:"oujc uJma'" daivmwn lhvxetai, ajll juJmei'" daivmona aiJrhvsesqe", non sarà il demone a sorteggiare voi, bensì voi a scegliere il demone.
Odissea, I, vv. 8-9. nhvpioi...h\mar:"stolti, che divoravano i buoi del Sole/Iperione: ma quello tolse loro il dì del ritorno
-nhvpioi: è formato dal prefisso negativo nh-(simile ad aj-privativo)+ la radice ejp- sulla quale si forma e[po", "parola" e dunque corrisponde al latino infans (formato dal prefisso negativo in- +fans di fari =parlare). La manifestazione più evidente della stoltezza è dunque l'incapacità di parlare poiché chi non possiede la parola non ha neppure le idee e non controlla la mente. Ogni giorno arriva l’orrenda notizia di uccisioni di ragazzi da parte di altri ragazzi e di femminicidi. Gli assassini sono dei bruti incapaci di parlare. Chi sa parlare cerca di persuadere con le parole.
Nhvpioi sono i compagni di Odisseo i quali, per la loro stupida presunzione, divorarono i buoi del Sole quindi morirono (Odissea, I, 8-10).
Mevga nhvpio~ è l'attardato bambino pargoleggiante (ajtavllwn) dell’età d’argento: tali tipi umani rimanevano cento anni in casa con la madre solerte, poi, quando ne uscivano, vivevano per un tempo meschino, soffrendo dolori per la loro stupidità: poiché non potevano astenersi da un’insolente prepotenza reciproca (Esiodo, Opere e giorni, vv 130-135).
P. P. Pasolini aveva capito che la povertà del linguaggio è una forma di impotenza che prelude alla violenza: "Quando vedo intorno a me i giovani che stanno perdendo gli antichi valori popolari e assorbono i nuovi modelli imposti dal capitalismo, rischiando così una forma di disumanità, una forma di atroce afasia, una brutale assenza di capacità critiche, una faziosa passività, ricordo che queste erano le forme tipiche delle SS: e vedo così stendersi sulle nostre città l'ombra orrenda della croce uncinata"[2].
“Nel deserto della comunicazione emotiva che da piccoli non ci è arrivata, da adolescenti non abbiamo incontrato e da adulti non ci hanno insegnato a controllare, fa la sua comparsa il gesto, soprattutto quello violento, che prende il posto di tutte le parole che non abbiamo scambiato né con gli altri per istintiva diffidenza, né con noi stessi per afasia emotiva”[3].
Invero l'uso egregio della parola è il sapere più alto, il sapere che avvalora tutti gli altri, e questi, senza tale sapienza suprema, equivalgono agli zero non preceduti da un numero:"il molto sapere è un grave male, per chiunque non sia padrone/della lingua (polui>dreivh calepo;n kakovn, o{sti" ajkartei' -glwvssh"): è proprio come per un bambino avere un coltello" (Callimaco (310 ca- 240 ca a. C.), Aitia, fr.75 Pf, vv. 8-9.)
Si può pensare anche ai relatori, politici, professori che leggono anche le virgole di fogli scritti, forse nemmeno da loro. Sono inascoltabili e insopportabili. L’oratoria è fatta anche di actio.
La perdita della padronanza della lingua è uno dei sintomi della pazzia: così nell'ode di Saffo[4] tradotta da Catullo, così nel Prometeo incatenato[5] dove la fanciulla-giovenca Io, sentendo avvicinarsi un doloroso accesso di furore, dice di essere ormai glwvssh" ajkrathv" (v. 884), non più padrona della sua lingua.
I compagni di Odisseo dunque commisero un sacrilegio mangiando le mandrie del sole nel XII canto dell’Odissea.
Perché questo pranzo dei compagni di Odisseo costituisce un peccato tanto grave da togliere loro il ritorno? Io penso che l'uccisione delle vacche del sole che tutto vede e tutto ascolta ("o}" pant j ejfora'/ kai;
pavnt j ejpakouvei"[6]) costituisca un'offesa alla vita. Forse l'uccisione di mammiferi che oltretutto producono latte commestibile è sentita dall'autore di questo episodio come delitto non troppo lontano dall'assassinio di esseri umani. Infatti il divieto riguarda anche le pecore ("h] bou'n hjev ti mh'lon", XII, 301) e i compagni di Ulisse, finché non disobbediscono travolti da cattiva pazzia XII, 300) andavano a caccia di pesci e uccelli (" ijcqu'" o[rniqav" te", v. 331).
Mi conforta in questa interpretazione il quattordicesimo episodio dell'Ulisse di Joyce, Le mandrie del sole-L'ospedale . Il tema del capitolo è quello della nascita e il nesso con l'Odissea è costituito dalla fertilità di cui le mandrie sono simbolo.
Nel romanzo di Joyce il crimine è l'offesa alle donne incinte e alla maternità che Bloom invece venera come qualche cosa di sacro.
Egli siede in un gruppo di giovani bevitori ma non approva i loro schiamazzi:"Doglie di donna con meraviglia meditando"( Ulisse, p. 533). "Guardatela con reverenza mentre giace reclina con la luce della maternità negli occhi, con quella brama struggente delle dita del piccino (è davvero uno spettacolo delizioso), nel primo fiore della nuova maternità, mentre esala una prece silenziosa a quell'Uno lassù, il Marito Universale"(p. 579).
Già nelle Metamorfosi di Apuleio del resto la vacca è simbolo della fecondità della dea madre di tutti:"bos, omniparentis deae fecundum simulacrum " (XI, 11).
Anche Odisseo non partecipa agli atti stupidi o criminali dei compagni; anzi cerca di impedirli.
Omero fa sempre notare "come la condotta del suo eroe si opponga a quella del gruppo che lo segue", ma nell'episodio delle vacche del Sole "si ha il culmine dell'opposizione tra la sua preveggenza e l'imprevidenza degli altri; fino ad allora, i suoi uomini gli avevano sempre obbedito e il gruppo era sopravvissuto, malgrado la loro inferiorità. Ora, invece, ad onta dei suoi avvertimenti, sacrificano gli animali divini, e ciò segna la fine di tutti quanti nel grande naufragio causato dall'ira di Zeus, dal quale, a stento, scampa il solo Ulisse che non ha preso parte al pasto"[7].
Odissea, I, 10:"Di queste vicende, o dea figlia di Zeus, cominciando da un punto qualunque, racconta anche a noi".-
Omero e il "poema sacro"[8].
Con il v. 10 Omero forse vuole dire che la sua storia è così bella ed egli tanto perfettamente ispirato che da qualsiasi parte cominci la sua opera o si dia inizio alla lettura essa susciterà l'interesse dell'ascoltatore.
Può corrispondere al vanto e al gusto di improvvisare dell’oratore esperto.
Qualche cosa di simile sostiene Codino:"l' aJmovqen, più che alludere all'originale composizione circolare dell'Odissea , riecheggerà la vanteria degli aedi che si gloriavano di saper cominciare "da un punto qualsiasi". Sotto questo aspetto l'Odissea si ricollegherebbe più da presso, nella mossa iniziale, alla vecchia pratica aedica; alla quale certamente si riporta anche l'uso di avviare il racconto di un'avventura con un'assemblea e una decisione degli dèi"[9]. Il punto di partenza è comunque valido in quanto è divino: qui è la Musa che fa raccontare l'aedo; nell'VIII canto Demodoco, allievo della Musa o di Apollo (v. 488) comincia dopo essere stato messo in moto da un dio (v. 499) e questa è la garanzia che il canto sarà alto. L'aedo "conosce il passato perché ha la facoltà di essere presente al passato. Ricordare, sapere, vedere, sono termini equivalenti. E' un luogo comune della tradizione poetica l'opporre il tipo di conoscenza propria dell'uomo ordinario-un sapere per sentito dire, fondato sulla testimonianza di altri, su discorsi riferiti-, a quello che è proprio dell'aedo in preda all'ispirazione e che è, come quello degli dei, una visione personale diretta"[10].
Insomma anche a questo poema, come a quello sacro di Dante, secondo l' autore ha posto mano "e cielo e terra"[11].
fine riquadro.
-.kai; hJmi'n, anche a noi. Il plurale significa che il racconto scaturito dalla Musa non si ferma al poeta ma da lui passa agli ascoltatori e si forma quella catena degli invasi dall' ispirazione divina di cui parla Socrate nello Ione platonico: la Musa rende ispirati i poeti , poi a questi ispirati si attacca una catena di altri ispirati ("dia; de; tw'n ejnqevwn touvtwn a[llwn ejnqousiazovntwn oJrmaqo;" ejxarta'tai", 533e).
Infatti i poeti epici, quelli buoni, non per arte, ma essendo ispirati e posseduti dal dio (" e[nqeoi o[nte" kai; katecovmenoi"), compongono tutti questi bei poemi, e i poeti lirici, quelli buoni, parimenti.
Fine del proemio
Bologna 29 aprile 2025 ore 10, 26 giovanni ghiselli
p. s.
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[1]Paideia , 1, p. 78, n. 57.
[2] Scritti corsari, p. 187.
[3] U.Galimberti, L’ospite inquietante, p. 49.
[4] Fr. 2 D., v 9, glw'ssa <m j e[age, la lingua mi rimane spezzata; lingua sed torpet (51, 9), si paralizza la lingua.
[5] Imitato in questo punto da Callimaco come si vede: non ut lateat imitatio sed ut pateat
[6]Odissea , XII, 322. Per i significati del Sole vedi la scheda nel volume sugli storici.
[7]C. Miralles, Come leggere Omero , p. 69.
[8]"al quale ha posto mano cielo e terra", così Dante definisce il suo in Paradiso XXV, 1-2.
[9]Introduzione a Omero , p. 198.
[10]J. P. Vernant, Mito e pensiero presso i Greci , p. 96.
[11]Paradiso , XXV, 1-2.
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