Aprile 1979. Con ricordi personali e
letterari: dalle Baccanti di Euripide
a Dostoevskij a Svevo
Entrato nel paese dove
abitavo bambino e fanciullo nei mesi di agosto degli anni Cinquanta,
attraversai il primo ponte sull’Avisio e andai a occupare la camera prenotata
nell’Hotel La Campagnola dove avrei dormito, studiato i libri portati con me, e cenato la sera. Di
giorno preferivo mangiare un panino in uno dei rifugi del Lusia dove andavo ad
abbronzarmi e sciare.
Dopo avere sistemato la roba
nell’albergo situato sulla terza rampa della strada in salita che arriva al
passo San Pellegrino, mi mossi per tornare al centro di Moena: volevo rivedere
con calma il paese e riconoscere i luoghi frequentati in passato, magari anche
qualche ragazzo di allora non tanto invecchiato da essere irriconoscibile o
addirittura inguardabile: temevo di ravvisare la mia decadenza nella senilità
precoce e vituperosa di qualche giovane vissuto male.
Aveva cessato di piovere e
tra le nuvole già un po’ diradate stava trovando qualche breve pertugio la luce
del sole ormai vicino del resto al dorso villoso del Sass da Ciamp: un monte alto
meno di 2000 metri e perciò tutto boscoso tranne nella piccola estremità
rocciosa rivolta verso Nord. Quando ero bambino e vedevo tante più cose con
l’immaginazione che con gli occhi già miopi,
se fissavo quel monte dal sottostante prato di Sorte, nella sua sagoma vedevo
un cane tutto peloso tranne che nel naso teso a fiutare il vento settentrionale;
anzi, quando ebbi preso un poco di confidenza con i monti di Moena, al Sass da Ciamp che verso
le cinque di pomeriggio in agosto mi nascondeva precocemente la santa faccia di
luce che ho sempre adorato, chiedevo di
accucciarsi per lasciarmi ancora vedere il volto radioso della mia guida, la
Mente dell’universo. Ma quel monte dall’aspetto canino non mi dava retta, e allora, per rivedere il sole
dovevo correre verso le pendici occidentali della valle, attraversare il
secondo ponte sull’Avisio, quindi
salire, sempre di corsa, su per la
strada di Someda da dove potevo
assistere a un secondo tramonto pieno di benedizioni lanciate dagli ultimi
sprazzi di luce.
Sulle cime più alte quel
bagliore residuo indugiava fino alle sette prendendo toni diversi. Quando le
guglie più alte iniziavano a rosseggiare immaginavo che l’amico divino, per il
dispetto di andare a dormire troppo presto, scagliasse i lamponi dei boschi a
spiaccicarsi contro le rocce del Catinaccio
tingendole di sugo purpureo, simile al sangue.
Il pomeriggio del 13 aprile
1979 dunque, arrivato a 34 anni e cinque mesi, camminavo per Moena ricordando
il passato per capire il presente.
Sul ponte che collega le due
piazze centrali divise dall’Avisio transitavano ragazzi italiani e stranieri.
Ricordai che Ifigenia, volendo significarmi di essere una donna evoluta e
libera, mi aveva detto che l’estate precedente aveva amoreggiato a Riccione con
un paio di stranieri appunto, quando il marito non c’era. Pensai che l’estate
seguente avrebbe ripetuto, rinnovato e
rinverdito quel baccanale corrotto[1].
Questa volta l’eterno marito di tipo
dostoevskiano sarei stato io pensai. Sulla fronte mi sarebbe spuntato “il bel
noto ornamento”[2] che avrebbe spinto la mia
testa a una sorta di beccheggio: su e giù per scacciare i brutti pensieri.
Poi però mi correggevo: “ma
quale marito? Chi la sposa quella? Nemmeno se mi puntano una pistola alla
tempia. Se non vuole più stare con me, vada pure con chi ne ha voglia. Anche
con un battaglione di negri, come diceva comicamente Fulvio, maestro e amico. Pronunciava
nègri come fanno a Parma, città civilissima, dalla parlata però piuttosto
barbarica. Nègri, sétte, vètro dicono loro.
“Condividere un’amante con un altro uomo può essere una fortuna,
come afferma lo Zeno di Svevo: la responsabilità è minore, la noia pure”, mi
consolavo avvalendomi del mio solito abito letterario.
Mi venne in mente un film
dove un uomo brutto entrava in un bar con un donnone.
Questa dopo un po’ si metteva
a parlare con un orientale. Il deforme che l’aveva accompagnata disse a un altro:
“speriamo che si innamori del giapponese!”
“Perché speri questo?” fece
l’altro con aria stupita.
“Così finalmente si toglie dai piedi” rispose l’uomo invenusto, perfino losco.
“In effetti se una se ne va
con un altro - pensavo - vuol dire che non
sta volentieri con te e se rimanesse ti darebbe soltanto noia. Allora ponti
d’oro
E dopo tutto non è male
baciare chi se ne va. E’ il bacio più gustoso”.
Con tali pensieri mi davo
delle ragioni e mi astenevo dall’odiare, cioè dal soffrire inutilmente. Temevo
nuove umiliazioni dopo le tante ricevute fin da bambino ma cominciavo a capire
che viene umiliato solo chi dà spazio e credito ai mascalzoni. A me non doveva
accadere mai più.
Osservavo di nuovo i monti
dalle sembianze umane espressive, piene di significato. E pensavo: “ Come a
Pesaro ho sempre tratto conforto dagli innumerevoli sorrisi della distesa
marina soleggiata; a Bologna dalle colline mentre le percorro in bicicletta
all’insù e all’ingiù con pedalate eroiche e pure amorose siccome nella natura
madre cerco sempre forme femminili; a Debrecen dalle querce profetiche della
grande foresta che mi promettevano, senza mentire mai, i grandi amori assegnati
a me dal destino, così a Moena mi sollevo parlando a montagne antropomorfe o meglio ginecomorfe, ed esse per loro
umanità mi rispondono, mi fanno coraggio. Mi aiutano a superare ogni volta le
difficoltà della vita, a diventare sempre meno insicuro e infelice”.
Mi diedi a osservare il Piz
Meda.
Questo monte, situato a sinistra delle prime rampe che
menano al passo san Pellegrino, non è molto alto, arriva appena ai 2000 metri e
consta di un grande bosco sopra il quale spicca una parete rocciosa simile a un volto
umano sereno e dignitoso.
Tra il bosco e la rupe liscia,
dove ho sempre ravvisato una faccia di donna buona, si stende una conca
invisibile a chi guarda dal fondo valle dove scorre l’Avisio; per vederla
bisogna salire sul Pizzo stesso o su un monte vicino. Quando ero bambino avrei
tanto voluto osservare quella misteriosa incavatura come se ci avessi potuto
trovare l’anima, o il cuore, o la vagina della montagna. La parte posteriore
visibile scendendo dalle piste del Lusia era amena, oso dire callipigia non
senza autoironia.
Una
volta, ricordo, dissi alla zia, nutrice e madre vicaria in quel di Moena:
“Giulia, il Piz Meda ha una faccia simpatica. Mi piacerebbe vedere la conca che
le sta sotto: forse lì c’è un piccolo lago che raccoglie le lacrime o riflette
i sorrisi di quel viso”.
Ma la zia , che era stata
maestra fascista in diversi paesi europei con soddisfazione, trovò inopportuna,
impertinente e inquietante la mia osservazione. Anche a Budapest era stata
inviata a insegnare.
“Bambino - disse - non hai più
l’età per fare discorsi tanto sciocchi. Vai a ripassare la tavola pitagorica
piuttosto, che ti farà tanto bene”.
“Perché sciocchi?” provai a
ribattere.
“Sciocchi sì: non sono punto intelligenti né spiritosi
bensì sciapi e privi di logica”.
Andai in camera mia
dispiaciuto pensando che avrei fatto vedere alla zia che valevo qualcosa
smentendola e dandole del resto grandi soddisfazioni perché lei, donna sposata
ma senza figli, puntava molto su di me, sul mio essere bravo a scuola. Lei stessa è stata una brava maestra dai 17 ai
65 anni. Ho preso molto da lei, perfino i capelli rimasti neri fino ai Settanta
anni e oltre. Neri come corvi eravamo anche da vecchi. Abbiamo derivato tale anomalia dal ghenos etrusco dei Martelli di Borgo
Sansepolcro.
Nelle elementari Carducci di
Pesaro ero già molto bravo in italiano. La zia Giulia insegnava a Roma nel quartiere Monte
Sacro ma si teneva informata sulla mia “carriera scolastica” già allora, e dopo
tutto mi ammirava. Temeva però che potessi traviarmi seguendo il volo delle mie
chimere irregolari e illogiche. Le mie fantasie non sapevano niente di sillogismi
in effetti. Nemmeno la vita ne sa.
Fu contenta quando nel 1987
andai a fare il commissario di greco e latino all’esame di maturità nel liceo
classico Orazio di Monte Sacro.
Date le sue attese sul mio conto, trovava che le
mie fantasie puerili non si confacessero a quanto lei si aspettava. Per fortuna
in terza elementare avevo un maestro, Gasperi, che invece le apprezzava e
faceva girare i miei temi in tutte le classi del Carducci do Pesaro.
La professoressa di Lettere
delle medie Lucio Accio, Giulia Gattoni, ha continuato a dire per anni che non
aveva mai trovato un bambino sensibile e intelligente come me tra i suoi allievi.
Sicché davo retta a questi
educatori che mi incoraggiavano a essere me stesso.
Alla zia volevo bene ma non
dovevo farmi fuorviare da lei che del resto mi avrebbe aiutato a vivere
dignitosamente quando iniziai a lavorare lontano da Pesaro con uno stipendio che non bastava per una vita civile.
Negli ultimi anni anche la zia Giulia diceva che ero la persona più
intelligente che avesse mai conosciuto.
La casa di Moena però non
volle assegnarmela: disse che ci avrei portato chissà quante donne e il prete
sarebbe venuto a bussare alla porta. Risposi che l’avrei buttato giù dalle
scale. Da giannetto sciocchino ero diventato birbante come don Giovanni.
Nemmeno la casa di Roma mi ha lasciato. Mi domandò se mi dispiacesse se la
segnava a mia sorella. Che cosa potevo rispondere se non: “fai come ritieni
giusto, a me hai segnato l’oliveto di Montegridolfo”. Le sono grato di tutto comunque. Ho seguitato
a vivere da semipovero ma non ho venduto niente di quanto ho ricevuto. Credo
che ne siano contente le mie benefattrici: nonna, mamma e zie.
Quel 13 aprile dunque le cose
mi andavano già meglio di quando ero considerato uno sciocchino: diverse donne mi avevano
amato riamate, però il problema di fondo: quello di amarne una senza paura,
senza sospetto, non l’avevo risolto. Non l’ho mai risolto. A parte il mese con Helena Augusta, l’unica bella e buona
della pentecontaetia amorosa iniziata solo nel 1968.
Avrei potuto amare una figlia
mia, lei sì, come ho amato tutte le mie consanguinee, ma non ho avuto il
coraggio di metterla al mondo e le amanti giovani quasi adottate come figlie,
dopo avermi accolto con il cuore proteso, presto o tardi si sono dileguate. Una
alla volta via via.
Giustamente per sé e ancora
più giustamente per me.
“ degnamente Febo di fatto, e
degnamente tu” dico ancora a me stesso ripetendo un verso dell’Edipo re di Sofocle: “ ejpaxivw~ ga;r Foi`bo~, ajxivw~
de; suv” (133). Che cosa c’entra?
Domanderai tu lettore. Posso dirti che mi piace e che vivendo ho imparato a
fare, dire e scrivere quanto mi garba soprattutto se non danneggio
nessuno.
Chi è strettamente logico
sostiene che con tali esplosioni di irrazionalità e originalità ostacolo me
stesso. Rispondo che l’irrazionale, il personale non è eliminabile, e chi cerca
di reprimerlo fa danni grandi e brutti assai. Come Penteo nelle Baccanti per esempio.
Avvertenza: il blog contiene
1 nota e il greco non traslitterato.
Bologna 6 maggio 2025 ore 17, 06
giovanni ghiselli
p. s. Statistiche del blog
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Oggi248
Ieri510
Questo mese2129
Il mese scorso15712
[1] Cfr. Euruipide,
Baccanti 231- 232:
“E
dopo averle sistemate opportunamente in reti di ferro
le
farò cessare subito da questo baccanale perverso”.
Già docente di latino e greco nei Licei Rambaldi di Imola, Minghetti e Galvani di Bologna, docente a contratto nelle università di Bologna, Bolzano-Bressanone e Urbino. Collaboratore di vari quotidiani tra cui "la Repubblica" e "il Fatto quotidiano", autore di traduzioni e commenti di classici (Edipo re, Antigone di Sofocle; Medea, Baccanti di Euripide; Omero, Storiografi greci, Satyricon) per diversi editori (Loffredo, Cappelli, Canova)
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