martedì 13 marzo 2018

Ifigenia. La piscina di Debrecen

Tiepolo, "Apoteosi", Villa Pisani, 1761-62

La piscina di Debrecen, l’apoteosi di Ifigenia, Il sole. L’identità ritrovata.

Quel giorno feci quanto dovevo a me stesso: camminai, corsi, nuotai, mi abbronzai, lessi diverse pagine dei Guermantes per poterne parlare presto con lei. Mangiai poco. Per tenere a bada la fame, bevvi molta acqua e alcuni caffè. Verso le sei, da occidente, arrivò un vento fresco. Lo sentìi profumato della mia donna. Faceva già presentire l’autunno e pregustarne le gioie. Era il presagio di una stagione felice. Pensavo ai nostri incontri in casa mia dove la ragazza arrivava sul calar delle tenebre lunghe di novembre, verso le cinque del pomeriggio. Dopo pochi minuti era seduta sui talloni, nel nostro letto, nuda, sorridente e luminosa come il sole sul mare greco dove nacque Afrodite, la dea dal dolce sorriso. La creatura mia splendidissima profumava come le rose che nella stagione bella rallegrano perfino i cortili più bui e miserandi. Era bella tutta, la mia giovane donna. L’alito, la saliva, il sangue mestruale, ogni cosa era bella e buona in siffatta creatura. “Le tue vene, come cespugli di rose, trepidano continuamente, ha scritte in un’ode Attila Jozsef, il più bravo, il più caro poeta ungherese del Novecento: “Vérköreid, miként a rózsabokrok reszketnek szüntelen[1].

Le foglie oramai rinsecchite e ingiallite sussurravano buoni presagi. Nella vasca più grande dove alcuni ragazzi giocavano a palla, l’acqua trepidante nel vento, e schizzata fuori dai giovani in miriadi di gocce, rifletteva i raggi del sole moltiplicandoli in un luccichio festivo. La piscina sembrava sorvolata da sciami di farfalline gialle agitate da un impulso amoroso. Poco dopo giunsero nuvole umide che nascosero il sole cadente.
Solitamente vedere i primi segnali dell’equinozio acquoso che offusca i colori del cielo e del mare mi rende inquieto.
Il due agosto del 1979 invece ne fui del tutto felice poiché la stagione dolente significava per me il rinnovarsi dell’amore con Ifigenia che un giorno di novembre del mirabile anno passato era venuta in camera mia, nel nostro recinto sacro, trafelata e gioiosa, con la chioma bruna bruna screziata di neve bianchissima e un sorriso radioso negli occhi, nella bocca, in tutta la sua persona santa.
Ogni tanto il sole estremo spuntava con dura fatica da quelle nuvole dense.
Se l’autunno era già vicino, non erano più tanto lontani i tripudi amorosi, mai al di sotto della sufficienza, non una ma trina, anzi molto spesso al di sopra.
Erano prossime a rinnovarsi le sacrosante orge celebrate in onore del dio Eros cui eravamo entrambi devoti. Allora mettevamo l’amore sopra ogni cosa.

La vacanza crudele che mi teneva lontano da lei aveva superato la cresta montuosa della metà. Mi aspettava. Mi amava. Zazzì, come annunciava il telegramma messaggero di amore. Mi avrebbe amato per sempre, e anche se fosse sparita, sarei rimasto con lei scrivendo la storia del nostro amore. Quella donna era lo scopo della mia vita, siccome i fini veri di tutto quanto facevo, li avevo individuati stando con lei, educandola e amandola.
Dovevo continuare a educare, a imparare e amare. Mantenere la forma migliore studiando e facendo esercizio fisico. Un’ascesi pagana. Sui venti anni mi vergognavo di essere tanto diverso dagli altri, dai più, e magari cercavo di camuffarmi per assimilarmi a loro, sempre senza successo e con tanto dolore deleterio; poi altre donne benedette, come le due Elene di cui ho già raccontato in questo epos ciclico, mi avevano autorizzato a essere me stesso, e dopo tali incoraggiamenti ero diventato fiero della mia identità rara, molto fiero, sicuro e felice di non essere uno che vive di luoghi comuni, che li ripete annoiando perfino se stesso, e di sera gioca a carte o guarda le partite di calcio. Costoro fanno l’amore due volte alla settimana, bene che vada. E da giovani. Magari arrivano a cinque con un’amante o un amante e dicono menzogne al coniuge. Tutto questo fa schifo, eppure durante la crisi quasi mortale dei miei sciagurati ventanni tale masnada mi era sembrata fatta di persone normali Per quanti sforzi facessi, non riuscivo a essere come loro. Era gente mortificata che mi mortificava.
 Poi, grazie alle donne migliori e al movimento del ’68, avevo ritrovato la mia identità di adolescente, studioso, sportivo curioso e amantissimo della vita. Dovevo realizzarla al massimo la vita mia secondo la mia identità, nella maniera più forte e pù nobile. Un’identità non gregaria, non presa a prestito.
Il sole, sbucando ancora una volta dalle nuvole acquose, simile a una palla cerchiata da lamine d’oro, balzava su un ramo rotto, aguzzo, e non ne veniva forato, come l’anima mia resa quel giorno impenetrabile dal male e dal dolore. Mi aspettavano gioie e successi.

giovanni ghiselli

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[1] Oda 4, 9-10

1 commento:

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