Christa Wolf |
Il pathos come elemento educativo, come propedeutico all’intelligenza e alla comprensione
Conferenza del 27 febbraio 2018, ore 18, al circolo ARCI Trigari, via Bertini, 9/2, Bologna
Parte 2
Tuttavia lo qumov"
spesso prevale; anzi molte volte le riflessioni e pure i ragionamenti traggono
la loro origine da stati emotivi.
La Medea di Euripide individua nel suo
animo un conflitto tra la passione furente e i ragionamenti, quindi comprende
che l'emotività, sebbene sia causa dei massimi mali per gli uomini, è comunque
più forte dei suoi propositi: "Kai;
manqavnw me;n oi|a dra'n mevllw kakav,-qumo;"
de; kreivsswn tw'n ejmw'n bouleumavtwn,-o{sper megivstwn ai[tio" kakw'n
brotoi'""( vv. 1078-1080), capisco quale abominio sto per
compiere, ma più forte dei miei ragionamenti è la passione, che è causa dei
mali più grandi per i mortali", dirà la furente nel quinto episodio dopo
avere preso la decisione folle di uccidere i figli.
Un'eco lontana di questa situazione si trova nelle Metamorfosi di Ovidio dove Medea
cerca di contrastare, senza successo, la passione per Giasone "et
luctata diu, postquam ratione furorem/ vincere non poterat, "Frustra,
Medea, repugnas." (VII, vv. 10-11), e dopo avere combattuto a lungo,
dacché non poteva vincere la follia amorosa con la ragione, si disse "ti
opponi invano, Medea".
Medea anche nel teatro senecano incarna, come Fedra,
il furor che prevale sulla ratio in seguito al ripudio del lovgo" . Questo può dare coscienza
del bene ma il furor costringe a seguire il male.
Il terzo atto
(vv. 381-579) della Medea inizia con
un discorso della nutrice che consiglia all'alumna di moderare l'ira
prossima a scatenarsi, quindi, in un a parte, descrive il furore dell'alumna
che ha preso l'aspetto di una Menade invasata dal dio:"Se vincet:
irae novimus veteras notas./Magnum aliquid instat, efferum, immane,
impium:/vultum furoris cerno. Di fallant metum!" (v.
395-397), supererà se stessa: conosco i segni antichi della rabbia. Ci sovrasta
qualche cosa di enorme, di feroce, di inumano, di empio: vedo il volto del
furore. Gli dèi possano sbugiardare la mia paura!
Nel primo verso c'è una reminiscenza dell'Eneide [1].
Medea replica parlando a se stessa: il suo
furore è naturale per una donna ferita con la piaga più grave e dolorosa:
quella dell'oltraggio arrecato alla sfera sentimentale e sessuale.
Un'affermazione che si trova già nella Medea di Euripide: " La donna infatti per il
resto è piena di paura/e vile davanti a un atto di forza e a guardare
un'arma;/ma quando sia offesa nel letto (ej"
d j eujnh;n hjdikhmevnh) ,/non c'è non c'è altro cuore più sanguinario (oujk e[stin a[llh frh;n miaifonwtevra). (
vv. 263- 266).
Torniamo alla madre furente di Seneca
Medea dunque, umiliata dall'uomo
che ama, prova una furia implacabile:"numquam meus cessabit in
poenas furor,/crescetque semper " (vv. 407-408), il mio furore non
cesserà di cercare vendette, e crescerà sempre.
Il concetto è espresso chiaramente dalla Fedra di Seneca che lo riprende
dall'Ippolito di Euripide: "Quae memoras, scio/vera esse,
nutrix; sed furor cogit sequi peiora. Vadit animus in praeceps
sciens,/remeatque, frustra sana consilia adpetens" (vv. 178-181), so
che quanto mi rammenti è vero, nutrice; ma il furore mi costringe a seguire il
peggio. Il mio animo si avvia al precipizio e lo sa, poi torna a cercare invano
sani propositi
Pohlenz
attribuisce anche all’ Edipo di Sofocle la prevalenza dello qumov~: “Lineamento fondamentale del suo
essere è lo thymós, la calda
impulsività, che un tempo, quando aveva incontrato il padre e quando poi aveva
scoperto il proprio delitto, lo aveva indotto ad atti troppo subitanei, e
neppure ora, nella vecchiaia, lo aveva abbandonato. E se al momento
dell’estremo commiato egli dice alle figlie: “Nessuno vi ha amato mai come me,
noi sappiamo che quest’uomo sa anche odiare come nessun altro. Anche i propri
figli”[2].
Piuttosto emotiva che razionale è anche la Medea ,
pur innocente, di Christa Wolf: "era, come
potrei dire, troppo femmina, cosa che
ne coloriva anche il pensiero. Lei pensava, ma perché ne parlo al
passato, lei ritiene che le idee si siano sviluppate dai sensi e che non
dovrebbero perdere quel legame. Antiquata naturalmente, superata"[3].
E’ Acamante, l'astronomo di corte del re di Corinto, che
parla.
Euripide, quale anticipatore di motivi dell’Ellenismo,
talora è già postfilosofico[4]
e antepone la sensibilità alla ragione.
Al verso 485 della Medea,
rievocando i delitti compiuti per amore, la nipote del sole si definisce: "provqumo" ma'llon h] sofwtevra",
passionale più che saggia.
Così pure Foscolo:"Cos'è l'uomo se tu lo abbandoni alla
sola ragione fredda, calcolatrice? scellerato, e scellerato bassamente"[5].
Il cuore è la parte più nobile e viva della persona di Iacopo Ortis:"se
questo cuore non vorrà più sentire, io me lo strapperò dal petto con le mie
mani, e lo caccerò come un servo infedele"[6].
Il temperamento di Medea può confutare il presunto
razionalismo di Euripide, quello che Nietzsche chiama "socratismo
estetico, la cui legge suprema suona a un dipresso:"Tutto deve essere
razionale per essere bello", come proposizione parallela al principio
socratico :"solo chi sa è virtuoso"[7].
Un'altra confutazione della supposta[8]
sintonia e complicità tra Euripide e
Socrate[9]
la fornisce Fedra quando nell'Ippolito dice: "bisogna considerare questo:/il bene lo conosciamo e
riconosciamo,/ma non lo costruiamo nella fatica (oujk
ejkponou'men: il bene topicamente costa povno"
, fatica) , alcuni per infingardaggine (ajrgiva"
u{po),/ alcuni anteponendogli qualche altro piacere./ E sono molti i
piaceri della vita:/lunghe conversazioni makrai;
levscai, , l'ozio, diletto cattivo[10],
(scolhv, terpno;n kakovn)
l'irrisolutezza (aijdwv" te,
una forma brutta di aijdwv" )
"(vv.379-385).
Esiodo aveva distinto una forma buona di aijdwv" da una cattiva.
La prima è il rispetto, il pudore, che con lo sdegno (nevmesi"), la Giustizia , la
Gratitudine tengono l’umanità lontana dal male. Se tali valori divini
lasceranno la terra e voleranno sull’Olimpo kakou'
d j oujk e[ssetai ajlkhv (201). La seconda aijdwv", quella non buona (oujk
ajgaqhv), accompagna l’uomo
indigente che si vergogna di esserlo, l’aijdwv"
infatti può recare danno o giovamento agli uomini. La vergogna è legata
alla miseria, mentre il coraggio al benessere (Opere e giorni, 317-319).
Anche questa
situazione ha un'eco nelle Metamorfosi
di Ovidio dove Medea, pochi versi dopo quelli citati sopra, aggiunge: "sed
trahit invitam nova vis, aliudque cupido,/mens aliud suadet: video meliora
proboque/, deteriora sequor! quid in hospite, regia virgo,/ureris et thalamos
alieni concipis orbis?" (VII, vv. 19-22), ma contro voglia mi trascina
una forza mai sentita, altro consiglia il desiderio, altro la mente: vedo il
meglio e l'approvo, seguo il peggio! Perché ragazza, figliola di re, ti
infiammi per uno straniero, e desideri il talamo di un mondo estraneo? Un'eco
precisa dei vv. 20-21 si trova alla fine della Canzone XXI del
Petrarca:"cerco del viver mio novo consiglio;/e veggio 'l meglio et al
peggior m'appiglio" (Il Canzoniere CCLXIV, vv. 135-136).
Nelle Heroides di Ovidio, Medea
alla fine della sua Epistula Iasoni dichiara:"Quo feret ira sequar. Facti fortasse pigebit
" (Heroides , XII, 211),
andrò dove mi porterà la rabbia. Forse mi pentirò del misfatto. Un pentimento
presofferto ma non evitabile dal momento che la parte emotiva prevale su quella
razionale e pure su quella etica.
In un distico dei Remedia
Amoris[11] Ovidio afferma in prima persona che la propria fedeltà al dio Amore rimane
comunque, e aggiunge che le sue teorie di maestro erotico se pure sono
razionali, hanno un fondamento passionale: "Quin etiam docui, qua posses arte parari,/et, quod nunc ratio est,
impetus ante fuit" (vv. 9-10), anzi ho perfino insegnato con quale
arte ti si possa conquistare, e quella che è ora una teoria, prima fu slancio.
"Euripide… non fu precisamente il razionalistico
"poeta dell'illuminismo greco". Fu il poeta che meglio di ogni altro
seppe ascoltare i moti più segreti del cuore umano e avvertì in tutta la loro
gravità i conflitti che ora ne scaturivano. Il desiderio di vendetta di Medea
emerge dalle insondabili profondità della sua anima, e appena arriva alla
soglia della coscienza ha inizio nell'intimo del personaggio una dura,
inesorabile lotta, in cui la ragione e l'amore materno soccombono alla
passionalità del qumov" . La
vita ha insegnato ad Euripide che noi abbiamo in genere chiara coscienza del
bene, ma non lo attuiamo perché gli impulsi irrazionali sono più forti"[12].
CONTINUA
[1] Didone male sana (Eneide IV, v. 8)
che non sta bene , rivela alla sorella
il suo amore: dopo l'assassinio di Sicheo, perpetrato da Pigmalione, solo Enea
ha scosso i suoi sensi e ha colpito l'animo in modo da farlo vacillare:"Adgnosco
veteris vestigia flammae " (, v. 23), riconosco i segni dell'antica
fiamma. Se ne ricorderà anche Dante
mettendone una traduzione letterale nel Purgatorio: "conosco i
segni dell'antica fiamma" (XXX, 48). Ogni autore conosce la tradizione e
se ne avvale come base aggiungendo del suo. Così l'edificio cresce.
[2]
M. Pohlenz, La tragedia greca, p.
394.
[3]
Medea, p. 117.
[4]
“Questi poeti ellenistici erano, per dirla in una parola, post-filosofici,
mentre i poeti arcaici erano pre-filosofici” (Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, p. 371).
[5]
Ultime lettere di Iacopo Ortis, 28 ottobre 1797.
[6]
Ultime lettere di Iacopo Ortis, 15 maggio, 1798.
[7]La nascita della tragedia, p. 85.
[8]
Da Nietzsche appunto che definisce il maestro di Platone un logico
dispotico:" Basta pensare alle conseguenze delle proposizioni
socratiche:"La virtù è il sapere; si pecca solo per ignoranza; il virtuoso
è felice"; in queste tre forme fondamentali di ottimismo sta la morte
della tragedia" (La nascita della tragedia, p. 96). Alla
fine delle Rane di Aristofane, dopo che Dioniso ha attribuito la
vittoria a Eschilo nella contesa con Euripide, il Coro afferma che è una bella
cosa non stare seduto a cianciare (lalei'n)
con Socrate disprezzando la musica e trascurando la grandezza dell'arte tragica
(vv. 1491-1495)
[9]
Il quale nell'opera di Platone sostiene che facciamo il male per ignoranza del
bene, e, se solo conosciamo il bene. non possiamo fare il male.
[10] Il piacere dell'ozio come sirena che distoglie dal
fare cose egregie è denunciato anche da Tacito nell'Agricola:"subit quippe
etiam ipsius inertiae dulcedo, et invisa primo desidia postremo amatur
" (3), infatti si insinua anche il
piacere della stessa passività, e alla fine si ama l'accidia dapprima odiosa.
L'ozio che fa male si trova
pure nel carme 51 di Catullo:"Otium,
Catulle, tibi molestum est (v.13), lo star senza far niente ti fa male,
Catullo.
[11]
Poemetto di 814 versi (412 distici elegiaci) che appartiene al periodo
conclusivo della prima parte della produzione ovidiana, quella elegiaco-
amorosa che arriva al 2 d. C.
[12]
M. Pohlenz, L'uomo greco, p. 624.
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