Torniamo a Lucrezio.
Il mondo per giunta è un luogo di sofferenza quid obest non esse creatum? (De rerum natura, V, 180) che danno ci
sarebbe?
Dunque, se pure ignorassi l’origine delle cose, tuttavia
dalle stesse vicende del cielo e dagli altri fenomeni ausim confirmare
nequaquam nobis divinitus esse paratam
Naturam rerum: tanta
stat praedita culpa (198-199) che in nessun modo per volere divino in
nostro favore è stata preparata la natura del mondo
La terra produce frutti solo in seguito a grandi sforzi degli
uomini.
A volte le fatiche vengono annichilite dal tempo maligno
Poi c’è il genus
horriferum ferarum humanae genti infestum (219), i morbi portati dalle
stagioni, la mors immatura.
Il puer è ut saevis proiectus ab
undis- navita (223-4), come il navigante gettato via dalle onde infuriate egli
(il puer) nudus humi iacet, infans, indigus omni vitali ausilio.
Appena la natura lo ha gettato
sulle sponde della vita dal grembo materno con doglie “cum primum in luminis oras-nixibus
ex alvo matris natura profudit- vagituque locum lugubri complet, ut aequum est-cui
tantum in vita restet transire malorum” (223-7)
Excursus A proposito di nixibus
I dolori del parto.
L’invidia e il
risentimento dell’uomo.
Famosissimi sono questi versi della Medea di Euripide pronunciati dalla
stessa protagonista eponima della tragedia:
“Dicono di noi che viviamo una vita senza pericoli
in casa, mentre loro combattono con la lancia,
pensando male: poiché io preferirei stare tre volte accanto a uno scudo
piuttosto che partorire una volta sola”. (248- 251).
Medea afferma di preferire la guerra al parto inaugurando un
tovpo" che potrebbe essere
condiviso dalle soldatesse di oggi.
Ennio (239-169 a. C.) fa dire alla sua Medea exul :"nam ter sub
armis malim vitam cernere/quam semel parere, infatti preferirei decidere la vita sotto le armi tre volte,
che partorire una volta sola.
Medea dunque avverte gli uomini che il parto può essere più
tremendo della guerra.
Del resto il letto è il mobile più importante della casa e
talora è il campo di battaglia della donna.
Le sofferenze del
parto sono ricordate nell' Elettra di Sofocle da Clitennestra, quando
l’adultera assassina di Agamennone tenta di giustificarsi per il trattamento
riservato al marito il quale non era incolpevole: egli sacrificò Ifigenia dopo
averla seminata, senza avere passato il travaglio della madre quando la
partorì: "oujk i[son kamw;n ejmoi;-luvph", o{t'
e[speir' , w{sper hJ tivktous' ejgwv"
( vv. 531-532).
Qui, all’opposto di
quanto sostiene Apollo nelle Eumenidi,
il seminare conta meno del partorire.
Nelle Fenicie
di Euripide, la Corifea
commenta la pena di Giocasta per Polinice dicendo:"deino;n gunaixi;n aiJ
di' wjdivnwn gonaiv,-kai;
filovteknovn pw" pa'n gunaikei'on gevno"" (vv. 355-356), sono terribili per le
donne i parti attraverso le doglie, e tutta la razza femminile è in qualche
modo amante dei figli.
Giocasta lo è stata
anche troppo con Edipo; Medea evidentemente fa eccezione.
Nell' Ifigenia in
Aulide la Corifea
comprende la pena di Clitennestra per la figliola, ricordando quale prova
terribile sia il parto:"deino;n to; tivktein kai; fevrei fivltron
mevga-pa'sivn te koino;n w{sq' uJperkavmnein tevknwn" (vv. 917-918), tremendo è partorire e
comporta una grande magia d’amore comune a tutte, tanto da soffrire per i
figli.
Partorire dunque è
una delle cose tremende (ta; deinav).
Nei Memorabili
di Senofonte, Socrate, ricordando al figlio Lamprocle i benefici dei genitori
alle proprie creature e il dovere della gratitudine, fa presente che “il
nascimento” mette a repentaglio la vita della madre:" hJ de; gunh;
uJpodexamevnh te fevrei to; fortivon tou'to, barunomevnh te kai; kinduneuvousa
peri; tou' bivou" (II, 2,
5), la donna, dopo avere concepito, porta questo peso, aggravata e con rischio
della vita.
In Anna Karenina c'è il parto doloroso della giovane
moglie di Levin il quale partecipa, mentalmente, alla sua sofferenza, forse
ingrandendola :" La faccia di Kitty non c'era più. Al posto dov'era prima,
c'era qualcosa di terribile e per l'aspetto di tensione e per il suono che di
là usciva. Egli lasciò cadere la testa sul legno del letto, sentendo che il
cuore gli si spezzava. L'orribile urlo non taceva, si era fatto ancora più
orribile, e, come se fosse arrivato all'ultimo limite dell'orrore, a un tratto
si spense" [1].
Eppure molti uomini provano invidia per questa facoltà
esclusivamente femminile: Nerone recitava anche in ruoli femminili, e una volta, mentre stava interpretando Canace partoriente la quale ebbe un figlio dal
fratello Macareo, chiesero dell’imperatore, e un soldato rispose: “partorisce”[2].
Altri maschi hanno del risentimento nei confronti di questa
creatività femminile.
Sentiamo Giasone nella Medea
di Euripide :"Crh'n ga;r a[lloqevn
poqen brotou;"-pai'da" teknou'sqai, qh'lu d j oujk ei\nai gevno":
-cou{tw" a]n oujk h\n oujde;n ajnqrwvpoi" kakovn" (vv.
573-575), bisognerebbe in effetti che gli uomini da qualche altro
luogo/generassero i figli e che la razza delle femmine non esistesse:/e così
non esisterebbe nessun male per gli uomini.
Insomma il male è la femmina.
Nell'Ippolito di
Euripide, il protagonista, sdegnato con la matrigna, è talmente disgustato e
terrorizzato dalle donne, ingannevole male per gli uomini ("kivbdhlon ajnqrwvpoi" kakovn",
v. 616), male grande ("kako;n mevga",
v. 627), creatura perniciosa, o, più letteralmente, frutto dell'ate[3]
("ajthrovn[4]... futovn", v. 630), che auspica la
loro collocazione presso muti morsi di fiere (vv. 646-647) e la propagazione
della razza umana senza la partecipazione delle femmine umane.
Traduco alcune parole del "puro" folle che dà in
escandescenze:
"O Zeus perché
ponesti nella luce del sole le donne, ingannevole male per gli uomini (kivbhdlon ajnqrwvpoi~ kakovn)
? Se infatti volevi seminare la stirpe umana, non era necessario ottenere
questo dalle donne , ma bastava che i mortali mettendo in cambio nei tuoi
templi oro e ferro o un peso di bronzo, comprassero discendenza di figli,
ciascuno del valore del dono offerto, e vivessero in case libere, senza le
femmine. Ora invece quando dapprima stiamo per portare in casa quel malanno,
sperperiamo la prosperità della casa" (vv. 616-626).
Fine excursus
Cfr. Leopardi “Nasce l’uomo a fatica/ed è
rischio di morte il nascimento./Prova pena e tormento//per prima cosa; e in sul
principio stesso//la madre e il genitore/il prende a consolar dell’esser
nato./Poi che crescendo viene,/l’uno e l’altro il sostiene, e via pur
sempre/con atti e con parole/studiasi fargli core,/e consolarlo dell’umano
stato:/altro ufficio più grato/non si fa da parenti alla lor prole./Ma perché
dare al sole,/perché reggere in vita/chi poi di quella consolar convenga?/Se la
vita è sventura/perché da noi si dura?” (Canto
notturno, 39-56)
Crescono più facilmente le fiere che non hanno bisogno di
ninnoli (nec crepitacillis opus est-sonaglini,
v. 229) né di nutrici che sussurrino e balbettino,
nec varias quaerunt
vestis pro tempore caeli (231) e non necessitano di armi né muraglie (234)
Il cielo e la terra come sono ora non ci saranno più.
La terra è madre e sepolcro qodcumque alit auget,- redditur, (257-258) tutto quello che
alimenta e accresce le viene restituito
Ella è “omniparens
eadem rerum commune sepulcrum” (259).
Cfr. Shakespeare, Macbeth: “poor country,
it cannot be called our mother, but our grave (IV, 3). E’ il nobile
Ross che parla.
Ergo terra tibi
libatur et aucta recrescit (260), dunque eccoti la terra si riduce e
aumentata ricresce, poiché è evidente che tutto l’universo scorre in eterno ( assidue quoniam fluere omnia constat, 280).
Tutto è vinto dal tempo: le pietre, le torri, le montagne,
il sole, le stelle.
Denique non lapides
quoque vinci cernis ab aevo –non vedi che anche le pietre-/non altas turris ruere et putrescere saxa-sgretolarsi
le rocce-/non delūbra deum simulacraque
fessa fatisci-dissolversi affaticati cfr, 3, 458 dove animus anima e corpus
si dissolvono insieme stremati dall’età videmus
aevo fessa fatisci, /nec sanctum numen fati protollere
finis/posse- il dio santo non può protrarre i termini del fato- neque adversus naturae foedera niti? né
fare sforzi contro le leggi della natura? (306-310)
CONTINUA
[1] L. Tolstoj, Anna
Karenina (del 1877), p. 720.
[2] Il soldato rispose -tivktei-, a uno
che gli aveva domandato tiv poiei' oJ aujtokravtwr; ( Casssio Dione, 63, 10)
[3] L'accecamento mentale, una
smisurata forza irrazionale.
[4] La protagonista
dell'Andromaca fa l'ipotesi:" eij gunaikev~ ejsmen ajthro;n kakovn "(Andromaca, v. 353), se noi
donne siamo un male pernicioso.
Tocco Giovanna
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