venerdì 23 marzo 2018

Lucrezio, "De rerum natura". V libro. Parte 2




Torniamo a Lucrezio.
Il mondo per giunta è un luogo di sofferenza quid obest non esse creatum? (De rerum natura, V, 180) che danno ci sarebbe?
Dunque, se pure ignorassi l’origine delle cose, tuttavia dalle stesse vicende del cielo e dagli altri fenomeni ausim confirmare
nequaquam nobis divinitus esse paratam
Naturam rerum: tanta stat praedita culpa (198-199) che in nessun modo per volere divino in nostro favore è stata preparata la natura del mondo

La terra produce frutti solo in seguito a grandi sforzi degli uomini.
A volte le fatiche vengono annichilite dal tempo maligno
Poi c’è il genus horriferum ferarum humanae genti infestum (219), i morbi portati dalle stagioni, la mors immatura.
Il puer è ut saevis proiectus ab undis- navita (223-4), come il navigante gettato via dalle onde infuriate egli (il puer) nudus humi iacet, infans, indigus omni vitali ausilio.
Appena la natura lo ha gettato sulle sponde della vita dal grembo materno con doglie “cum primum in luminis oras-nixibus ex alvo matris natura profudit- vagituque locum lugubri complet, ut aequum est-cui tantum in vita restet transire malorum” (223-7)

Excursus A proposito di nixibus
I dolori del parto.
L’invidia e il risentimento dell’uomo.

 

Famosissimi sono questi versi della Medea di Euripide pronunciati dalla stessa protagonista eponima della tragedia:

Dicono di noi che viviamo una vita senza pericoli

in casa, mentre loro combattono con la lancia,

pensando male: poiché io preferirei stare tre volte accanto a uno scudo piuttosto che partorire una volta sola”. (248- 251).

Medea afferma di preferire la guerra al parto inaugurando un tovpo" che potrebbe essere condiviso dalle soldatesse di oggi.
Ennio (239-169 a. C.) fa dire alla sua Medea exul :"nam ter sub armis malim vitam cernere/quam semel parere, infatti preferirei decidere la vita sotto le armi tre volte, che partorire una volta sola.
Medea dunque avverte gli uomini che il parto può essere più tremendo della guerra.
Del resto il letto è il mobile più importante della casa e talora è il campo di battaglia della donna.

Le sofferenze del parto sono ricordate nell' Elettra di Sofocle da Clitennestra, quando l’adultera assassina di Agamennone tenta di giustificarsi per il trattamento riservato al marito il quale non era incolpevole: egli sacrificò Ifigenia dopo averla seminata, senza avere passato il travaglio della madre quando la partorì: "oujk i[son kamw;n ejmoi;-luvph", o{t' e[speir' , w{sper hJ tivktous' ejgwv" ( vv. 531-532).
Qui, all’opposto di quanto sostiene Apollo nelle Eumenidi, il seminare conta meno del partorire.

Nelle Fenicie di Euripide, la Corifea commenta la pena di Giocasta per Polinice dicendo:"deino;n gunaixi;n aiJ di' wjdivnwn gonaiv,-kai; filovteknovn pw" pa'n gunaikei'on gevno"" (vv. 355-356), sono terribili per le donne i parti attraverso le doglie, e tutta la razza femminile è in qualche modo amante dei figli.

Giocasta lo è stata anche troppo con Edipo; Medea evidentemente fa eccezione.
Nell' Ifigenia in Aulide la Corifea comprende la pena di Clitennestra per la figliola, ricordando quale prova terribile sia il parto:"deino;n to; tivktein kai; fevrei fivltron mevga-pa'sivn te koino;n w{sq' uJperkavmnein tevknwn" (vv. 917-918), tremendo è partorire e comporta una grande magia d’amore comune a tutte, tanto da soffrire per i figli.
Partorire dunque è una delle cose tremende (ta; deinav).
Nei Memorabili di Senofonte, Socrate, ricordando al figlio Lamprocle i benefici dei genitori alle proprie creature e il dovere della gratitudine, fa presente che “il nascimento” mette a repentaglio la vita della madre:" hJ de; gunh; uJpodexamevnh te fevrei to; fortivon tou'to, barunomevnh te kai; kinduneuvousa peri; tou' bivou" (II, 2, 5), la donna, dopo avere concepito, porta questo peso, aggravata e con rischio della vita.
In Anna Karenina c'è il parto doloroso della giovane moglie di Levin il quale partecipa, mentalmente, alla sua sofferenza, forse ingrandendola :" La faccia di Kitty non c'era più. Al posto dov'era prima, c'era qualcosa di terribile e per l'aspetto di tensione e per il suono che di là usciva. Egli lasciò cadere la testa sul legno del letto, sentendo che il cuore gli si spezzava. L'orribile urlo non taceva, si era fatto ancora più orribile, e, come se fosse arrivato all'ultimo limite dell'orrore, a un tratto si spense" [1].

Eppure molti uomini provano invidia per questa facoltà esclusivamente femminile: Nerone recitava anche in ruoli femminili, e una volta, mentre stava interpretando Canace partoriente la quale ebbe un figlio dal fratello Macareo, chiesero dell’imperatore, e un soldato rispose: “partorisce”[2].

Altri maschi hanno del risentimento nei confronti di questa creatività femminile.
Sentiamo Giasone nella Medea di Euripide :"Crh'n ga;r a[lloqevn poqen brotou;"-pai'da" teknou'sqai, qh'lu d j oujk ei\nai gevno": -cou{tw" a]n oujk h\n oujde;n ajnqrwvpoi" kakovn" (vv. 573-575), bisognerebbe in effetti che gli uomini da qualche altro luogo/generassero i figli e che la razza delle femmine non esistesse:/e così non esisterebbe nessun male per gli uomini.
Insomma il male è la femmina.

Nell'Ippolito di Euripide, il protagonista, sdegnato con la matrigna, è talmente disgustato e terrorizzato dalle donne, ingannevole male per gli uomini ("kivbdhlon ajnqrwvpoi" kakovn", v. 616), male grande ("kako;n mevga", v. 627), creatura perniciosa, o, più letteralmente, frutto dell'ate[3] ("ajthrovn[4]... futovn", v. 630), che auspica la loro collocazione presso muti morsi di fiere (vv. 646-647) e la propagazione della razza umana senza la partecipazione delle femmine umane.
Traduco alcune parole del "puro" folle che dà in escandescenze:
 "O Zeus perché ponesti nella luce del sole le donne, ingannevole male per gli uomini (kivbhdlon ajnqrwvpoi~ kakovn) ? Se infatti volevi seminare la stirpe umana, non era necessario ottenere questo dalle donne , ma bastava che i mortali mettendo in cambio nei tuoi templi oro e ferro o un peso di bronzo, comprassero discendenza di figli, ciascuno del valore del dono offerto, e vivessero in case libere, senza le femmine. Ora invece quando dapprima stiamo per portare in casa quel malanno, sperperiamo la prosperità della casa" (vv. 616-626).
Fine excursus

Cfr. Leopardi “Nasce l’uomo a fatica/ed è rischio di morte il nascimento./Prova pena e tormento//per prima cosa; e in sul principio stesso//la madre e il genitore/il prende a consolar dell’esser nato./Poi che crescendo viene,/l’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre/con atti e con parole/studiasi fargli core,/e consolarlo dell’umano stato:/altro ufficio più grato/non si fa da parenti alla lor prole./Ma perché dare al sole,/perché reggere in vita/chi poi di quella consolar convenga?/Se la vita è sventura/perché da noi si dura?” (Canto notturno, 39-56)

Crescono più facilmente le fiere che non hanno bisogno di ninnoli (nec crepitacillis opus est-sonaglini, v. 229) né di nutrici che sussurrino e balbettino,
nec varias quaerunt vestis pro tempore caeli (231) e non necessitano di armi né muraglie (234)
Il cielo e la terra come sono ora non ci saranno più.
La terra è madre e sepolcro qodcumque alit auget,- redditur, (257-258) tutto quello che alimenta e accresce le viene restituito
Ella è “omniparens eadem rerum commune sepulcrum” (259).

Cfr. Shakespeare, Macbeth: “poor country, it cannot be called our mother, but our grave (IV, 3). E’ il nobile Ross che parla.
Ergo terra tibi libatur et aucta recrescit (260), dunque eccoti la terra si riduce e aumentata ricresce, poiché è evidente che tutto l’universo scorre in eterno ( assidue quoniam fluere omnia constat, 280).

Tutto è vinto dal tempo: le pietre, le torri, le montagne, il sole, le stelle.
Denique non lapides quoque vinci cernis ab aevo –non vedi che anche le pietre-/non altas turris ruere et putrescere saxa-sgretolarsi le rocce-/non delūbra deum simulacraque fessa fatisci-dissolversi affaticati cfr, 3, 458 dove animus anima e corpus si dissolvono insieme stremati dall’età videmus aevo fessa fatisci, /nec sanctum numen fati protollere finis/posse- il dio santo non può protrarre i termini del fato- neque adversus naturae foedera niti? né fare sforzi contro le leggi della natura? (306-310)


CONTINUA


[1] L. Tolstoj, Anna Karenina (del 1877), p. 720.
[2] Il soldato rispose -tivktei-, a uno che gli aveva domandato tiv poiei' oJ aujtokravtwr; ( Casssio Dione, 63, 10) 
[3] L'accecamento mentale, una smisurata forza irrazionale.
[4] La protagonista dell'Andromaca fa l'ipotesi:" eij gunaikev~ ejsmen ajthro;n kakovn "(Andromaca, v. 353), se noi donne siamo un male pernicioso.

1 commento:

Ifigenia CLXXVIII Non è possibile entrare due volte nello stesso fiume.

  Il 20 agosto ci portarono a Visegrád, sul gomito del Danubio, dove il 20 agosto di cinque anni prima avevo passato uno dei pomeriggi...