mercoledì 7 ottobre 2020

Le figure femminili nei poemi epici greci e latini. X. Donne dell'Odissea. Calipso e la gratitudine. Enea e l'ingratitudine

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Calipso

Fin dal primo canto dell’Odissea, Atena dice a Zeus che Ulisse si trova su un'isola in mezzo alle onde , “dov'è l'ombelico del mare” - o{qi t j ojmfalov" ejsti qalsvssh", v. 50 - e vi abita una dea la quale cerca di incantarlo con dolci e seducenti parole perché dimentichi Itaca, ma egli, per il desiderio di scorgere anche solo il fumo che balza dalla sua terra, agogna morire (" iJevmeno" kai; kapno;n ajpoqrwv/skonta noh'sai - h|" gaivh", qanevein iJmeivretai", I, vv. 58 - 59).

 

Nel V canto Atena intercede di nuovo per il rientro a Itaca del suo protetto. Ricorda a Zeus che Odisseo giace soffrendo dure pene nell’isola dove Calipso lo tiene per forza ( h{ min ajnavgkh/ - i[scei, vv. 14 - 15). Il padre degli dèi si convince e manda Ermes a Ogigia perché ordini a Calipso di lasciar partire Ulisse.

 Ermes si recò nell’isola a volo (pevteto, v. 49), poi entrò nella grande spelonca (mevga spevo~, v. 57), dove abitava la ninfa dai bei riccioli: la trovò, ma con lei non c’era Odisseo il quale piangeva seduto sulla riva ( o{ g j ejp j ajkth`~ klai`e kaqhvmeno~, v. 82) , lacerandosi l'anima con lamenti e dolori, e lanciava lo sguardo sul mare infecondo versando lacrime.

 Calipso chiese a Ermes la causa della sua venuta, non senza offrirgli il pranzo ospitale e permettergli di desinare prima di rispondere.

Ermes riferì alla ninfa il volere di Zeus.

Allora rabbrividì (rJivghsen) Calipso, luminosa tra le dèe (v. 116), poi si mise a parlare. Rinfacciò agli dèi la loro invidia della felicità sessuale delle dèe con i mortali ricordando i casi di Aurora e del cacciatore Orione, che fu ucciso da Artemide[1], e di Demetra con Iasìone che venne fulminato da Zeus. 

Ora l'invidia degli dèi colpisce Calipso e gli vuole strappare Odisseo che ella aveva salvato dopo il naufragio causato dal fulmine abbagliante di Zeus. Non è giusto, ma se questa è la volontà del Cronide, ella obbedirà: lascerà partire Ulisse, e, pur se non potrà soccorrerlo, gli darà volentieri consigli e non gli nasconderà il modo di tornare sano e salvo nella sua terra (vv. 143 - 144).

Infine Ermes ripartì e Calipso andò in cerca del magnanimo Ulisse.

Quindi “lo trovò seduto sul lido: mai gli occhi/erano asciutti di lacrime, ma gli si struggeva la dolce vita/mentre sospirava il ritorno, poiché non gli piaceva più la ninfa" (ejpei; oujkevti h{ndane nuvmfh, V, 151 - 153).

 

Quattro parole per spiegare un fatto naturale colto nella sua essenzialità.

Non c’è bisogno di chiacchiere per spiegare il calo o la mancanza del desiderio.

 

Calipso gli dice che lo lascia partire, che, anzi, lo aiuterà a partire dandogli il viatico: pane, acqua, vino rosso (si`ton kai; u{dwr kai; oi\non ejruqrovn, v. 265) e vesti (ei{mata, v. 167). Odisseo è, come sempre, diffidente, ma Calipso giura sulla terra, sul cielo e sullo Stige, il giuramento più grande e terribile, che lo aiuterà con lo stesso impegno con il quale provvederebbe a se stessa poiché, dice, sono giusta e nel mio petto non c’è un cuore di ferro ma compassionevole ( oujde; moi aujth`/ - qumo;~ ejni; sthvqessi sidhvreo~, ajll j ejlehvmwn, vv. 190 - 191)

 

La nobiltà di Calipso.

E' nobile questa reazione della persona abbandonata la quale capisce le ragioni del distacco e aiuta l'amante che se ne va. Poiché quando un uomo e una donna si scambiano aiuto e piacere, se davvero sono un uomo e una donna e non due caricature di esseri umani, non può non rimanere la riconoscenza per quanto si è ricevuto e la soddisfazione per ciò che si è dato.

 

Segnalo, viceversa, il peccato che il Giobbe di J. Roth attribuisce a se stesso e alla moglie morta:" Piena di travaglio e senza senso è stata la tua vita. Nella giovinezza ho goduto della tua carne, più tardi l'ho sdegnata. Forse è stato questo il nostro peccato. Perché non c'era in noi il calore dell'amore, ma fra noi il gelo dell'abitudine, tutto è morto intorno a noi, tutto è intristito e si è rovinato"[2].

 

Vediamo l’ingratitudine e la spietatezza del “pius Aeneas” (Eneide, IV, 393) denunciate dall’abbandonata Didone

Quando Enea prepara la fuga da Cartagine, la Fama, impia , porta la brutta notizia alla donna già sconvolta (furenti , v. 298). Allora scoppia di nuovo l'incendio della pazzia e dell'amore:"Saevit inops animi totamque incensa per urbem/ bacchatur ", vv. 300 - 301, ella infuria, priva di senno, e infiammata baccheggia per tutta la città.

 

Quindi la disgraziata regina affronta Enea al grido di "perfide " (305), che echeggia il lamento dell'Arianna abbandonata di Catullo[3] , prima lo aggredisce rinfacciandogli la malafede, poi lo supplica, evocando la propria morte, invocandone il senso dell'onore, la gratitudine dovuta, e cercando di impietosirlo:" Dissimulare etiam sperasti, perfide, tantum/posse nefas tacitusque mea decedere terra?/nec te noster amor nec te data dextera quondam/nec moritura tenet crudeli funere Dido? " (vv. 305 - 308), hai sperato, perfido persino di dissimulare un così grande misfatto, e di poter andartene dalla mia terra senza dir niente? non ti trattiene il nostro amore né la destra data una volta né Didone pronta a morire di morte crudele? A proposito della data dextera si ricorderanno della Medea di Euripide i già citati vv. 21 - 22: "ajnakalei' de; dexia'" - pivstin megivsthn, reclama il sommo impegno della mano destra.

Vediamo altri tre versi:" per conubia nostra, per inceptos hymenaeos,/si bene quid de te merui, fuit aut tibi quicquam/dulce meum, miserere domus labentis et istam,/oro, si quis adhuc precibus locus, exue mentem " (vv. 316 - 319), per la nostra unione, per le nozze iniziate, se ho ben meritato di te, o se per te c'è stato qualcosa di dolce in me, abbi pietà di una casa che vacilla e deponi questo proposito, ti prego, se ancora c'è qualche posto per le preghiere. Anche questi contengono e suscitano echi . Il primo "è un'"allusione" a Catullo 64, 141 sed conubia nostra, sed optatos hymenaeos : ciò spiega le "preziosità" metriche di gusto neoterico: coincidenza della fine del secondo piede con fine di parola, cesura trocaica, lunga parola greca alla fine del verso; ma, pur con tutte le preziosità metriche, il pathos di Virgilio è più grave, più "tragico"[4].

 

Enea le risponde: "Desine meque tuis incendere teque querellis - Italiam non sponte sequor" (360 - 361). E' uno degli aspetti dell'empia pietas di Enea denunciata recentemente da Gustavo Zagrebelsky[5] 

 

 

giovanni ghiselli



[1] Poi mutato in costellazione: Cfr “Quando Orїon dal cielo/declinando imperversa,” l’incipit dell’Ode La caduta del Parini

[2]J. Roth, Giobbe , p. 141.

[3]64, 133.

[4]A. La Penna - C. Grassi, op. cit., p. 425.

[5] La pia ipocrisia di Enea eroe di regime

Una rilettura del personaggio virgiliano dall’abbandono di Didone al mito di Augusto

di Gustavo Zagrebelsky “la Repubblica” 14.5.15

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