mercoledì 8 maggio 2024

Ifigenia CLXXXI La fedeltà mal riposta. Il rimpianto della rosa bianca trascurata.

 

Il sole aveva sbaragliato le nubi. Mi tolsi la maglietta per  l’abbronzatura che va ripassata, come le lezioni. Mi guardai il petto e i fianchi. La vita da torero. Narcisetto. Sì ero snello come il giorno di Päivi cinque anni prima, come il mese di Elena dopo 8 anni: magro, abbronzato con tutti i capelli neri, niger tamquam corvus, con i carismi dell’uomo piacente, se non proprio bello, invecchiato benissimo. Sentìi una grande energia anche dentro di me.

 “Devo costruire qualcosa, assorbire la forza del sole, la bellezza del mondo e viverla, attuarla in una poēsis, una creazione educativa che sopravviva ai miei momenti di grazia. Salvare la bellezza dalla caducità. Intanto lasciar cadere i rami malati: non sostenerli con un vano dispendio di energie. Disperdere le debolezze e i vizi nati da antichi dolori che non hanno più ragione di esistere”, pensai.

 

Quindi mi allontanai dalla piazza camminando lungo la sponda del fiume secondo corrente, finché la riva divenne del tutto pulita. Giunto nel tratto mondo, lo riconobbi come quello del bagno del 1974. Un’estate, quella, piena di destino come un’opera  d’arte capace di fare epoca: mi aveva dato il viatico per la lunga strada dello studio serio, teso a imparare, a ricordare, a educare parlando e scrivendo. Päivi mi aveva reso studioso del vero e del bello. La bambina non nata mi aveva chiesto di compensarla mettendomi al servizo educativo dei figli degli altri, parlando e scrivendo.

 

Tornai nel gruppo debrecino. Ci portarono sulla collina del castello e del ristorante Silvanus dove cinque anni prima avevo cenato con Päivi, avevo ricevuto la rosa e il titolo augurale di Magister dalla studentessa Josiane di Strasburgo, giovane molto e carina,  poi avevo osservato l’estro dionisiaco di Danilo amico mio e devoto di Bacco signore del vino.

L’Ister osservato da quella collina appare incurvato tra i monti e ameno quanto il lago di Como guardato dalla Madonna del Ghisello, o il lago di Pusiano visto dal Cornizzolo, alture  dove salivo in bicicletta dopo una giornata spesa negli esami di maturità, al Parini, al Beccaria, gli ottimi licei milanesi e in altri.

Dovevo continuare a impegnarmi sul serio anche nell’ascesi somatica, acquistandone forza e voglia di vivere, voglia di fare, di attuare il meglio delle mie possibilità.

Il vento sollevava le tovaglie rosse dei tavoli, i capelli e le gonne delle ragazze. Dalle loro cosce tornite esalava un’aura, un presentimento di paradiso. Pensai a quelle mai baciate di Josiane e me ne rammaricai. 

Ero avviluppato in una rete di fedeltà a Päivi che non me l’avrebbe contraccambiata e non avevo ancora imparato come si deve La montagna incantata, altrimenti avrei osato chiederle: “Lascia che io posi devotamente la mia bocca sull’Arteria femoralis che batte sulla parte anteriore della tua coscia, o perfino: “Laisse - moi toucher dévotement de ma bouche l’Arteria femoralis qui bat au front de ta cuisse”.

 Almeno l’indirizzo avrei potuto darglielo e chiederglielo dopo il suo cortese interesse. Tanto più che una matita l’avevo e il foglio me l’aveva dato lei con la rosa bianca e la scritta “Magister, tibi”. Non mi sono mai perdonato tanta sventatezza.

 Ma temevo di fare uno sgarbo a Päivi presente e attenta alla scena.

Avevo già lasciato perdere Josiane per Elena tre anni prima. Ma questa che era incinta di un altro lo meritava. Päivi incinta di me avrebbe demeritato la mia premura.  

Quella sera al Silvanus non sapevo che un mese dopo mi avrebbe piantato senza cortesia. Il mio dogma, perfino religioso o superstizioso talora fanatico, della fedeltà in amore, poche volte è stato ricambiato.

Dovevo disincantarmi. Ifigenia non mi aveva scritto. Era il caso di trovarne le cause e trarne le debite conseguenze.

Ne avevo  a bastanza di inganni, di fregature dovute ai miei errori. Quell’estate non avevo corrisposto a Silvia, l’interessante tedesca di Berlino per mantenermi fedele a Ifigenia che tradiva le promesse fatte a me. Dovevo imparare da queste esperienze come stanno davvero le cose. Senza dogmi né pregiudizi ciechi.

Il vento scuoteva anche i capelli rossissimi, avvelenati di una turista attempata. Sembrava volere strapparli siccome innaturali. “Porterà via pure i rami rinsecchiti e prosciugherà le paludi infette, i miasmi velenosi ancora residui nell’anima mia”, pensai.

 

Bologna 8 maggio 204 ore 18, 37 giovanni ghiselli  

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