domenica 5 maggio 2024

Ifigenia CLXII Si prepara la sera dell’addio. L’imperativo categorico di non cedere mai.


 

Le due cartoline in sé non erano una gran cosa, forse nemmeno cosa autentica erano. Comunque non potevano sostituire l’espresso. Però io volevo sperare, e quel giorno sperai.

Mentre ne leggevo con avidità le lettere rosse  come i lamponi che raccoglievo e mangiavo passeggiando affamato tra i cespugli sul limitare dei boschi di Moena, mi chiedevo se Ifigenia mi amasse ancora o se volesse soltanto stare altro tempo con me. Posi termine al dilemma angoscioso, siccome era irrisolvibile lì per lì, e mi dissi: “accontentati. Per  ora va bene così”.

Se mi amasse ancoa, se mi avesse tradito, se potessi amarla dopo tutto il dolore che mi aveva inflitto, me lo sarei chiesto più avanti, dopo averla ascoltata e osservata criticamente. Intanto ero certo che l’avrei incontrata di nuovo e avrei fatto l’amore ancora diverse volte con lei. Non era certezza da poco. Le persone e le situazioni incomplete, imperfette, come siamo tutti noi mortali, mi hanno insegnato ad accontentarmi.

 

Il 16 agosto era il penultimo giorno del corso estivo: la sera ci sarebbe stato il búcsú est nel megaron della nyári egyetem.

 

Rientrai nell’università. Ogni tanto tornavo a guardare le due cartoline commosso come uno scolaro che si reca nell’aula dove potrà contemplare la ragazza di cui è innamorato seduta in un banco lontano.

Andai al bar per prendere un caffè, quindi, con il bicchiere in mano, scesi nel salone che spazia in fondo all’edificio occupandone tutta la base. Era già stato preparato per la festa dell’addio. C’erano tavoli e seggiole dappertutto tranne che nel centro di quell’ima parte della grande villa degli amori mensili dei miei ventanni lontani. Quel focolare del megaron era lasciato sgombro per le danze dei giovani che quella sera, dopo un mese di conoscenza si sarebbero scambiati baci, sorrisi e parole di amore eterno, probabilmente per l’ultima volta di questa loro vita mortale. Quasi tutti non si sarebbero visti mai più.

Mi vennero in mente le finniche mie. Le cercavo nelle seggiole vuote. Le trovavo dentro di me. Ricordai gli amici incontrati nel ’66 quando arrivai in quel rifugio consolatorio, in quella casa di cura, per la prima volta, deolato e disperato. Allora credevo di essere l’ultimo ragazzo della terra. Tutti potevano maltrattarmi e quasi tutti lo facevano.

Fulvio invece mi aiutò e anche Danilo e pure un paio di fanciulle.

Mi sembrò un miracolo. Mi salvarono. Furono baci e furono sorrisi. Un’Inglese e un’Ucraina, o Bielo russa, non ricordo. Tornai in Italia con rinnovata speme

“Oh! Bimbo semplice che fui,
dal cuore in mano e dalla fronte alta!”[1]

Poi vennero gli anni d’oro per la mia generazione: dal 67 al 74, e i corsi estivi più belli con le amicizie e gli amori più grandi, più memorabili.

Negli anni di Helena, Kaisa e Päivi insegnavo ancora alle scuole medie e le sere dell’addio mi rattristavano. Finiva il corso, finiva l’estate, finiva l’amore con quelle donne piene di significato e io dovevo tornare a una vita, a compagnie poco significative e impegnative. Potevo dire banalità e nessuno se ne accorgeva. Né a Padova né a Pesaro avevo gli stimoli forti, i colpi di sperone che mi incitavano a correre, a non cedere mai, a primeggiare sempre, cedere nescius come il Pelide del quale porto il secondo nome come auspicio e viatico alla velocità dei miei piedi e delle mie gambe..

Nell’autunno del 1978 però era arrivata Ifigenia quale supplente nel liceo Minghetti dove stavo insegnando e imparando a fondo il greco e il latino. Questa splendida giovane donna poteva scegliere l’uomo che preferiva nella fila dei suoi pretendenti e io avevo ricevuto di nuovo gli stimoli che mi obbligavano a primeggiare: nel lavoro e nello sport.

Sicché questa volta, nell’agosto del ’79, la fine del corso significava il termine di un’attesa angosciante, di una vacanza quale vuoto crudele. Sarei tornato e avrei ritrovato la vita piena conquistata con dura fatica: il lavoro, la bicicletta che pedalavo egregiamente da San Luca allo Stelvio, e soprattutto Ifigenia la collega giovane e bella che aveva lasciato il marito prestante per fare l’amore con me.

 Lei sarebbe passata come ogni cosa, come il petalo e la foglia di rosa come la pianta d’alloro, come le finniche mie, però l’imperativo di non cedere mai l’ho mantenuto dentro di me con le immagini di quelle creature ancora presenti e vive nella mia vita.

 

Bologna 5 aprile 2024 ore 17, 06 giovanni ghiselli

 

 

 

 

 

 



[1] Guido Gozzano, La signorina Felicita vv. 199-200

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