Subito dopo il 20 agosto del 1976 tornai in Italia e ripresi a studiare dalla mattina alla sera i miei classici. In ottobre fui sistemato nel liceo Minghetti di Bologna dove il preside gentiluomo Piero Cazzani mi aiutò a imparare l’arte dell’educatore. Nei ritagli di tempo nei quali mi permettevo di non studiare, scampoli davvero esigui poiché volevo conquistare anche gli allievi di questo istituto dopo quelli del Rambaldi di Imola, cercavo una donna dotata di mente, dopo la relazione insoddisfacente con la palermitana Nefertiti, e siccome a un’azione sbagliata ne succede spesso un’altra errata dalla parte opposta, entrai in contatto con una collega il cui aspetto non mi attraeva abbastanza .
Non potevo trasmetterle quello che non sentivo. Riguardo a tale carenza di attrazione le donne non si sbagliano: del resto simulare il pathos erotico è quasi impossibile, del tutto impossibile, come fingere l’erezione consentita e benedetta solo da Priapo.
Un dialogo c’era, ma non toccava mai il problema di fondo che era la mancanza di desiderio tra noi due.
Così in primavera smettemmo di frequentarci, e io nel dolore compresi che l’attrazione dei corpi non è meno importante di quella spirituale.
Ci sono due tipi di imbecilli: l’uno dice che la bellezza è tutto, l’altra che è niente. Io dico che non è poco, anzi è molto, però non è tutto.
Nel Simposio di Platone, Diotima, insegna a Socrate che Amore è la tendenza a possedere il bene per sempre (206 a) e vuole la procreazione nel bello secondo l'anima e secondo il corpo:"tovko" ejn kalw'/ kai; kata; to; sw'ma kai; kata; th;n yuchvn" ( 206 b).
Nel luglio del 1977 venne a trovarmi a Bologna Nefertiti. Facemmo l’amore, poi ripartì lasciandomi senza alcun rimpianto. Mi piaceva abbastanza ma avevamo ben poco da dirci, quasi niente.
“ Quasi quasi mi imbarco”, dissi a me stesso. Una battuta che avevo sentito in un film dove Vittorio Gassman faceva il cialtrone tanto per cambiare. Forse Il sorpasso.
Ma io lo dissi sul serio, quindi montai sulla bicicletta e mi diressi verso il porto di Brindisi per salire sul traghetto diretto alla Grecia. Era la prima volta che andavo nell’Ellade amata.
Ero con Fulvio, diventato e restato il mio migliore amico, lo spirito dei viaggi che facevamo insieme, l’occhio della via che ora mi manca-poqevw ojfqalmo;n th`" oJdou`.
Quel debutto nell’Ellade invero non andò benissimo: a San Benedetto del Tronto precipitai dal velocipede urtando con la ruota anteriore quella posteriore di Fulvio. Sbattei il petto sul duro selciato e mi ruppi una costola. Proseguìi tra dolori acuti fino a Termoli dove andai in ospedale per una visita al petto offeso. I medici mi diedero del pazzo per i tanti chilometri pedalati in quello stato e mi convinsero a lasciare la bicicletta. Proseguìi con mezzi pubblici. Vedevo Fulvio la sera.
Invalido com’ero, guardavo con invidia e ammirazione i balestrucci sfrecciare nel cielo e l’amico che arrivava in albergo dopo ore e ore sui pedali, beato lui.
Di questo primo viaggio ricordo le formiche del Peloponneso. Notai che erano grandi il doppio delle nostre e mi convinsi del tutto che il caldo favorisce e incrementa la vita. Mi piaceva molto quel calore, quel sole ardente, i colori vivi dei fiori, del mare, dell’aria.
Mi commossero le sculture del maestro di Olimpia, in particolare quelle del frontone occidentale raccolte in un Museo, allora non grande ma elevato su un colle battuto dal sole al tramonto. Rappresentano un conflitto tra il caos dei bruti e il cosmo ordinato da Apollo. Vi riconobbi la stessa storia della vita mia.
Andammo anche a Micene dove Fulvio, mentre eravamo stesi su brandine poste sulla terrazza dell’ostello sotto le stelle, ricordò l’assassinio di Agamennone e quello di Clitennestra, moglie e marito il cui sangue ancora scorre su tante coppie e non poche famiglie. Salimmo poi a Delfi, io ancora in autobus, Fulvio in bicicletta, e pregammo sull’ombelico del mondo, ciascuno per suo conto chiedendo la grazia della salute e le grazie quali fanciulle graziose. Progressi nell’ amore e nel lavoro come avrei fatto tante altre volte, non solo a Delfi ma anche a Dodona, a capo Sunio, sul Partenone, nel tempio montano e remoto di Apollo Epicurio, cioè soccorritore, e pure in altri luoghi dato che la Grecia è ancora tutta piena di dèi.
Tornato a Termoli, recuperai la bicicletta e pedalai fino a Pesaro: egregiamente. Ero guarito e mi sentivo un leone.
Secondo viaggio in Grecia, da solo
Nel luglio del 1978 feci il membro interno all’esame di maturità nel quale mi donò amicizia e affetto l’ottima collega esterna di filosofia una di Torino che mi aiutò a crescere dicendomi: “devi leggere e studiare tutta l’opera di Nietzsche”, e quando gliene domandai la ragione, rispose molto benevolmente: “Perché sei così aristocratico!”.
Siano benedetti i benevoli che ci aiutano a diventare quello che siamo, e vengano invece schivati quelli che vogliono renderci malevoli al pari di loro. Feccia triviale questa, dai brutti ceffi.
Il 2 di agosto, finiti gli esami, ripartìì in bicicletta questa volta da solo diretto al porto di Ancona per imbarcarmi sul traghetto per Patrasso. Avevo un punto di riferimento in alcuni conoscenti di Bologna che campeggiavano nell’isola di Andros. Mi recai da loro. Furono ospitali e gentili con me, però si comportavano come se fossero a Bologna: usavano nel parlare tutto il repertorio già sentito delle tipiche famiglie borghesi di questa città: gente civile ma io ero andato in Grecia in cerca di altro: mito e poesia volevo trovare, e la strada che mi avrebbe portato metodicamente all’arte e all’artistica donna che mi mancava. Il mio reperto nobile e antico doveva essere quell’armonia che rimane nascosta alla maggior parte delle persone ma è molto più forte e significativa di quella visibile ai più.
Il 9 agosto salii sull’imbarcazione che dal porto di Andros mi recava lontano da quei compagni di tenda con i quali non avevo argomenti comuni: erano tutt’altre persone dai contubernali di Debrecen, gli amici che nel 1966 mi salvarono, come ho ricordato più volte, la vita. Nel 1978 ero già salvo e felice di essere solo con la mia bicicletta, una Bianchi da corsa.
Osservavo il chiarore dei flutti spumeggianti solcati dal veicolo marino. Biancheggiava la scia del traghetto come un sentiero in mezzo a una pianura erbosa che fluttua mossa dal vento sonoro.
Sbarcai a Tenos dove volevo prendere un altro battello per arrivare a Delo, l’isola sacra che diede i natali ai due occhi del cielo. Ma le corse di quel giorno erano già tutte finite: dovevo aspettare la mattina seguente. Cercai un ostello dove pernottare con la dignità del povero ricco di spirito, fissai un giaciglio, quindi mi chiesi come impiegare sensatamente e proficuamente il resto della giornata che non volevo sprecare, cioè passare senza attività valide a potenziare il corpo e la mente.
Potevo girare l’isola liberamente, ossia senza l’obbligo che avevo avuto nella tappa precedente di presentarmi ai conoscenti di Bologna che mi aspettavano a ore, determinate da loro, per entrare in un enorme gommone motorizzato e andare stipati in cerca di baie deserte dove arrostire salsicce affumicando la luce santa del cielo. Come facevano i consumisti di Debrecen la sera che corsi via per andare a trovare Elena la donna santa quanto la luce del cielo. Se non è più sulla terra sarà una bella amante celeste nell’isola dei beati o nelle regioni del cielo, come la figlia di Zeus omonima sua.
Dopo due giorni passati con tanta noia volevo ricaricarmi di energie vitali e morali. Insomma di gioia. Sul mezzogiorno, lavati gli stracci sudati che poi distesi perché si asciugassero sopra lo zaino appoggiato sul materasso disteso nella terrazza del povero ostello, cominciai a pedalare seminudo nel sole mentre venivo accarezzato dall’aria pregna di aromi marini, vegetali e terrestri: respirandola lietamente a pieni polmoni, sentivo di partecipare a una festa della natura profumata calda e luminosa come una bella ragazza piena di salute, di forza, di vita. Le cime degli alberi, i musi degli animali, i visi umani apparivano sereni, pieni di luce, promesse e speranze.
Con gli occhi stenebrati del tutto vedevo i raggi del sole danzare tripudi vivaci sulla grande tavola liscia e violacea del mare, quindi balzare sui declivi dei monti dove li festeggiavano innumerevoli i cori delle cicale pazze di sole, dove i penduli fichi stillavano gocce capaci di moltiplicare i sorrisi del dio che nutre la vita. Mi chiedevo se ero ancora su questa terra o già in paradiso. Credetti di dovermelo meritare pedalando e riflettendo con tutta le forze di cui mi avevano dotato gli dèi i genitori, le amanti, le amiche e gli amici.
Nell’aria celeste gli uccelli cantavano inni di gratitudine alla fonte della luce divina, l’occhio del giorno d’oro, l’immagine che porta la massima significazione del Nume supremo alla nostra vista. Con le narici aspiravo i profumi soavi della terra, odorosa tutta come un frutto maturo appena spiccato dal ramo. Mi domandavo come può non essere felice una creatura nel paradiso così ben fatto dall’artista divino.
Assaporavo gli umori distillati dai raggi del sole che ravvivano tutto, e gioivo osservando i colori accesi e accentuati dalla pienezza del suo splendore.
Il mondo era bello, variopinto, caldissimo, luminoso e mi rendeva felice.
Ogni tanto mi fermavo per cogliere un’arancia sugosa, un fico o un grappolo d’uva: dolce e graditissima offerta, maturata precocemente dal calore che favorisce la vita. Non dovevo nemmeno sfiorare i miseri, pochi quattrini che mi ero portato dietro. Quindi non avevo bisogno di lavarmi le mani.
Mentre mangiavo questi doni dell’estate incoronata dai raggi del dio, pensavo ai regali ricevuti dalle donne meravigliose che avevo già conosciuto meravigliosamente. Le ho sempre considerate “borse di studio”, come le belle giornate. Ero sicuro che altri premi ci sarebbero stati dopo una vacanza talmente santa.
Ringraziavo la madre terra femmina felix e generosa , poi riprendevo a pedalare su e giù per le strade dell’isola. Ascendere le impervie salite eliminando gli umori cattivi, acquistando la forma corporea più bella possibile, e la mente serena quanto il cielo, era una gioia: mi sembrava di salire per una scala i cui gradini portavano alla Mente dell’universo; ed ero felice mentre mi lanciavo giù per le rapide discese rinfrescando il volto e il petto con i fiotti veloci dell’aria pur calda sulla pelle abbronzata: mi sentivo armonizzato con l’opera creata dall’artista divino dove avevo la fortuna di essere vivo del tutto, lontano e diverso dagli sdilinquiti borghesi che arrostivano grassi cadaveri di animali nelle baie sassose ottenebrando la luce del sole o la cristallina purezza della notte lunare.
Delo. Mykonos. La piana di Maratona. Il toro di Teseo. Ceffi di cani feroci. Agamennone e Ifigenia.
La mattina seguente mi imbarcai per l’isola sacra dove aprirono gli occhi il dio luminoso dall’infallibile arco d’argento e sua sorella, la dea cacciatrice dalle fiaccole ardenti. Il traghetto solcava il mare e l’aria mattutina dai tenui colori: i raggi del sole obliqui, leggeri, scuotevano graziosamente le chiome d’oro ancora umide e preparavano i meridiani tripudi alzando ritmicamente le caviglie sottili sui bianchi fiocchi di spuma che la chiglia metallica sollevava dal cupo fondo della distesa marina, come un aratro fa uscire dalla crosta terrestre zolle nere a imbiancarsi di luce.
Quando fui sbarcato a Delo, pregai i divini fratelli Artemide e Apollo di farmi avanzare con passo sicuro verso la pienezza della vita e il compimento del destino, quello che solo era, ed è, il mio.
Dopo avere girato la piccola isola devota mente a piedi, nel pomeriggio mi imbarcai verso l’Attica verde di olivi. Il battello però fece una sosta pur troppo lunga a Mykonos. Rimasi quasi assordato dai suoni rumorosi e dagli striduli strepiti di giovani che auspicavano piaceri carnali osceni per dare sfogo alle loro passioni malamente protese. I bottegai beati approfittavano di questa folla gonfiando i prezzi della volgare bigiotteria esposta dovunque e delle bevande alcoliche tracannate senza soste da tale masnada.
Verso mezzanotte il battello finalmente partì. Arrivò a Rafina sulla costa nord orientale dell’Attica verso le tre. La notte era ancora fonda: dormivano i variopinti uccelli del cielo, gli animali terrestri e i muti pesci del mare. Avevo sonno anche io ma a quell’ora non era possibile trovare una stanza né un materasso su una terrazza sotto la luce della dea casta: Artemide, Diana o Iside come la chiamavano gli Egizi ricchi di antica dottrina[1]. Sicché mi imposi di volere un’azione che avesse qualche cosa di eroico. Dovevo meritare il mio fato. Aspettai che l’Aurora avesse iniziato ad accarezzare le cime dei monti con le sue dita rosèe. Quindi montai sulla bicicletta fidata e la diressi contro il vento che spirava con forza dalla combattuta piana di Maratona: pensavo all’eroica pugna degli Ateniesi contro il barbaro stuolo invasore e anche allo scontro di Teseo, magnanimo vincitore di mostri, e pur seduttore seriale e malfido di femmine umane giovani e improvvide , alla sua lotta vincente con il toro feroce: i soffi contrari, simili a sbuffi di bestia infuriata, offrivano esca al ricordo. La lotta tra il mostro e l’eroe mi saltò davanti agli occhi assonnati che si spalancarano tosto quando tre mastini magri fatti appositamente inferocire dalla fame e da un addestramento omicida sbucarono da un tugurio per lacerarmi e cavarsi la voglia di carne di sangue e di morte: la mia. Mi inseguivano ringhiando orrendamente con le fauci spietate da dove uscivano denti lunghi e forti da fare spavento, certamente letali se mi avessero acchiappato. Giunto sul crinale della morte correvo il rischio di precipitare nel suo baratro e finire sepolto nelle tombe vive costituite dagli stomaci quei tre terribili mostri.
Pedalavo con tutta la forza coltivata fin da bambino sui colli di Pesaro, poi a Bologna su per San Luca, a Moena sul san Pellegrino, sullo Stelvio da Bormio e da Prato e viceversa, forse immaginando che prima o poi tale ascese mi avrebbero salvato la vita. Fin da piccolo avevo imparato che nessun male è tanto remoto da non incontrarlo: la sventura è versatile e può giungere ovunque. Pedavavo sulla mia sorte come sul filo di un rasoio.
Finalmente mi trassi in salvo dai morsi dei tre maledetti ceffi bestiali, i maledetti cani infernali che ringhiavano rabbiosamente quali Chere odiosissime aralde di morte. I cani male educati e trasformati in armi improprie da padroni sanguinari mi hanno sempre fatto paura. Molti sono gli animali terribili e nessuno è più tremendo del cane aizzato a uccidere.
Anche nell’ultimo viaggio in Grecia compiuto nell’agosto scorso ho rischiato di morire per cani: 4 di queste bestiacce immonde grandi e arrabbiate mi hanno circondato mentre camminavo su una strada trafficata di Egion diretto alla marina. Ho cercato salvezza nella fuga ma quegli orribili animali volevano il sangue mio e mi correvano dietro. I loro denti assetati erano già vicini ai miei polpacci torniti quando si fermarono alcune automobili lungo la strada e degli uomini usciti dalle macchine mi salvarono spaventando quelle bestie feroci e vili che attaccano in gruppo la persona isolata. Ho benedetto i miei salvatori. Una conoscente cinofila ha detto che non avrei dovuto provocarli guardandoli negli occhi. Dovevo abbassare la testa e girare al largo: camminare sul lato sinistro della strada invece di passeggiare colpevolmente proprio sul destro dove erano in agguato i cani dietro degli alberi. Se fossi morto me la sarei cercata, quasi meritata da parte di quelle innocenti, deliziose bestiole.
Tanto la propaganda animalista rende torta la mente!
A me piacciono i gatti come creature silenziose, eleganti, indipendenti. Quando lo dico c’è chi mi taccia di perfidia e crudeltà dicendo: “brutto segno!”. Mi piacciono i gatti perché li assimilo alle donne. I cani mi fanno pensare piuttosto a uomini violenti, sudici, cretini, rumorosi. Pericolosi o noiosi.
Uccidere gli animali è un delitto e sostenere che l’uomo non vada difeso e protetto da chiunque, uomo-bestia, o bestia senz’altro che voglia ucciderlo, è un’offesa alla mia umanità. Ma ora è di moda. So che questo mio essere misocino o cinemiso, relativamente ai cagnacci grossi e infuriati, mi creerà antipatie da parte di quanti mi leggono, ma d’altra parte mi sento in dovere di mettere in guardia da questo pericolo. Tra l’altro se si giustificano cani e orsi che uccidono gli umani e donne che passeggiano o corrono trasognati, si potrebbe arrivare ad assolvere i criminali pazzi che ammazzano le donne dicendo che le sfacciate li hanno provocati. Come ho fatto io con i cani guardandoli terrorizzato e scappando invece che abbassare la testa e chiedere scusa di camminare nella pubblica strada.
Ma torniamo al 1978. Quindi rivolsi lo sguardo alla santa e bella faccia di luce inclinata a benedire e ravvivare la terra, all’immagine significativa del Bene supremo, insomma di Dio. Lo ringraziai per lo scampato pericolo e giurai che non sarei impallidito nell’ombra né avrei preso puzzo di muffa ma sempre avrei venerato il suo nume che oltretutto migliorava il mio aspetto con un sano colore bronzato. Poi girai verso sud la bicicletta. Il vento soffiava dal mare. Pedalavo con sonno e fatica. Pensavo alla flotta cui gli dèi invidiavano la partenza dall’Aulide.
Ricordavo con memoria lucida, rabbrividendo, il prezzo che il prete supremo aveva chiesto al capo supremo, il gran duce dei Greci.
Quindi mi identificavo con Agamennone cercando di cambiare il destino: volevo salvare la figlia che per prima mi aveva reso felice chiamandomi babbo. In quel momento non pensavo che nemmeno Zeus può sfuggire alla parte assegnata dal fato2. Volevo che Ifigenia, la mia creatura più cara, non venisse sacrificata.
Continua
Note
[1] Prisca doctrina pollentes Aegyptii (Apuleio, Metamorfosi, XI, 5).
2 Cfr. Eschilo, Prometeo incatenato, 518
Bologna 15 maggio 2024 ore 17, 44 giovanni ghiselli
p. s.
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[1] Prisca doctrina pollentes Aegyptii (Apuleio, Metamorfosi, XI, 5).
2Cfr. Eschilo, Prometeo incatenato, 518
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