Celebra di nuovo la gara vinta dal carro di Terone alle Olimpiadi del 476.
L’Olimpica I invece celebra la vittoria del cavallo montato Ferenìco mandato da Ierone di Siracusa nello stesso anno.
Ad Agrigento era vivo il culto di Elena e dei sui fratelli Dioscùri, Castore e Polluce. Elena e Polluce erano figli di Zeus, Castore di Tindaro, ma Polluce gli aveva donato parte della propria immortalità. Questa Olimpica III viene composta per la festa delle Teossénie-ta; qeoxevnia cui partecipavano Elena, Polluce e Castore come si legge nell’Elena di Euripide 1667-1668. Era una festa analoga ai lectisternia o pulvinaria romani con banchetti dove c’erano posti riservati agli dèi.
Con Elena e i Doscuri vengono celebrati anche Terone e la città retta da lui kleina;n jAkravganta, l’inclita Agrigento
cfr. klevo~- rinomanza, kluvw, clueo, sento dire di me, ho fama, sono reputato.
Nel primo verso della Pitica XII Agrigento è invocata come kallivsta brotea`n polivwn- bellissima tra le cittò mortali.
Ma veniamo al testo dell’ Olimpica III
Strofe 1
Pindaro chiede pregando di piacere ajdei`n ai Tindaridi, Castore e Polluce, ufficialmente entrambi figli di Tindaro, amici degli ospiti-filoxeivnoi~ e ad Elena belle trecce- kalliplokavmw/
Il nome Elena
Nel secondo capitolo del Doctor Faustus di Thomas Mann l’io narrante
Serenus Zeitblom si presenta come dottore in lettere e professore di latino greco e storia di un ginnasio-liceo e dice di avere preso moglie poco dopo l’assunzione nella scuola a ventisette anni guidato a questo passo da un bisogno di ordine e di inquadramento morale nella vita umana.
Spiegava agli studenti che “la civiltà consiste nell’inserire con spirito ordinatore i mostri della notte nel culto degli dèi”. Sposò dunque una ragazza di nome Helene: “confesserò che il nome della fresca fanciulla, il caro nome di Helene, non fu l’ultimo argomento che determinò la mia scelta. Un nome siffatto è circondato da un alone sacro (…) anche alla nostra figliola abbiamo imposto il nome Helene” (p. 14 e p. 15)
Pindaro vuole erigere-come una statua- un inno quale fiore –a[wton- dei cavalli dai piedi infaticabili. La Musa sta vicino al poeta che ha trovato euJrovnti un verso, un modo dal nuovo splendore neosivgalon trovpon di adattare il suono della voce, di intonarla- ejnarmovxai- al ritmo dorico- Dwrivw/ pedivlw/.
Neosivgalon: poeta deve essere il “Trovatore” di novità.
Il termine pevdilon, calzare, fa pensare al passo di danza accordato al ritmo
"Al canto più nuovo, la lode più alta", dice Telemaco nel primo canto dell’Odissea ( 351-352) e Pindaro nell’ Olimpica IX scrive:
ai[nei de; palaio;n me;n oi\non, a[nqea d j u{mnwn-newtevrwn" (antistrofe 2) loda il vino vecchio, ma fiori di canti sempre nuovi.
Bologna 19 maggio 2024 ore 11, 37 giovanni ghiselli
p. s
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