Il giorno seguente, 18 agosto, ci portarono a Miskolc. Ci fecero entrare in una grande taverna fredda e poco illuminata. L’ebbrezza dei presenti non raggiungeva significati accostabili alla letteratura o alla religione come quelli dell’amico Danilo. Mi venne in mente la caverna platonica. Appena potei, ne venni fuori, bramoso di cielo e di sole.
Quando fui nella luce, notai gli alberi dalle fronde brillanti, il fieno tagliato e ammucchiato che emanava profumi, e mi commossi come nel febbraio dell’anno di mia salvazione 1971 quando, dopo quaranta giorni di car avanzato dentro la caserma, ci portarono fuori in un camion aperto e vidi il ginocchio benedetto di una ragazza che pedalava una bicicletta. Si andava a Vignola con per sparare. Piangevo alle prime luci dell’alba. Un commilitone mi domandò se stessi male. “No, sono felice” risposi, “ho visto il ginocchio di una donna”. “Ti basta poco” -fece lui allora-magari però pensavi sopra la coscia: quella sì che è buoma”. Uno spirito da caserma che non mi offendeva. Era sempre volgare ma quasi mai scemo. Sapeva spesso di vita. Poteva correggere il mio che sapeva troppo di libri.
Anche lì a Miskolc mi vennero le lacrime agli occhi. Sentivo la vita, come alla vista di quel ginocchio rotondo di femmina umana. Ero rimasto rinchiuso per le settimane del CAR senza vedere alcuna donna.
Afferai, annusai e baciai una manciata di fieno odoroso. Ne piansi al lume del sole che esaltava i colori.
“Uscire dalla caverna-pensai-è ritrovare la voglia di amare e la capacità di essre contraccambiati.
La pigionia nell’antro buio e freddo è quella dell’egoismo: è l’inferno di non potere amare. Visione di paradiso quella mattina lontana fu la vista fugace di un ginocchio che pedalando si sollevava. Presagio del luglio felice quando avrei incontrato Elena pochi mesi più tardi.
Salìi su un piccolo colle alberato. Speravo di vederne scendere una ragazza dalle rotondotà belle: dal seno in altorolievo e callipigia magari
Un vento caldo, come di primavera avanzata, muoveva le foglie. Chiedevo presagi. Vidi una donna bruna, ma aveva i calzoni fino alle caviglie. Niente cosce dunque, nemmeno un ginocchio, però questa primavera rinnovata in agosto può compiere i benefici di tutta la buona stagione. “Splendidi frutti maturi e saporosi le trentenni” pensai.
Se Ifigenia non avvizzisce prima, ci comunicheremo l’uno dell’altro, come di Gesù.
Camminando per un sentiero
sghembo sbucai in un cimitero campestre. C’era anche una chiesa. Le campane si
misero a suonare. Mi venne in mente una biondina francese in corriera che nel
1966 cantava
« Frère Jacques, Frère
Jacques,
Dormez-vous? Dormez-vous?
Sonnez les matines! Sonnez les matines!
Ding, dang, dong. Ding, dang, dong ».
Mentre cantava, guardava me che ero desolato assai in quel tempo.
E mi sorrise. Miracolo grande e grande conforto ne trassi. Per sempre.
La benedico ancora. Sempre da allora. Dal cimitero e dalle campane volli trarre un segno: “dicono che devo iniziare a scrivere prima che sia già vicina l’ora dell’eterno riposo. Fassbinder e Wenders sono del ’45 e hanno già fatto tanto. Io sinora ho dovuto cercare le donne e trovarle per riprendermi dalla desolazione, del rinnegamento di me stesso, ma adesso devo procedere sulla via dell’arte che loro mi hanno indicato”.
Il vento caldo muoveva l’erba di una radura, come le mani mie cupide accarezzavani i capelli neri di Elena, di Kaisa, di Ifigenia e quelli rossi di Päivi . Entrai nel prato privo di alberi. Le rondini nere con i petti bianchi sfioravano l’erba illuminata dai raggi radenti del sole calante.
“Il prossimo inverno-pensai-forse verrà di nuovo in camera mia, nel talamo nostro e si spoglierà: le sue chiome faranno risaltare il petto bianco. E io scriverò”
“Quando faciam uti chelidon, ut tacere desinam?” Inizierò presto il mio capolavoro
Bologna 7 maggio 2024 ore 17, 13 giovanni ghiselli
p. s.
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