La mattina seguente, abbandonata la figlia al suo destino che comunque non avrei potuto stornare, mi diressi verso il mare
A mezzo il giorno pedalavo con lena costeggiando già il sinus Corinthiacus. Il vento soffiava sulle mie spalle e accelerava il moto circolare delle gambe e della bicicletta.
Mentre pensavo a scafi che spinti dal vento di poppa solcano il mare velocemente, mi accorsi che un nave diretta a Patrasso si muoveva nel golfo più veloce della bicicletta pedalata da me. Era un segno. Decisi di accettare la sfida. Dovevo vincerla, se non volevo perdere niente dell’autostima conquistata girando la Grecia sulla bici da solo. Avevo perfino cambiato il tubolare, impresa per me assai più difficile che salire sull’Ossa sovrapposto al Pelio, al Parnaso e all’Olimpo, montagne che avrei scalato senza difficoltà, mentre a tubolari e masticione non mi sarei accostato mai più. Nei viaggi successivi ci avrebbero pensato i miei demoni buoni, quegli angeli di Maddalena e Alessandro mentre con Fulvio parlavo dei Troiani, di Atene e di Roma.
Il veicolo marino però mi aveva raggiunto: se mi avesse superato la sconfitta avrebbe tolto qualcosa alla mia identità di ciclista tornato a essere egregio dopo la discesa all’inferno di quindici anni prima.
Mi diedi a pedalare freneticamente pensando:
“facilis descensus Averno (...) sed revocare gradum superasque evadere ad auras,/..hoc opus, hic labor est” [1] Mentre superavo la nave, questa mandava muggiti terribili come una vacca o un toro, la maxima victima colpita dalla scure del sacrificio. Allora raddoppiai la lena. Il gemito della bestia mugghiante si allontanava e affievoliva. Arrivai a Patrasso con un vantaggio di cinque minuti e 48 secondi. Il giro dell’Ellade era finito e l’avevo vinto.
Una vittoria davvero olimpica. “Non c’è un agone superiore a questo”, pensai.
Salito sul traghetto del ritorno sedetti a poppa e mentre Patrasso si allontanava gridai: “allentate la gomena del ritorno in Italia, sbrigatevi voi della ciurma, non fatemi perdere tempo. Mi aspetta la Kore!”
Un marinaio turco-cipriota mi passò accanto sghignazzando e ruotando pupille feroci, di Gorgone. Forse voleva darmi del mentecatto, ma si astenne dal ferirmi con gli aculei avvelenati della sua lingua. Due anni più tardi sarei tornato nell’Ellade non senza la kore reale, Ifigenia, in automobile dopo una Debrecen con lei, poi, l’anno seguente, nell’81 saremmo andati entrambi a Delfi, l’ombelico del mondo, in bicicletta per chiedere responsi alla Pizia sul nostro destino.
Nota
5 Nel VI canto dell’Eneide (vv. 126-129), la Sibilla cumana ammonisce: “ Enea facile è la discesa all'Averno; di notte e nei giorni è aperta la porta del nero Dite; ma risalire la china e riuscire nell'aria del cielo, questa è l'impresa, questa è la fatica”.
Fine del viaggio in Grecia del 1978
Bologna 17 maggio 2024 ore 10, 17 giovanni ghiselli
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[1] Nel VI canto dell’Eneide, la Sibilla cumana ammonisce Enea:"facilis descensus Averno;/nocte atque dies patet atri ianua Ditis;/sed revocare gradum superasque evadere ad auras,/hoc opus, hic labor est" (vv. 126-129), facile è la discesa all'Averno; di notte e nei giorni è aperta la porta del nero Dite; ma risalire la china e riuscire nell'aria del cielo, questa è l'impresa, questa è la fatica
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