Pedalare fantasticando e ricordando alcune tragedie greche.
Fantasticavo. Erravo non lontano dalla gioia. Volevo che la luce della gioventù della creatura mia prevalesse sulla tenebra della superstizione. Dato il mio ruolo di capo supremo, potei sottrarre Ifigenia all’empio proposito del prete malvagio.
L’avevo rapita all’avida morte: la vedevo danzare, cantare e sorridere sulla riva ventosa del mare ondeggiante.
Questa gara dovrà sottostare alla mia volontà di vita-pregavo- tu dammi propizio l’evento.
I ciottoli sotto l’acqua vicina alla riva scintillavano come cristalli. Api vellutate giravano intorno alle arance. Il sole sfolgorante circonfondeva tutto.
Ifigenia cercava di propiziarsi gli dèi che, pietosi, ci avevano offerto l’occasione di quella felicità. Dolce aleggiava il suo canto e i movimenti avevano l’armonia del cosmo creato dalla sapienza dell’artista supremo.
Le parole mi fiorivano dentro e dicevo a mia figlia venuta vicino:
“Inevitabile è il viaggio di ritorno a Micene. Io e tua madre detestiamo la guerra. Vogliono farla per amore di rapina e di stupro. Ma io amo te figlia mia. Non mi importa niente della conquista di Troia, della vittoria sui barbari né del potere sui Greci: solo tu mi stai a cuore principessa: la tua vita che porterà avanti la mia, il tuo volto ridente, la tua gioia, il tuo amore. Torneremo insieme alla nostra inespugnabile rocca dove daremo gioia anche alle tue sorelle[1], a tuo fratello, a tua madre. Questa è la ritirata dei forti, non è viltà. Torniamo nella patria nostra”.
Ma le mie parole rimasero senza effetto: “ Ifigenia aveva mutato disposizione d’animo. Inopinata e improvvisa come una dea.
Rispose: “No, padre. A Micene tu farai convocare l’assemblea dei cittadini, poi annuncerai che la tua pimogenita vuole morire per la libertà dell’Ellade intera. Lascia che io salvi la Grecia. Il popolo vuole tali esempi da noi. Se non trovassimo il coraggio e la forza di darli, come potremmo pretendere di essere considerati i migliori? Io devo morire e lo voglio, non perché non ami la vita e sia stanca di vedere la bellissima luce del sole, ma perché amo la mia identità di ragazza dall’anima nobile ancora più della vita. Tu stesso, padre, mi hai educata a sentire così altamente”.
Non potei dissuaderla. Dovetti sottoporre il collo al giogo ferreo della Necessità.
Ottenni soltanto che all’assemblea convocata dentro la rocca possente della nostra Micene fosse lei stessa ad annunciare il proposito suo e ne avesse intera la gloria.
Sapevo che i poeti l’avrebbero cantata per sempre.
Tornato in me, recitai a memoria qualche verso ispirato a Eschilo, a Euripide, a Lucrezio, dalla mia creatura più cara.
Sapevo che vivono più a lungo delle pur nobili gesta le parole se sono tirate fuori da un sentimento profondo e hanno il favore tanto delle Muse quanto delle Grazie.
Quindi ripresi a sognare pedalando e pensando che la madre forse non avrebbe capito il sacrificio volontario della nostra figliola. L’avrebbe considerato un empio delitto voluto dal prete empio e dai duci ambiziosi dei Danai d’accordo con me.
Dovevo impedire che la furia materna arrivasse a sciupare l’eoico gesto voluto dall’anima nobile della nostra figliola innocente e non renitente.
Uscito dall’estasi un’altra volta, tornai in me e recitai questi versi di Sofocle dove Clitennestra ricorda a Elettra l’assassinio di Ifigenia quando dice alla figlia superstite, ostilissima a lei, che è stata Dike ad ammazzare Agamennone.
Io partorii quella ragazza con dolore; lui l’ha solo seminata.
“ejpei; path;r ou\to" sov", o{n qrhnei'" ajeiv,
th;n sh;n o{maimon mou'no" JEllhvnwn e[tlh
qu'sai qeoi'sin, oujk i[son kamw;n ejmoi;
luvph" o{t j e[speir j , w{sper hJ tivktous j ejgwv (Elettra, 530-533)
poiché tuo padre che piangi sempre, osò, lui solo tra i Greci, sacrificare agli dèi una del tuo stesso sangue, senza avere sofferto quando la seminava, la pena del parto come ho fatto io nel metterla al mondo.
Avevo pedalato per parecchi chilometri fantasticando e ricordando. Non sapevo che in autunno avrei conosciuto meravigliosamente una Ifigenia in carne e ossa; anzi pensavo alla bambina non nata siccome sacrificata allo studio e alla carriera da Päivi, e in nessun modo difesa da me.
“deino;n to; tivktein ejstivn (v.770), tremenda cosa è il partorire! Citai ancora gridando. E perdonai la finnica che mi aveva negato la figlia.
.
Il tempio di Brauron. La preghiera alla dea casta.
Procedevo lungo la costa orientale dell’Attica, diretto al promontorio meridionale. La strada era discosta qualche chilometro dal mare da dove provenivano i soffi di un vento furioso. Pedalavo chino sul manubrio e abbarbicato alla bicicletta per non essere gettato a terra dove avrei battuto la testa, sarei rimasto privo di sensi e mi avrebbero finito dei cagnacci affamati acceffandomi senza pietà, ne ero sicuro. Ho sempre temuto la morte per cani.
A un tratto vidi un cartello che indicava il tempio di Brauron. L’avevo sentito menzionare da Euripide ma non ricordavo in quale tragedia. “sono i prodromi dell’alzaheimer” pensai e ne fui terrorizzato. Quindi sussurrai: “presto sarà tempo di dire: nunc dimittis servum tuum Domine” .
Non potevo rassegnarmi a tanta smemoratezza: non avevo nemmeno bevuto l’acqua del Lete. Ho sempre avuto una memoria più che terrena e il laqevsqai mi pareva il maximum scelus , un segno di morte. Sicché ce la misi tutta per tirare fuori il ricordo dalle pagine di Euripide . Appena me ne sovvenni, mi sentìi salvo. Si tratta della cara tragedia Ifigenia in Tauride quando Atena ex machina ferma l’inseguimento del barbaro re Toante e salva i fratelli figli di Agamennone e Clitennestra, preannunziandone le sorti. La ragazza dovrà custodire le chiavi del tempio di Brauron dove morirà e avrà sepoltura. In quel tempio Ifigenia avrebbe ricevuto l’ornamento dei pepli e dei tessuti che le donne morte di parto lasciano nelle loro case.
L’onore della mia memoria, il mio stesso onore e la vita, tutto era salvo, tranne la mia bambina, quella che Päivi aspettava. Dovevo sostituirla in qualche maniera. Con rinnovate forze misi la bici per un sentiero sassoso pedalando a fatica contro i soffi del vento che veniva dal mare e mi gettava aspri granelli di sabbia negli occhi già oberati da trenta ore di lenti a contatto. Ma lì tutto era santo. Infatti ero diretto al santuario dove le spoglie della la mia creatura prediletta sarebbero rimaste per sempre protette dalla dea cacciatrice. Giunsi sulla riva del mare dove sorgono le colonne del tempio. Il vento orientale, lo stesso che più a nord ostacolava la partenza dal golfo di Aulide, sembrava inteso ad abbattere le sgretolate colonne. Non ci riusciva però. Invece scuoteva le chiome dei pini e i capelli della mia Ifigenia che profumavano mandando al cielo dolci odori e ingentilendo l’aria salmastra e rendendola più delicata. Guardavo mia figlia: bella, bruna, vivace: aveva negli occhi un’espressione ispirata, sulle labbra un sorriso di risoluta fierezza. Aveva deciso di dare la vita per l’Ellade intera guidata da me.
Pregai la dea cacciatrice con gli occhi bagnati di umore congiuntivale e di pianto: “O casta dea che non puoi volere il sangue innocente di questa creatura mia, salvala dal ferro del sacerdote infernale. Ritengo che l’empio Calcante, essendo lui un assassino, attribuisca a te la sua crudeltà. Ifigenia non è renitente al fato: non vuole essere salvata da me e nemmeno da Achille. Salvala tu, potente signora della natura, dopo che la mia ragazzina ha dato il suo assenso al sacrificio di sé per amore della Grecia. Artemide salva la vergine Ifigenia. Lei ti somiglia!”
Il luogo era deserto e potei piangere le lacrime dolci che mi diedero, come sempre, una strana consolazione. Sazio di lacrime, ripresi a pedalare. Ero quasi felice.
Bologna 17 maggio 2024 ore 11, 17 giovanni ghiselli
giovanni ghiselli
p. s
“Strana consolazione” dunque. Ne ho ancora bisogno. Questo è il maggio più freddo e buio della mia vita. Non ostante il riscaldamento globale. Siamo infreddoliti, assediati dalle menzogne della pubblicità e delle propagande. La violenza organizzata non viene impedita nemmeno dalle scorte dei capi di governo .
La mia consolazione sta nel leggere e nello scrivere.
“La parola è la chiave fatata che apre ogni porta” ha scritto don Lorenzo Milani. Cerco di crederlo anche io. Con le mie donne migliori ha funzionato. Con i miei discepoli anche e pure con i miei lettori
Ecco quanti siete
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[1] Nell’Iliade (IX, v. 145 e v. 287 ripetuto da Odisseo) Agamennone dice di avere lasciato nella sua casa ben costriuita tre figlie: Crisotemi, Laodice, Ifianassa. Vero è che la vicenda di questo sacrificio è raccontata da Euripide ma io uso sempre diverse fonti, poiché, come scrive Leopardi, è moltiplicando i modelli che si raggiunge l’originalità” (cfr.Zibaldone , 2185-2186.)
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