Ifigenia arrivò con la solita aria contenta, invitante, tanto che mi diede il coraggio di chiederle a bruciapelo se volesse venire subito a casa mia.
“Andiamoci tosto!”, rispose senza esitare, anzi con allegria.
Durante il percorso in automobile ci fu un leggero imbarazzo nell’attesa dell’evento fatale che poteva cambiarci la vita, forse in meglio. Facevamo commenti inutili sullo stato del tempo che non era buono: scendeva una fredda pioviggine da un cielo basso e tetro assai. Quando fummo entrati in casa, per prima cosa la guidai nello studio. Qui le indicai i miei non pochi libri di letteratura, storia, filosofia, religioni, arte, per un tempo non breve, come se lo scopo della visita fosse la biblioteca del bravo collega. Invece avevamo già deciso entrambi di entrare nel mio letto quel pomeriggio stesso. Il tempo a sua disposizione non era più lungo di tre ore, sicché sedetti presto sul divano posto di fianco al tavolo grande dei miei assidui lavori, la guardai con aria invitante e distesi verso di lei le braccia con le mani aperte, pronte ghermire la deliziosa ragazza. Mi stava davanti, in piedi: teneva la mano sinistra appoggiata sul tavolo e la destra aderente alla coscia meravigliosa. Mi osservava fissamente, con curiosità. Nella sua posizione eretta, immobile e un poco rigida, nel volto pallido orlato dai folti capelli neri e animato da un sorriso sottile eppure profondo nel senso che sgorgava dai penetrali del corpo e dell’anima, nella veste lunga e piegata come la colonna scanalata di un tempio, c’era qualcosa di religioso e di antico, o per lo meno io lo vedevo in quel momento solenne: mentre la guardavo ammirato mi venne in mente una Kore attica chiusa nel peplo, statica e intangibile, ma dalle labbra vibranti di vita e prossime a schiudersi per manifestare un pensiero magari desideroso di essere toccate. Dopo qualche istante di contemplazione muta, le domandai se avesse paura di posarsi accanto a me sul divano. Rispose che non ne aveva e sedette abbastanza vicina. Le presi la mano destra, gliela accarezzai, la baciai, poi le baciai la bocca. Quindi le dissi: “ andiamo di là”. Ci alzammo senza dire altro e facemmo il nostro ingresso nella stanza del letto. Ci stendemmo trasversalmente, in fondo al talamo grande, vestiti. La baciai di nuovo, quindi le domandai se preferiva svestirsi senza che io la guardassi
“No. Anzi: spogliamoci subito insieme e nel farlo osserviamoci bene a vicenda perché questo momento è epocale, segna l’inizio di un’era nuova delle nostre vite e noi siamo felici come non lo siamo mai stati. Io almeno non sono mai stata tanto piena di gioia”
“Nemmeno io”, la assecondai con laconica brevità.
Cominciammo con l’osservarci attenta mente a vicenda. In quel pomeriggio lontano non temevo di fare brutta figura siccome ero, e mi sentivo, nella forma migliore. Sicché potei godermi la scena della splendidissima giovane che si spogliava, mentre io, meno giovane e magnifico tuttavia non proprio privo di ogni lepòre, mi denudavo davanti a lei. A mano a mano che Ifigenia si svestiva a festa, mi sembrava che fosse la santa forza del sole a scoprirsi dalle nuvole invide, a mostrarmi il bel volto radioso e mi invitasse a osservare e adorare debitamente il suo lume , il suo nume.
La ragazza era snella, compatta, fiorente e diffondeva davvero la luce beatificante nella stanza già aduggiata dalla sera autunnale che rapidamente calava sulla fosca, turrita e porticata Bologna.
Ifigenia si tolse tutto, senza scatti, morbidamente e quando ebbe finito, prima di me, attardato dal desiderio di contemplarla, si fermò a guardarmi. Il suo corpo eretto, slanciato, eppure già un poco incline a scivolare sul grande letto dei tripudi desiderati, mi fece venire in mente un’altra scultura sacra, ieratica e antica, però meno severa e statica dell’attica Kore con il peplo; così nuda e ondulata, mi ricordò la prassitelica Afrodite Cnidia dalle forme flessuose, candide e palpitanti alla luce, e, in più, oltre la divina armonia, nella carne della mia amante a portata di mano, c’era la natura viva, la vita fiera di sé, tanto che mi riempivo di orgoglio nel contemplare una creatura siffatta, nuda accanto al mio letto, come se avessi avuto la forza di portare nel talamo tutta la bellezza dei Musei della terra, e il rincuorante sole di primavera, e i prati della valle di Fassa coperti dall’erba alta e dai fiori coloriti del mese di giugno, e pure l’innumerevole sorriso delle onde marine che luccicano riflettendo i raggi del sole o della luna e li muovono a danza in arcano accordo con i passi delle Nereidi che fanno girare rapidamente gli agili piedi imprimendo piccole orme leggere sul fondo sabbioso dell’abisso marino.
Ifigenia insomma stenebrava l’intero spirito mio e mi riempiva di gioia non solo con la propria figura ma con tutte le immagini di sovrumana bellezza che la sua venustà santa evocava. Al suo sorriso corrispondevano il cielo e la terra e le salse onde del mare che osservavo da bambino e tornavano a lambirmi la mente quasi ogni giorno. Ifigenia ruppe l’estasi notando con allegria la vivacità del colore delle mutande che mi stavo levando. Aggiunse che avremmo dovuti farci filmare così come eravamo da un bravo regista che rendesse eterni quei nostri minuti carichi di storia, di poesia e di mito
Bologna 4 aprile 2024 ore 15, 17 giovanni ghiselli
p. s.
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