Dieci minuti dopo
l’anestesia, il gentile odontoiatra con il trapano vorticoso forò due denti
della fanciulla che poi sputò del sangue e, se pure non sentì molto male per
via dell’iniezione, fastidiosa comunque, rimase così sbigottita che non poté
trattenere qualche lacrima di compassione per sé.
La osservavo pensando:
“probabilmente ogni uomo, persino il più avventurato, almeno una volta nel
corso pur rapido della sua vita mortale, subisce una lacerazione cruenta nel
corpo, destinato per giunta alla putrefazione nonostante le cure, e sanguina e
sente dolore; la vita però ci promette, e spesso mantiene, tanti momenti di
gioia: prima di tutto l’amore quando nasce e cresce simultaneamente in due
anime affini, una felicità di poco superata da quella divina, poi
l’apprendimento, l’educazione ottenuta e donata, lo sport agonistico e non.
Se fai il calcolo del meno e
del più ricordando il male e il bene: le botte, le ferite, le umiliazioni, le
ingiustizie, le cattiverie, le calunnie subite da una parte; e dall’altra
l’amore contraccambiato con reciproca felicità, il bene che fai e ti fanno, la
giustizia che rendi e ottieni, il bello che crei, ispiri e ricevi con mutua
beatitudine, il vero che cerchi e trovi e riveli: ebbene il risultato è
positivo, se la coscienza non si è macchiata di grossi delitti e non hai
commesso errori irreversibili. Sicché, vivere tutto sommato vale la pena. Le
perdite vengono compensate sempre, abbondantemente, finché viviamo. Poi, chi lo
sa? Né Lucrezio né Dante, né il vostro modesto
redattore di vicende umane lo sa.
"Se perderò Ifigenia - mi dissi -
vorrà dire che non ho altro da darle e che da lei ho già ricevuto quanto la sua
bellezza poteva donarmi perché accrescessi la mia potenza e la mia volontà di
fare del bene."
Insomma lì dal dentista
rinnovellai le speranze.
Il 14 agosto non arrivò posta
per me. Il 15 nemmeno. Il 16 invece,
era un giovedì, terminate le ore dell’ultimo giorno della scuola estiva, ancora
prima che fossi uscito dall’Università per correre a vedere se c’era
l’espresso, appena ebbi messo la testa fuori dall’aula, mi si avvicinò
Stefania, la commediante di sempre, e disse: “Gianni Ghiselli, in collegio c’è
posta per te”.
“L’espresso di Ifigenia con la sentenza di vita o di morte su questo
amore” pensai.
Il cuore mi balzò nel petto,
le gambe tremarono, mi rombarono le orecchie e forse anche io, come la poetessa
di Lesbo, divenni più verde dell’erba.
Tuttavia, facendomi forza per
dissimulare la frenesia, ringraziai seccamente la messaggera quasi sempe
maligna e mi avviai verso il collegio, in fretta ma senza correre. Allora quella
donna, usa alla farsa, dispiaciutissima poiché non le avevo dato l’occasione di
fare una delle sue scene tragicomiche, gridò. “Ehi tu, ghiselli! Guarda che è
solo una cartolina!”
“Grazie, anche troppo
per uno come me!” risposi senza
voltarmi, per non farle vedere la mia delusione e non darle la gioia di
avermela inflitta come una pugnalata dentro la schiena.
“Maledetta istriona
ficcanaso!” mormorai.
Quindi, con pena, pensai. “
magari sarà una cartolina di Fulvio”.
Allora non potevo sapere che
di lì a pochi mesi la presenza di Fulvio mi sarebbe diventata più cara e
gradita di quella dell’amante non amica e che l’anno seguente a Debrecen dove
saremmo andati tutti e tre insieme, avrei preferito frequentare l’amico e altre persone da meno di lui, piuttosto che
quella druda dalla mente contorta,
lamentosa, pesante, lugubre, ostile.
Nella cassetta posta presso la
porta d’ingresso dunque trovai non una, ma due cartoline di Ifigenia che ancora una volta risuscitarono e rimisero in
piedi la moribonda speranza.
Erano scritte in rosso, senza
data. Nel timbro postale però si poteva leggere “Siracusa 7 agosto”.
Una diceva: “sono appena
arrivata qui. Un bel posto. Mi manchi moltissimo, più di quanto immaginassi. Mi
fido di te e di me. “Zazzì”. Tua Ifi. Quando ci vediamo?
E l’altra: “La Sicilia è magnifica. Il
paesaggio stupendo: se tu fossi qui sarebbe meraviglioso. Ti amo tanto, sai? A
presto. Ifigenia”.
Zazzì faceva
parte del nostro linguaggio cifrato, del resto facilmente decifrabile da parte
tua, affezionato lettore che mi conosci, mi leggi, mi ascolti quando parlo in
pubblico e con la tua attenzione mi spingi a scrivere e a parlare ancora.
Più o meno degnamente.
“E degnamente io, e degnamente tu” (cfr. Sofocle, Edipo re, v. 1339)
Bologna 31 maggio 2025 ore 9,
40 giovanni ghiselli
p. s.
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Già docente di latino e greco nei Licei Rambaldi di Imola, Minghetti e Galvani di Bologna, docente a contratto nelle università di Bologna, Bolzano-Bressanone e Urbino. Collaboratore di vari quotidiani tra cui "la Repubblica" e "il Fatto quotidiano", autore di traduzioni e commenti di classici (Edipo re, Antigone di Sofocle; Medea, Baccanti di Euripide; Omero, Storiografi greci, Satyricon) per diversi editori (Loffredo, Cappelli, Canova)
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