mercoledì 7 maggio 2025

Omero Odissea XIII parte Gli argomenti preferiti sono quelli contemporanei, sono noti e tolgono la tensione. Il ritardare è epico.

 

Intanto l'aedo Femio cantava il ritorno luttuoso degli Achei ("oJ d j jAcaiw'n novston a[eide-lugrovn", Odissea, I,  vv. 326-327) da Troia. Qui come tra i Feaci dove Demodoco canta in breve (VIII, 73-82) la lite tra Achille e Odisseo e, più estesamente (VIII, 500-520) la storia del cavallo di legno, "gli argomenti preferiti sono quelli contemporanei[1], ben noti al pubblico, che non aspetta con ansia di sapere "come andrà a finire"[2].

E’ Odisseo stesso che chiede a Demodoco il quale in una performance precedente  aveva già cantato storie di dèi: “ ajll j a[ge dh; metavbhqi kai; i{ppou kovsmou a[eison-douratevou, to;n jEpeio;~ ejpoivhsen su;n  jAqhvnh,-o{n pot j  ej~ ajkrovpolin dovlon h[gage di'o~  jOduvsseuv~ ” (VIII, 492-494).

Sentiamo la traduzione e il commento di Piero Boitani: “ Ma su, cambia tema[3] e canta il progetto del cavallo/di legno, che Epeo costruì con l’aiuto di Atena:/la trappola che poi il chiaro Odisseo portò sull’acropoli (….)

Ecco, Odisseo menziona qui se stesso per la prima volta. Quel díos Odysséus andava sussurrato –da chi lo recitasse[4]- con intenzione, con una brevissima pausa sospesa prima, come se l’eroe esitasse a pronunciare il proprio nome. Odisseo si rende conto, durante la sosta a Scheria, di essere già divenuto un mito, un argomento di canto, e questa realizzazione deve rappresentare per lui uno shock tremendo e un immenso piacere. Quando, un istante dopo, Demodoco canta di come Odisseo andasse per Troia, uccidendo e devastando “come il dio della guerra, come Ares”, la coscienza dell’eroe che ascolta subisce un colpo definitivo. Sì, è lui, quello: e anche questo, che ora sta a sentire, dieci anni dopo. In mezzo, c’è tutta l’Odissea, tutte le pene del lungo errare. Ma lui, Odisseo, capisce adesso di essere quello là: eppure totalmente diverso. Ora, piange come una di quelle donne troiane cui egli stesso ha ucciso il marito e che egli stesso ha tratto in schiavitù. In tutto il dramma che recitavamo Odisseo ripercorre il proprio passato. Il racconto che faceva ad Arete sul proprio naufragio a Ogigia, sul lungo soggiorno con Calipso, sulla navigazione di diciassette giorni, era una prova generale dell’Odissea che avrebbe narrato fra i libri IX e XII. Occorreva, certo, sapere che quando egli inizia con “Difficile raccontare, o regina, dal principio alla fine”[5], inaugura un topos che giunge sino all’Enea virgiliano di “infandum, regina, iubes renovare dolorem[6] e all’Ugolino dantesco: “tu vuoi ch’io rinnovelli disperato dolor che il cor mi preme”.

 Ma persino più importante è comprendere che egli vede Ogigia, adesso, come un mondo di favola: “C’è un’isola lontano nel mare”. Che chiama Calipso (colei che naconde) “insidiosa” e soprattutto “dea tremenda” e forse sente, ora, che ella era, chissà, una dea della morte. Pure, sa bene che ella lo ha aiutato, nutrito, vestito, si è presa cura di lui. E quando dice ad Arete che quella dea gli offriva di renderlo “immortale e per sempre senza vecchiaia”[7], un brivido deve attraversargli la voce, perché quella è la tentazione suprema alla quale lui ha resistito: “ma nel petto non convinse mai il mio animo”[8] deve essere pronunciato con fermezza, ché quella è l’unica sicurezza che Odisseo riconosce a se stesso”[9].  

  

L’ultimo canto di Demodoco è quello del cavallo di Troia, il “supremo titolo eroico”[10] di Odisseo il quale tuttavia, nel sentirlo, piange, wJ~ de gunhv (VIII, v. 523), come una donna sul cadavere del marito morto in battaglia mentre i nemici vincitori le pungono la schiena e le spalle facendole fretta perché devono portarla via quale schiava.

Così Odisseo versava lacrime di pietà sotto le ciglia: “w}~   jOduseu;~ ejleeino;n uJp  j ojfruvsi davkruon ei\ben” (VIII, v. 531).

 

Sentiamo Piero Citati: “Ulisse ha sempre posseduto uno straordinaio dono di metamorfosi: la sua mente è sensibilissima e plastica; diventa una pietra, un arco, un’onda, un caprone, un cane, un morto, una serva. Sa essere l’altro, come nessuno. Ma mai come qui, in questo paragone ramificato, passa continuamente dall’altra parte: ora guarda la guerra con gli occhi dei vinti, e si identifica con la propria vittima, la donna troiana cui ha ucciso il marito e verrà portata via, schiava, in grecia. Egli vede la donna e si perde in lei, come se fosse oggi, e il dolore di lei fosse di oggi. Capisce che il pianto dei vinti è lo stesso pianto dei vincitori: il ricordo della sua gloria suscita solo lacrime; le sue sofferenze di dieci anni, la separazione da Itaca, che per lui sono la sventura suprema, non hanno più rilievo della sventura degli altri. Tutto è dolore, e il dolore è terribilmente presente. Senza che egli lo sappia, le sue lacrime sono le stesse lacrime di Achille e di Priamo, nell’ultimo canto dell’Iliade, quando comprendono che tutti i padri sono gli stessi e noi siamo i nostri nemici. Egli non ha mai provato un’identificazione così profonda con i dolori degli altri: certo non a Troia; e non la proverà mai più, perché tornato a Itaca, nella sua casa, si vendicherà spietatamente dei proci, uccidendo persino chi non aveva colpa o aveva una piccola colpa. Questo momento, in cui si è perduto nell’anima di una schiava, è un istante isolato nella sua vita….Forse poteva scoprire questi sentimenti solo a Scheria, dove la guerra non esiste o diventa racconto. A Scheria domina la poesia, che nasce dal dolore, risveglia la pietà, la compassione, l’identificazione, mentre nella vita siamo obbligati ad essere noi stessi, il nostro nome, la nostra storia, il nostro destino[11].  

 

Il sapere come andrà a finire serve anche a togliere tensione. 

"Nei nostri poemi non solo il contenuto è noto nelle linee generali, ma di volta in volta si annuncia per tempo quale fatto importante sta per accadere. Così si avverte in anticipo che presto Patroclo morirà, che Ettore morirà ecc...Le anticipazioni non servono a mettere il pubblico in uno stato di "tensione" appassionata, come ritengono molti, ma devono anzi consentirgli di seguire disinterassatamente il racconto anche quando sta per sopraggiungere un episodio che potrebbe essere patetico"[12].

 

Non solo la notorietà degli argomenti e le anticipazione servono a togliere tensione, ma anche il ritardare:

" Goethe e Schiller, che, verso la fine dell'aprile 1797 ebbero uno scambio di lettere...sul "ritardare" in genere nei poemi omerici, lo misero addirittura in contrasto con la tensione; essi veramente non usano questa espressione, ma è chiaro che cosa intendano quando indicano il procedimento del ritardare come propriamente epico in opposizione a quello tragico (lettere 19, 21, 22 aprile). Sembra anche a me che il ritardare mediante digressioni stia nei poemi omerici in opposizione con l'anelito ad un fine, e senza dubbio Schiller ha ragione per Omero quando pensa che questi ci dia "soltanto la presenza e l'azione tranquilla delle cose secondo la loro natura" e che il suo scopo sia "già in ogni punto del suo movimento". Ma entrambi, tanto Schiller quanto Goethe, innalzano il procedimento omerico a a legge della poesia epica in generale; e le parole ora citate di Schiller devono valere per i poeti epici in opposizione ai tragici"[13].

“Omero ha ristretto e rimpicciolito l’ampiezza della sua materia, ma ha accresciuto e ingrandito le singole scene-e così fanno sempre di nuovo più tardi i tragici: ognuno prende la materia in pezzi ancora più piccoli del suo predecessore, ma ognuno ottiene una più ricca fioritura all’interno di questa siepe di giardino delimitata e recintata[14].

 

Sullo spirito epico sentiamo Thomas Mann: “E’ uno spirito possente e maestoso, espansivo, saturo di vita, vasto come il mare nella sua ondeggiante monotonia, grandioso e accurato insieme, canoro e riflessivo; esso non vuole il particolare, l’episodio, ma tutto, il mondo intero con infiniti episodi e  particolari, sui quali si sofferma, dimentico di sé, come se ciascuno di essi gli stesse particolarmente a cuore. Esso infatti non ha fretta, ha tempo infinito, è lo spirito della pazienza, della fedeltà, della perseveranza, della lentezza che diviene godimento attraverso l’amore: è lo spirito della noia che incanta. Potendo, inizierebbe dall’origine prima di tutte le cose, e quanto a finire, non finirebbe mai…Ma la sua grandezza è mite, pacata, serena, saggia-è “obiettiva”. E’ una grandezza che si distanzia dalle cose, che ne è distante per sua natura, che aleggia al di sopra di esse e ne sorride dall’alto, pur immergendovi e implicandovi profondamente chi legge o chi ascolta. L’arte epica è “arte apollinea”, come suona il termine estetico; giacché Apollo, colui che colpisce da lontano, è il dio della lontananza, dell’obiettività, dell’ironia. Obiettività è ironia, e lo spirito dell’epica è lo spirito dell’ironia”[15].

E’ il Coro dell’ Edipo re  di Sofocle che nella parodo invoca “Febo che scaglia lontano (eJkabovlon, v. 162).

Bologna 7 maggio 2025 ore 18, 04, giovanni ghiselli

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[1]Come abbiamo anche nel caso dello storiografo Tucidide.

[2]Codino, Introduzione a Omero , p. 192.

[3] Demodoco  aveva già cantato prima la lite tra Achille Pelide e Odisseo, facendo piangere Ulisse (VIII, 73-86), poi l’amore furtivo di Ares e Afrodite (Odissea, VIII, 266 ss.) che suscitò inestinguibile riso (a[sbesto~gevlw~, v. 326) tra i numi beati i quali erano andati a guardare la coppia incatenata nel letto da Efesto, lo sposo tradito, cui il Sole onniveggente aveva fatto la spia.

  E’ interessante la riflessione di Pietro Citati sulle diversità delle conseguenze di questa tresca rispetto degli adultèri tra uomini: “La vita degli dèi è lieta e leggera: non conosce né morale né dolore né tragedia. Soltanto gli uomini conoscono la tragedia. Il distratto coito fra Ares e Afrodite diventa, nella società umana, l’adulterio di Elena e Paride, che suscita il fuoco della passione, provoca la guerra di Troia, incarna il destino, causa migliaia di morti, lascia i corpi insepolti sulle rive dell’Ellesponto, trascina in schiavitù le donne e i bambini” (La mente colorata, p. 154).

L’adulterio di Afrodite invero suscita il riso degli immortali ma anche un commento morale: “oujk ajreta'/ kaka; e[rga: kicavnei toi bradu;~ wjkuvn” (Odissea VIII, 329), non hanno fortuna le cattive azioni: il lento acchiappa il veloce.

Tuttavia Senofane di Colofone (VI sec. a. C.) biasima Omero, e pure Esiodo, poiché hanno attribuito agli dèi tutte le vergogne e i motivi di biasimo degli uomini: “klevptein  moiceuvein te kai; ajllhvlou~ ajpateuvein” (fr. 10 D., v. 3).  

[4] Boitani racconta come lui stesso recitò a Cambridge la parte di Odisseo, in greco: “Mi ero sentito Ulisse per cinquant’anni, il mio narcisismo mi costringeva ad esserlo anche in scena” (Sulle orme di Ulisse, p. 260).

[5] J  j Argalevon, basivleia, dihnekevw~ ajgoreu'sai (VII, 241) Ndr.

[6] Eneide, II, 3. Ma il racconto delle sventure può essere anche consolatorio o addirittura gratificante. Il Prometeo di Eschilo dice:

"doloroso è per me raccontare queste cose,/ma doloroso è anche tacere, e dappertutto sono le sventure"( Prometeo incatenato, vv. 197-198). Due versi questi, usati come epigrafe da Giuseppe Berto per il suo Il male oscuro (1964) che racconta la terapia di una nevrosi: “Il racconto è dolore, ma anche il silenzio è dolore”. Il racconto infatti è doloroso e pure terapeutico.

Nella Tebaide di Stazio (45-96 d. C.) Ipsipile inizia la sua storia dolorosa affermando che raccontare le proprie pene è una consolazione per gli infelici:"dulce loqui miseris veteresque reducere questus" (V, 48), è dolce parlare per gli infelici e rievocare le pene antiche.  

 Ndr.

[7] Odissea, VII, 257. Ndr

[8] Odissea, VII, 258. Ndr.

[9] P. Boitani, Sulle orme di Ulisse, p. 264.

[10] P. Citati, La mente colorata, p. 155.

[11] P. Citati, Op. cit., p. 156.

[12]Codino, op. e p. citate.

[13]E. Auerbach, Mimesis , p. 5.

[14] Nietzsche, Umano, troppo umno II, L’ombra del viandante, p. 170.

[15] L’arte del romanzo in Nobiltà dello spirito e altri saggi, p. 1221-1222.

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