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martedì 18 giugno 2013

Un possibile tema di maturità: a che cosa serve lo studio del greco e del latino


Elogio della cultura classica e della semplicità

Perché studiare il greco e il latino, potrebbe domandare un giovane, a che cosa servono? Alcuni rispondono: "a niente; non sono servi di nessuno; per questo sono belli".
Non è questa la nostra risposta. Se è vero che la cultura classica non si asservisce alla volgarità delle mode, infatti non passa mai di moda, è pure certo che la sua forza è impiegabile in qualsiasi campo. La conoscenza del classico  potenzia la natura peculiare dell'uomo che è animale linguistico.  Il greco e il latino servono all'umanità: accrescono le capacità comunicative che sono la base di ogni studio e di ogni lavoro non esclusivamente meccanico.

Chi conosce il greco e il latino sa parlare la lingua italiana più e meglio di chi non li conosce[1]. Sa pure  pensare più e meglio di chi li ignora.
Parlare male non  solo è una stonatura in sé, ma mette anche del male nelle anime.
Lo ricorda Socrate a Critone nel Fedone platonico: "euj ga;r i[sqi
a[riste Krivtwn, to; mh; kalw'" levgein ouj movnon eij" aujto; tou'to plhmmelev", ajlla; kai; kakovn ti ejmpoiei' tai'" yucai'"" (115 e)
Lo ha rammentato il rettore dell’università di Bologna, Ivano Dionigi che ha aggiunto: “tanto più è necessario ripristinare la potenza della parola oggi, in presenza di questa vera e propria entropia linguistica”.
Don Milani insegnava che "bisogna sfiorare tutte le materie un po' alla meglio per arricchirsi la parola. Essere dilettanti in tutto e specialisti nell'arte della parola"[2].


Il sicuro possesso  della parola è utile in tutti i campi, da quello liturgico, a quello giuridico, a quello medico, a  quello erotico: "Non formosus erat, sed erat facundus Ulixes / et tamen aequoreas torsit amore deas "  bello non era, ma era bravo a parlare Ulisse, e pure fece struggere d'amore le dee del mare, scrive Ovidio nell'Ars amatoria
[3]. Sono versi citati da Kierkegaard, non per caso nel Diario del seduttore.
Nei versi precedenti Ovidio consiglia di imparare bene il latino e il greco, per potenziare lo spirito e controbilanciare l'inevitabile decadimento fisico della vecchiaia: "Iam molire animum qui duret, et adstrue formae: / solus ad extremos permanet ille rogos. / Nec levis ingenuas pectus coluisse per artes/cura sit et linguas edidicisse duas"
[4], oramai prepara il tuo spirito a durare, e aggiungilo all'aspetto: solo quello rimane sino al rogo finale. E non sia leggero l'impegno di coltivare la mente attraverso le arti liberali, e di imparare bene le due lingue. Il latino e il greco ovviamente.
Senza con questo disprezzare altre lingue, anzi.


“Egli è indubitato: la nuda cognizione di molte lingue accresce anche per sè sola il numero delle idee, e ne feconda poi la mente”
[5].
Ebbene, non si può essere veramente bravi a usare la parola, utilizzabile sempre e per molti fini, tutti sperabilmente buoni, se non si conoscono le lingue e le civiltà classiche, ossia quelle della prima classe
[6].
Noi vorremmo che le studiassero tutti attraverso una scuola che fosse nello stesso tempo popolare e di alta qualità.
Una scuola accessibile a tutti, interessante per tutti.
Le invenzioni senza costrutto, le rivoluzioni astrattamente verbali degli intellettuali elitari e schifiltosi, lasciano il tempo che trovano, e, queste davvero non servono a niente.
Si pensi al movimento letterario della Neoavanguardia dei primi anni Sessanta. Presentava e propugnava “lo sperimentalismo assoluto, letterario fino all’illeggibilità e all’inservibilità”
[7].
Tali sperimentalismi astrusi di solito hanno la pretesa risibile di “superare” la lezione “antiquata” dei classici.
Certi presunti intellettuali non hanno nulla da dire, ma cercano di farsi credere molto colti e profondi attraverso "ghirigori che non dicono nulla e offuscano con la loro verbosità perfino le verità più comuni e più comprensibili"
[8].


La conoscenza dei classici di fatto abitua alla chiarezza e ad amare “il bello con semplicità”. Un nesso che abbiamo imparato dal logos epitafios del  Pericle di Tucidide: "
filokalou'mevn te ga;r met j eujteleiva" kai; filosofou'men a[neu malakiva""
[9], in effetti amiamo il bello con semplicità e amiamo la cultura senza mollezza.
In latino, Lucrezio condanna gli stolti che ammirano e amano più di tutto quanto rimane nascosto sotto parole contorte: "omnia enim stolidi magis admirantur amantque /i nversis quae sub verbis latitantia cernunt"
[10].
La semplicità, nel parlare, nello scrivere, nello stile di vita non esclude l’eleganza, anzi la accompagna.
A questo proposito sentiamo Cicerone che pure parteggiava per i benestanti
[11]: "quae sunt recta et simplicia laudantur"[12], ricevono lode gli aspetti schietti e semplici.
Pirra è "simplex munditiis"
[13], semplice nell'eleganza.
La semplicità dei classici non è faciloneria, bensì complessità risolta. Marziale la chiama prudens simplicitas (X 47, v. 7) semplicità accorta e la considera uno dei mezzi che abbelliscono la vita (vitam quae faciant beatiorem , v. 1).
Capita che il classico subisca momenti di minor fortuna, ma, come Odisseo,  non affonda mai: la rinascita del classico è la forma ritmica della storia culturale europea.
Harry Mount, autore di un libro sul ritorno del latino che ha avuto un certo successo, nota che sul retro del biglietto da un dollaro si trova scritto annuit coeptis che traduce “he has favoured our undertakings”, ha favorito le nostre imprese, quindi commenta “As is often the case, Latin is used to give a touch of class”
[14], come spesso succede il latino è usato per assegnare un tocco di classe.
Una classe che andrebbe aperta a tutti.

 

Giovanni Ghiselli g.ghiselli@tin.it
 

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[1] Vittorio Alfieri nella sua Vita (composta tra il 1790 e il 1803) racconta di avere impiegato non poco tempo dell’inverno 1776-1777 traducendo dopo Orazio, Sallustio, un lavoro “più volte rifatto mutato e limato…certamente con molto mio lucro sì nell’intelligenza della lingua latina, che nella padronanza di maneggiar l’italiana” (IV, 3). 
[2] Lettera a una professoressa, p. 95. 
[3] II, 123-124.  
[4] Ars amatoria  II,  119-122 
[5] Leopardi, Zibaldone, 2214
[6] Il termine classicus designava il cittadino che apparteneva alla classe più elevata dei contribuenti fiscali: "solo per traslato uno scrittore del II secolo d. C., Aulo Gellio, definisce "classicus scriptor, non proletarius" uno scrittore "di prim'ordine", non della massa" (Noctes Atticae 19. 8. 15; cfr. 6. 13. 1 e 16. 10. 2-15), o (forse meglio) "buono da essere letto dai classici (i contribuenti più ricchi), e non dal popolo"; classicus è ulteriormente definito come adsiduus (altra designazione di censo, "contribuente solido e frequente") e antiquior; l'anteriorità al presente è dunque requisito della "classicità" (S. Settis, Futuro del "classico", p. 66.)  
[7] Pasolini, in Saggi sulla Letteratura e sull’arte, p. 2614. 
[8] Cfr. A. Schopenhauer, Parerga e paralipomena p.210, vol.I 
[9] Storie II, 49, 1. 
[10] De rerum natura I, 641-642 
[11] Cicerone voleva  realizzare la concordia ordinum tra senatori e cavalieri considerati tutti  optimates,  benestanti uniti dall’interesse a conservare i privilegi economici e politici. Nell’orazione Pro Sestio del 56 a. C. l’Arpinate ne dà questa definizione: “Omnes optimates sunt qui neque nocentes sunt, nec natura improbi nec furiosi, nec malis domesticis impediti” (97), sono tutti ottimati quelli che non sono nocivi, né per natura malvagi né squilibrati, né inceppati da difficoltà familiari. Anzi essi costituiscono una casta (natio) all’interno della popolazione: “integri sunt et sani et bene de rebus domesticis constituti”, sono irreprensibili, saggi e benestanti.
[12] De officiis, I, 130. 
[13] Orazio, Odi I, 5, 5.[14] Amo, amas, amat, p. 216.


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