Essere cittadino II parte. 13 giugno 2014
Democrazia contiene la parola
kravtoς che secondo i critici di
questo regime può significare “strapotere dei non possidenti”, come ricorda
Canfora
“E’ nel fuoco di questi problemi che nasce la nozione-e la parola-democratìa,
a noi nota, sin dalle sue prime attestazioni, come parola dello “scontro”, come
termine di parte, coniato dai ceti elevati ad indicare lo “strapotere” (kràtos)
dei non possidenti (dèmos) quando vige, appunto, la democrazia”[1].
Aristofane, in forma comica, poi Platone e Aristotele
denunciano la demagogia, il disordine e la corruzione di questo sistema.
Le Vespe di Aristofane
Nelle Vespe del 422, il commediografo mette
in rilievo la parzialità dell’Eliea che in origine era una corte d’appello
istituita da Solone, poi ampliata fino a seimila giudici.
All’Eliea erano affidati i processi che non venivano
attribuiti ai tribunali del sangue, all’Areopago,
I 6000 eliasti erano sorteggiati in numero di 600 per
tribù. Unici requisiti avere compiuto 30 anni e il possesso dei diritti
politici. Aristofane mette in ridicolo un vecchio eliasta (Filocleone) fanatico
dei processi e di Cleone che del resto gli dà solo le briciole.
Filhliasthvς
ejstin (87).
Il figlio, Bdelicleone che ha schifo (bdeluvssw,
provo disgusto) di Cleone, lo chiude in casa.
Il vecchio spasima perché vuole fare del male (kako;n
ti poih̃sai, 320 e cfr. 340)
Filocleone dice al figlio quali sono i vantaggi della sua
carica: gli eliasti ricevono favori anche sessuali e non devono rendere conto a
nessuno (ajnupeuvqunoi drw̃men,
587)
Anzi, davanti ai giudici dell’Eliea se la fanno sotto i
ricchi e i potenti ( ejgkecovdasiv m j oiJ
ploutoũnteς (627)
Ma il figlio Filocleone esorta il “babbino”(pappivdion,
655) a calcolare qual è il tributo (to;n
fovron) che Atene riceve dalle città alleate poi tutte le altre rendite
(tevlh, imposte, miniere,
mevtall j , mercati, porti,
confische 649). Sono duemila talenti. Gli stipendi dei 6000 eliasti arrivano 150
talenti (un talento equivalgono a 6000 dracme a 36 mila oboli)
Il vecchio ci rimane male: nemmeno la decima parte?
E gli altri quattrini?
Il figlio risponde che vanno ai demagoghi che adulano la
folla e prendono cinquanta talenti alla volta dagli alleatti terrorizzandoli
prima, poi facendosi corrompere
Tu ti accontenti di rosicchiare i rimasugli del tuo potere
(672) dice Bdelicleone a suo babbo.
Tu sei calcolato quasi niente (tre oboli) mentre i
demagoghi si pappano vasi di pesce marinato, vino, tappeti, cacio (turovn),
miele, sesamo, cuscini, coppe, mantelli, corone, collane, tazze, abbondanza e
buona salute e quelli cui tu credi di comandare nemmeno ti danno un capo
(skorovdrou kefalhvn, v. 679)
d’aglio per i tuoi pesciolini-
Insomma, demagoghi e adulatori traggono grandi profitti,
tu, se uno ti dà quei tre oboli (treĩς
ojbolouvς) sei felice. Eppure hai combattuto e hai faticato per la città
Ti lasci dare ordini da un giovincello rotto in culo
( meiravkion katapuvgwn , 687) che
ti fa fretta, mentre lui non ha orari e prende una dramma (dracmhvn,
6 oboli). Inoltre prende denaro dagli accusati che assolve.
Filocleone comincia a pensarci su
Il figlio continua: sei sempre stato raggirato da questi
atteggiati ad amici del popolo (ujpo; tw̃n
dhmizovntwn, 699).
Vogliono che tu sia povero e arrabbiato per aizzarti contro
il loro nemici.
Potrebbero sostenere il popolo nel benessere con i tributi
delle città alleate. Con le mille città che pagano, potrebbero mantenere 20 mila
ateniesi a carne di lepre e formaggio, fra le corone, un tenore di vita degno di
Maratona.
Io ti tenevo chiuso volendo nutrirti e perché non ti
beffassero questi enfatici parolai dalla bocca aperta
bovskein ejqevlwn kai; mh; touvtouς-ejgcavskein
soi stomfavzontaς (720-721)
I vecchi eliasti oramai sono convinti da Bdelicleone il
quale per giunta promette di dare al babbo quanto giova a un vecchio: farinata
da leccare (covndron leivcein) un
mantello soffice (claĩnan
malakhvn) e una puttana che gli strofinerà il bischero (povrnhn
h{tiς to; pevoς
triyei, 739) e i lombi.
Il vecchio pare rinsavito.
Ma rimpiange i processi. Ora vorrebbe processare Cleone.
La commedia procede dando spazio alla scurrilità e
all’assurdo, un nonsense antico.
Platone nell'VIII libro della Repubblica biasima la mancanza
di serietà della democrazia, una costituzione che non si dà pensiero delle
abitudini morali di chi fa politica, ma onora chi dice di essere amico del
popolo.
E' una costituzione piacevole, anarchica e variopinta, che
distribuisce una certa uguaglianza nello stesso modo a uguali e disuguali (hJdei'a
politeiva kai; a[narco" kai; poikivlh,
ijsovthtav tina oJmoivw~ i[soi~ te kai;
ajnivsoi~ dianevmousa, 558c).
Un'uguaglianza divaricata dalla giustizia dunque se è vero quanto
dice Don Milani: "Perché non c'è nulla che sia ingiusto quanto far le parti
eguali fra disuguali"
[2].
Io credo che sia più ingiusto fare parti troppo diverse tra persone
che sono sostanzialmente uguali come siamo noi uomini.
I demagoghi furono Cleone, Iperbolo e Cleofonte, ma Platone ( nel
Gorgia) non salva nemmeno Pericle.
Un episodio che mostra la prepotenza del popolo è quello della
condanna sommaria degli strateghi pur vincitori della battaglia delle Arginuse
(406)
La difesa fatta da
Eurittolemo mise in rilievo l’illegalità della proposta di condannare a morte
gli strateghi senza distinguere le responsabilità individuali e denunciò
Teramene come colui che avrebbe dovuto raccogliere i naufraghi, mentre
nell’assemblea precedente il processo, il Coturno aveva accusato gli strateghi (o{~
ejn th'/ protevra/ ejkklhsia/ kathvgorei tw'n strathgw'n,
Senofonte, Elleniche, 1,7, 31)
Durante il processo ci
fu dunque un tentativo di difesa, ma nella massa era stato inoculato l'odio e
il desiderio del capro espiatori ed essa gridava che era grave se qualcuno non
permetterva al popolo di fare quanto voleva ("to;
de; plh'qo" ejbova deino;n ei\nai, eij mhv ti" ejavsei to;n dh'mon pravttein
o} a]n bouvlhtai", Senofonte,
Elleniche, I, 7, 12)."E' la rivendicazione che riecheggia minacciosamente in
assemblea ad Atene durante il processo popolare contro i generali delle Arginuse",
ed è "la formula che caratterizza, secondo Polibio, la degenerazione
della democrazia (VI, 4, 4:" quando il popolo è padrone di fare quello che
vuole")”.[3]
Sentiamo quindi Polibio:
“paraplhsivw~ oujde; dhmokrativan,
ejn h|/ pa'n plh'qo~ kuvriovn ejsti poiei'n o[ ti pot j a]n aujto; boulhqh'/ kai;
proqh'tai” (6, 4 , 4),
similmente non è democrazia quella in cui la massa sia padrona di fare
tutto ciò che voglia e preferisca; invece, continua Polibio, lo è quella presso
la quale è tradizionale e abituale venerare gli dèi, onorare i genitori,
rispettare gli anziani, obbedire alle leggi; presso tali comunità, quando
prevale il parere dei più (o{tan to; toi'~
pleivosi dovxan nika'/), questo bisogna chiamare democrazia.
Il fatto che Polibio più avanti scriva (9, 23, 8) che ai
tempi di Pericle ad Atene gli atti crudeli erano pochi (ojlivga
me;n ta; pikrav) mentre prevalevano quelli buoni e santi (polla;
de; ta; crhsta; kai; semnav) fa pensare che lo storico considerava se non
“vanificata”, certo “contenuta” e limitata da Pericle, la prepotenza del
plh'qo~ nel primo periodo della
democrazia radicale.
Aristotele nella Politica (1292a) scrive che dove
non comandano le leggi non c’è costituzione:
o{pou ga;r mh; novmoi a[rcousin, oujk e[sti
politeiva.
Nella Costituzione degli Ateniesi (41) Aristotele
passa in rassegna 11 regimi succeduti in Atene. Biasima la riforma di Efialte
che ridusse i poteri dell’Areopago. Da allora i governi commisero più errori a
causa dei demagoghi. Dopo la tirannide dei Trenta, il popolo si è reso padrone
assoluto di ogni cosa.
Anche Cicerone biasima
questo potere eccessivo: “Si vero populus plurimum potest omniaque eius
arbitrio reguntur, dicitur illa libertas, est vero licentia” ( de rep.,
3, 23), se poi il popolo ha il massimo potere e tutto viene retto secondo il suo
arbitrio, quella si chiama libertà, ma è piuttosto licenza.
Ma torniamo al lovgoς
ejpitavfioς.
ejleuqevrwς…politeuvomen,
liberamente viviamo da cittadini (II, 37, 2)
Parte importante di questa libertà nella cultura logocentrica e
parlata dei Greci è la parrhsiva,
come si legge nello Ione e nelle Fenicie di Euripide (Polinice).
Anche la nostra Costituzione conferisce somma importanza alla
libertà di parola: "Articolo 19: "Tutti hanno diritto di professare
liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o
associata, di farne propaganda e di esercitare in privato o in pubblico il
culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume.
Articolo 21: "Tutti hanno diritto di manifestare liberamente
il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione".
Pericle poi ricorda ouj
paranomoũmen
(II, 37, 3) , non trasgrediamo le leggi per paura, soprattutto obbediamo a
quelle poste a tutela di chi subisce ingiustizia (o{soi
te ejp j wjfeliva/ tw̃n
ajdikoumevnwn), e anche se non sono scritte (o{soi
a[grafoi o[nteς)
portano un disonore riconosciuto da tutti (aijscuvnhn
oJmologoumevnhn fevrousin).
Pelasgo nelle Supplici di Eschilo dice che il popolo ama
accusare il potere (ajrch̃ς
ga;r filaivtioς
lewvς, 485). Gli Argivi
provano compassione per le Danaidi e odiano il maschio stuolo. Infatti ognuno ha
simpatia toĩς
h{ssosin, per i perdenti.
Il dibattito leggi scritte o no si fa a distanza tra le opere di
Sofocle, Euripide Supplici), Antifonte sofista (Della verità la
legge danneggia la vita), Isocrate (Archidamo), Alcidamante (Messeniaco),
Platone (il personaggio Callicle del Gorgia: le leggi sono vincoli
para; fuvsin, mentre
kata; fuvsin è il diritto del più
forte di prevalere 483e) e chissà quanto se ne parlava.
Tacito: corruptissima re publica plurimae leges, Annales,
III, 27).
Passiamo a II, 38, 1 del
logvoς
ejpitavfioς
Essere cittadino impegnato non significa non avere svaghi. Ad Atene
vige una festività agonistica: abbiamo procurato
pleivstaς
ajnapauvlaς
th̃/
gnwvmh/ moltissimi sollievi allo spirito,
ajgw̃si
mevn ge qusivaiς
diethvsioς con agoni e
feste sacre che durano tutto l’anno (Grandi Dionisie in primavera, Dionisie
rurali e Lenee d’inverno) e anche con eleganti arredi privati il cui piacere
quotidiano di queste cose scaccia il dolore.
Nietzsche semte “i valori cristiani come un’oppressione sotto la
quale ogni vera atmosfera di festa se ne va al diavolo…La festa è paganesimo per
eccellenza” (Umano, troppo umano).
La città riceve ogni cosa da tutta la terra per la sua potenza. La
fruizione dei beni quindi non è solo quella di prodotti locali (II, 38, 2)
Offriamo la nostra città come bene comune per chi vuole imparare o
assistere ai nostri spettacoli. Non pratichiamo
xenhlasiva (xenhlatevw,
xevnoς-
ejlauvnw) il bando degli stranieri non escludiamo alcuno dall’imparare
o dal vedere (kai; oujk ajpeivrgomevn tina
h} maqhvmatoς
h} qeavmatoς (II, 39,
1), anche se il nemico se ne può avvantaggiare.
Articolo 10 della nostra costituzione: Non è ammessa
l’estradizione per reati politici.
Noi confidiamo più nel nostro coraggio verso l’azione (ejς
ta; e[rga eujyuvcw/) che nei preparativi e negli stratagemmi. E da
giovani viviamo senza costrizioni hJmeĩς
de; ajneimevnwς
diaitwvmenoi (cfr. ajnivhmi,
“lascio ”, indica la sovrana negligenza del genio che non deve prepararsi con
duro esercizio ma può improvvisare, o almeno sa dare questa impressione.)
mentre altri perseguono il valore ejpipovnw/
ajskhvsei, con faticoso esercizio.
Anche Spartani e Spartane del resto erano fieri della propria
educazione. Gorgò, la moglie di Leonida, a una straniera che le aveva detto:
solo voi donne spartane comandate sugli uomini, Gorgò rispose: “movnai
ga;r tivktomen a[ndraς
(Plutarco, Vita di Licurgo, 14), infatti solo noi partoriamo degli
uomini.
Gorgò da bambina diede ordini perfino al padre, al re Cleomene. Lo
dissuase dall’ accettare il denaro (50 talenti) che Aristagora di Mileto gli
offriva in cambio di un aiuto militare (Erodoto, V, 52, 2). Senofonte nella
Costituzione degli Spartani mette in rilievo il fatto che per quel popolo to;
peivqesqai, l’obbedire nell’esercito e in casa è il bene più grande (VIII, 2).
Il re Archidamo in Tucidide (I, 84) dice che la severa disciplina
rende più forte chi viene educato nella massima difficoltà.
Platone nelle Leggi (695a) sostiene che la pessima riuscita
di Smerdi e di Cambise dipese dal fatto che furono educati da donne e da eunuchi
in assenza di Ciro che guerreggiava sempre.
Tucidide II, 39, 2. Pericle mette in rilievo la facilità con
cui gli Ateniesi vincono le battaglie (ouj
calepw̃ς
macovmenoi kratoũmen)
quando attaccano i vicini.
Lo stratego non nega l’imperialismo. Cleone sarà ancora più
esplicito: “turannivda e[cete th;n ajrchvn
, III, 37, 2)
II, 39, 3. Nessun nemico ha ancora affrontato l’intera
potenza ateniese per la nostra cura della flotta (dia;
th;n toũ
nautikoũ
ejpimevleian) e per il fatto che l’esercito viene mandato in varie
direzioni.
II, 39, 4.
Noi Ateniesi vogliamo affrontare i ruschi (ejqevlomen
kinduneuvein) con noncuranza (rJaqumiva/
) piuttosto che con allenamento alle fatiche (mãllon
h} povnwn melevth/) e più con l’energia dei caratteri che con le leggi.
Dunque gli Ateniesi hanno la sovrana noncuranza del genio, la
spezzatura che è la virtù contraria all’affettazione asperissimo scoglio (Castiglione,
Il Cortegiano).
Sulla noncuranza del genio scrive anche l’Anonimo autore Sul
sublime che la chiama
ajmevleia e la attribuisce agli
scrittori sublimi appunto come Sofocle, Pindaro, Demostene, Platone. Le loro
opere contengono errori che sono in realtà sviste (paroravmata)
dovute a casuale noncuranza (di j
ajmevleian eijkh̃/).
Nel prologo dell’Andria, Terenzio scrive che preferisce
cercare di emulare la negligenza di Nevio, Plauto, Ennio, che l’oscura diligenza
del malevolo vecchio poeta Luscio Lanuvino (vv. 20-21).
Leopardi ribadisce questa idea e approva “quella negligente e
sicura e non curante e dirò pure ignorante franchezza che è necessaria nelle
somme opere d’arte” quali quelle di Omero, Dante, Ariosto.
Invece “il Parini e il Monti sono bellissimi, ma non hanno nessun
difetto” Zibaldone 9-10).
Pericle dunque esalta negli Ateniesi la capacità di improvvisare.
Esiste del resto anche il
tovpoς contrario che
celebra la fatica (Esiodo, Alessandro Magno in Arriano etc.)
Tucidide II, 40, 1
Amiamo il bello con semplicità (Filokaloũmen
metj eujteleiaς)
e amiamo la sapienza (filosofoũmen)
senza mollezza. La sofiva non è
sofovn erudizione (cfr. Euripide,
Baccanti, 395), sofiva è cultura
che produce e incrementa la vita.
eujtevleia è il basso prezzo (cfr.
eu\ -tevloς) che
costano le cose belle, naturali e necessarie che sono a portata di mano, come
dirà Epicuro[4].
Filokaloũmen:
l’amore del bello è una delle componenti principali della cultura di questo
popolo di esteti. A una vita senza bellezza l’Aiace di Sofocle preferisce la
morte ( Aiace, vv. 479-480). Altrettanto Polissena nell’Ecuba di
Euripide (v. 378). C’è un tw̃/
pavqei maqoς e un
tw̃/
pavqei kavlloς.
Articolo 9 della Costituzione italiana: La Repubblica
promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.
Tutela il paesaggio e il patrimonio artistico della nazione.
a[neu malakivaς Pericle del resto
rifiuta quella mollis educatio criticata da Quintiliano che pure
è favorevole alle pause[5]
e al gioco[6]
dei fanciulli. "Mollis
illa educatio, quam indulgentiam vocamus, nervos omnis mentis et corporis
frangit"[7].
quella molle educazione che
chiamiamo indulgenza, spezza tutte le forze della mente e del corpo.
Cambise e Smerdi ricevettero una
trofh;n gunaikeivan,
una cura di donne da parte di femmine appena arrivate al potere e di eunuchi e
crebbero in questo tipo di allevamento licenzioso
trofh̃/
ajnepivplhktw/ (ejpiplhvssw,
colpisco, punisco).
Sicché ereditarono il regno
trufh̃ς
mestoi; kai; ahnepiplhxivaς, gonfi di
lussuria e di sregolatezza (Platone Leggi, 695a)
Di nuovo Pericle: ci serviamo della ricchezza
(plouvtw/
…crwvmeqa)
più come occasione per l’azione (e[rgou
mãllon kairw̃/)
che come vanteria di parole (h}
lovgou kovmpw/). Non è vergogna
ammettere di essere poveri (to;
pevnesqai) ma è molto vergognoso non
cercare di fuggire la povertà
note:
[1] L. Canfora, La democrazia. Storia di
un’ideologia , p. 15 e p. 33.
[2] Lettera a una professoressa, p. 55.
[3]Canfora, Lo Spazio Letterario Della Grecia
Antica , Volume I, Tomo II, p. 835.
[4] Nell’
Epistola a Meneceo Epicure scrive che, tra i desideri (tw'n
ejpiqumiw'n), alcuni sono naturali (fusikaiv),
altri vani (kenaiv) e tra i
naturali alcuni sono anche necessari (ajnagkai'ai,
127); ebbene tutto ciò che è naturale è a portata di mano:"to;
me;n fusiko;n pa'n eujpovristovn ejsti” (130) . Ciò che è vano
invece è difficile da procacciarsi:
to; de; keno;n duspovriston.
[5] E' comunque necessario concedere qualche
intervallo a tutti:"Danda est tamen omnibus aliqua remissio"
Inst., I, 3, 8.
[6] Dove i pueri manifestano più schiettamente
le inclinazioni di ciascuno:"mores quoque se inter ludendum
simplicius detegunt " Quintiliano, Institutio oratoria., I,
3, 8.
Anch'io trovo egregia la nostra costituzione , anche se nei fatti tanta strada deve ancora essere fatta per raggiungere gli ideali ivi proclamati , oltretutto ,mi pare, che molte riforme (pensione , scuola , lavoro ) suonino in disaccordo . Spero che i tanti lettori di questo blog siano spinti come me a riflettere . Gio Tocco
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