Erodoto
Il discorso tripolitico del dibattito costituzionale ( Storie, III,
80 ss.) forse deriva dalle Antilogie di Protagora che parte da premesse
relativistiche ma non fu anarchico: venne chiamato a preparare le leggi per la
città di Turi.
Erodoto scrive che vennero pronunciati alcuni discorsi incredibili per alcuni
Greci: lovgoi a[pistoi me;n ejnivoisi
JEllhvnwn (80, 1).
In
VI, 43, Erodoto racconta che nella primavera del 492 Mardonio, genero di
Dario depose tutti i tiranni degli Ioni e istituì governi democratici. Lo
dico per quanti non accettano che Otane abbia esposto il parere che era
necessario che i Persiani venissero retti a democrazia.
Secondo Diodoro (X, 25) questo provvedimento di Mardonio sarebbe stato suggerito
da Ecateo come mezzo di pacificazione.
Dunque questi lovgoi a[pistoi
vennero effettivamente pronunciati.
Otane disse che non è cosa piacevole né buona (ou[te
ga;r hJdu; ou[te ajgaqovn, 80, 2) che uno di loro sette diventasse re. La
magofoniva aveva soppresso il falso
Smerdi. Il vero Smerdi lo aveva ucciso Pressaspe per ordine di suo fratello
Cambise che aveva fatto un sogno ingannevole. Cambise era morto e Pressaspe si
era ucciso.
Avete visto l’ybris di Cambise, continua Otane, poi quella del Mago.
Al monarca è lecito (e[xesti) fare
quello che vuole senza renderne conto (ajneuquvnw/
poievein ta; bouvletai)
eu[quna,
correzione; eujquvnw, raddrizzo,
eujquvς, dritto.
Al monarca viene l’ybris dai beni presenti, mentre l’invidia gli è
connaturata dall’origine: fqovnoς
de; ajrch̃qen ejmfuvetai ajnqrwvpw/.
Ha ogni malvagità (e[cei
pãsan kakovthta, 80, 4)
che compie per arroganza e invidia
(Cfr. la storia di Trasibulo di Mileto,
Periandro di Corinto e Policrate di Samo. Periandro dopo la lezione di
Trasibulo: “pãsan
kakovthta ejxevfane ejς tou;ς
polivtaς (V; 92,
h)
Eppure non dovrebbe essere invidioso poiché ha tutti i beni.
Invece invidia i cittadini
migliori, si compiace dei peggiori (caivrei
de; toĩsi
kakivstoisi tw̃n
astw̃n)
ed è ottimo ad accogliere le calunnie (
diabola;ς
de; a[ristoς
ejndevkesqai).
Il tiranno nella storia romana e nella tragedia
greca
Cfr. Tiberio e Domiziano
in Tacito.
Quanto allo fqovno", Tacito
attribuisce più di una volta l'invidia ai suoi Cesari: Tiberio
temeva dai migliori un pericolo per sè, dai peggiori disonore per lo stato (ex
optimis periculum sibi, a pessimis dedĕcus publicum metuebat , Annales
, I, 80),
e Domiziano invidiava e odiava Agricola per i suoi successi in
Britannia:"Id sibi maxime formidolosum, privati hominis nomen supra
principem attolli " ( Agricola[1],
39), gli faceva paura soprattutto il fatto che il nome di un suddito fosse messo
al di sopra di quello del principe.
Poi
l’ipocrisia di Tiberio il quale si serviva di formule antiche per nascondere
scelleratezze recenti : “Proprium id Tiberio fuit scelera nuper reperta
priscis verbis obtegere” (4, 19).
La letteratura greca è percorsa dal motivo antitirannico: da Alceo
che esulta per la morte di Mirsilo (fr. 332 LP), o copre di insulti
Pittaco "to;n kakopatrivdan"( fr.
348 L P) dal padre ignobile, a Platone che certamente non risparmia
biasimi al turanniko;" ajnh;r.
Costui, nella Repubblica (573c) è uomo, per natura, o per le
abitudini, "mequstikov".. ejrwtikov",
melagcolikov"", incline al bere, al sesso, alla depressione; inoltre
è di animo sostanzialmente servile"oJ tw'/
o[nti tuvranno" tw/' o[nti dou'lo""(579e). Questa considerazione che
sembra paradossale, magari dettata a Platone da un risentimento personale nei
confronti dei despoti incontrati, è confermata da uno psicoanalista moderno:
E. Fromm in Fuga dalla libertà sostiene che" l'impotenza
dà luogo all'impulso sadico a dominare; nella misura in cui l'individuo è
capace, cioè in grado di realizzare le sue possibilità sulla base della libertà
e dell'integrità del suo io, non ha bisogno di dominare e non prova alcuna brama
di potere" (p. 144).
Il tiranno fa paura, come affermano la nutrice di Medea (119 sgg.), e Antigone
a proposito della sottomissione dei Tebani a Creonte (vv. 502-507) , La paura
del tiranno è genitivo soggettivo e oggettivo, ossia il despota vive
circondato dal fovbo" : fa paura e
ne ha.
Un doppio ruolo sintetizzato bene da Creonte nell'Oedipus di
Seneca:" Qui sceptra duro saevus imperio regit,/timet timentes;
metus in auctorem redit " (vv. 703-704), chi tiene crudelmente lo
scettro con dura tirannide, teme quelli che lo temono; la paura ricade su chi la
incute chi lo dice.
In forma meno sintetica Cicerone fa la stessa denuncia nel De officiis:
“Qui se metui volent, a quibus metuentur, eosdem metuant ipsi necesse est”
( II, 24), quelli che vorranno essere temuti, è inevitabile che essi stessi
temano quelli dai quali saranno temuti. Cicerone fa gli esempi di Dionigi il
vecchio e di Alessandro tiranno di Fere il quale sospettava perfino
della moglie, non a torto del resto poiché questa era un’altra furente che
infine lo uccise “propter pelicatus suspicionem (II, 25), per sospetto di
adulterio. La conclusione di Cicerone è. “Nec vero ulla vis imperii tanta
est, quae premente metu possit esse diuturna”, non c’è nessuna forza di
potere tanto grande che possa essere durare a lungo sotto la pressione della
paura.
Nell'Edipo re di Sofocle il tiranno di Tebe teme complotti e
chiama Creonte "lh/sthv" t j ejnargh;" th'"
ejmh'" turannivdo"" (vvv.
535), ladro evidente della mia tirannide. Il cognato più avanti ribatte
che preferisce riposare tranquillo piuttosto che comandare con paura
("a[rcein...xu;n fovboisi",
v. 585).
Perfino Eteocle delle Fenicie , il teorico del valore
assoluto del potere, rivolge una preghiera a
eujlavbeia, cautela, invocata come
crhsimwtavth qew'n, (v. 782), la più
utile delle dee.
"La paura e la diffidenza appaiono dunque connaturate al tiranno"[2].
La paura del tiranno è stata messa in evidenza anche dal cesariano Sallustio:"Nam
regibus boni quam mali suspectiores sunt, semperque iis aliena virtus
formidulosa est "[3],
infatti ai re sono più sospetti i valenti che gli inetti, e la virtù degli altri
per loro è sempre motivo di paura.
Si ricordi ancora il formidolosum dell'Agricola (39) di Tacito.
“In realtà il tiranno è circospetto perché teme. La sua paura accompagna il suo
potere: “governare in mezzo alle paure”, questa è la condizione del tiranno
(Sofocle, Edipo re, v. 585[4]).
Fine tiranno
Ma torniamo a Otane di Erodoto (III, 80, 6)
La cosa più grave è questa: "novmaiav te
kinevei pavtria kai; bia'tai gunai'ka" kteivnei te ajkrivtou"" (III, 80,
5) sovverte le patrie usanze, violenta le donne e manda a morte senza giudizio.
"Così il persiano Otane riassume ciò che è in sostanza il motivo comune fra i
Greci per l'opposizione alla tirannide"[5].
Nelle tragedie il tiranno è il paradigma mitico di questo principio.
Invece il governo del popolo ha il nome più bello, l’uguaglianza davanti alla
legge: “plh̃qoς
de; a[rcon prw̃ta me;n ou[noma
pavntwn kavlliston e[cei, ijsonomivhn (6), poi esercita a sorte le
magistrature (pavlw/ me;n ajrca;ς
a[rcei ) e ha un potere soggetto a controllo (uJpeuvqunon
de; ajrch;n e[cei) e presenta tutte le deliberazioni del consiglio
all’assemblea pubblica (bouleuvmata de;
pavnta ejς to; koino;n ajnafevrei).
I bouvleumata non sono
khruvgmata, ordinanze, editti.
(Cfr. anche i Persiani di Eschilo)
Otane dunque propone la democrazia, perché nella massa deve stare ogni potere.
Megabizo invece parlò in favore dell’oligarchia (I, 81). Accetta la
critica alla tirannide ma non l’elogio del popolo. Infatti dice non c’è niente
di più stupido (oujdevn ejsti
ajxunetwvteron, cfr. sunivhmi),
né più prepotente ( uJbristovteron)
di una moltitudine buona a nulla (oJmivlou
ajcrhivou).
Il monarca è caratterizzato dall’ybris, il
dh̃moς
è sfrenato (ajkovlastoς)
La moltitudine non ha imparato niente da altri e non conosce da sé nulla di
buono, e sconvolge lo Stato scagliandosi a[neu
novou simile a un fiume invernale (ceimavrrw/
potamw̃/ i[keloς, 81, 2).
D'Annunzio in Il piacere
denuncia "il grigio diluvio democratico odierno, che molte belle cose e rare
sommerge miseramente"; un nubifragio sotto il quale "va anche a poco a poco
scomparendo quella special classe di antica nobiltà italica, in cui era tenuta
viva di generazione in generazione una certa tradizione familiare d'eletta
cultura, d'eleganza e di arte" (p. 38).
Dunque, aggiunge Megabizo, il potere va affidato a un gruppo ristretto di
uomini migliori (ajndrw̃n
tw̃n ajrivstwn)
Nelle Supplici di Euripide, l’araldo tebano parla contro la
democrazia: “ il popolo che non
sa tenere in piedi i propri discorsi, come potrebbe tenere dritta la città?
(417-418)
Ciano nel suo Diario ha scritto che Mussolini diceva: “il popolo non sa mai
quello che vuole, tranne guadagnare molto e lavorare poco” (22 maggio 1938)
Poi: “Solo un paese vile, brutto, insignificante può essere democratico. Un
popolo forte ed eroico tende all’aristocrazia” (24 giugno 1938)
Torniamo a Erodoto. Per ultimo parlò Dario. Approva Megabizo sulla
democrazia, lo confuta sull’oligarchia.
Secondo lui il sistema migliore è la monarchia anche se
tw̃/
lovgw/, a parole sono ottime tutte e tre.
Non c’è niente di meglio di un uomo ottimo il quale con il suo senno (gnwvmh/,
III, 82, 2) guida tutto il popolo in modo irreprensibile
ajmwvmhtoς. Nell’oligarchia invece
gli oligarchi giungono a grandi inimicizie, da cui nascono stragi, quindi si
passa alla monarchia che così si rivela il regime migliore. Quando invece
comanda il dh̃moς
(dhvmou te au\ a[rcontoς, III, 82,
4) è impossibile che non sopravvenga la malvagità (ajduvnata
mh; ouj kakovthta ejggivnesqai) e i malvagi instaurano tra loro
filivai ijscuraiv, salde amicizie,
poiché danneggiano gli interessi comuni cospirando tra loro.
Questo avviene finché li fa cessare uno che viene proclamato monarca. E ancora
una volta si vede wJς
hJ mounarcivh kravtiston.
Del resto per farla breve: a noi la libertà chi l’ha data? Non il popolo né
l’oligarchia ma un monarca. Manteniamo dunque la monarchia
III, 83. Vennero dati dunque questi 3 pareri e gli altri quattro aderirono
all’ultimo.
Otane che voleva dare ai Persiani l’isonomia, sconfitto, non volle
entrare in lizza per diventare re, e disse: “ejgw;
me;n nun uJmĩn oujk enagwnieũmai:
ou[te ga;r a[rcein ou[te a[rcesqai ejqevlw” (III, 83, 2).
In Erodoto c’è, come in Eschilo, una logica aperta al contrasto: lo
storiografo conferisce nobiltà a Otane e pure allo spartano Demarato che
comunque era al servizio di Serse e disse al re che ai Greci è sempre stata
compagna assidua penivh, la
povertà, mentre la virtù (ajrethv)
è un acquisto successivo, operato attraverso la saggezza (ajpo;
te sofivhς) e leggi severe (kai;
novmou ijscuroũ)
Avvalendosi di queste, la Grecia si difende dalla povertà e dalla tirannide (VII,
102, 1).
Quanto agli Spartani in particolare, essi sono liberi, ma non del tutto (ouj
pavnta ejleuvqeroiv eijsi, VII, 104, 4) perché su di loro comanda la
legge (e[pesti ga;r sfi despovthς
novmoς). Cfr. Senofonte e Polibio. Il popolo che rivendica il diritto di
fare ciò che vuole.
Tucidide
Il primo discorso di Pericle del 431 ( Storie, II, 140-144)
Socrate nel Fedro afferma che probabilmente Pericle è stato il più
perfetto nell’oratoria.
Tucidide lo introduce scrivendo che Pericle era prw`to~ jAqhnaivwn , il primo degli Ateniesi e il più capace di parlare e di agire: “levgein te kai; prassein dunatwvtato~. Essere cittadini significa anche avere delle capacità: in primis quella di parlare e si agire conseguentemente.
Nel 427, Diodoto parlando contro Cleone, dice che i discorsi sono maestri dei fatti (lovgoi didavskaloi tw`n pragmavtwn III, 42, 2)
Pericle chiede di non cedere agli Spartani (mh;
ei[kein, I, 140, 1).
Tucidide si rifà a un’idea razionale dell’uomo e della storia e, come poi
Cesare, dà poco spazio ai motivi irrazionali delle imprese.
Svetonio ricava “il dado è tratto” da Asinio Pollione.
Però Tucidide non elimina del tutto il
para; lovgon: a volte la tuvch
conduce i fatti para; lovgon appunto
contro il ragionato calcolo.
Non bisogna cedere alle richieste degli Spartani di abrogare il decreto di
Megara e di togliere l’assedio a Potidea, altrimenti arriveranno altri ordini
Sono i capitali , le eccedenze che sostengono le guerre (aiJ
periousivai tou`~ polevmou~ ajnevcousin) e i Peloponnesiaci ne sono
privi. Senza denaro non si colgono le occasioni le quali non aspettano (oiJ
kairoi; ouJ menetoiv, I, 142, 1), sarà importante dominare il mare e gli
Spartani non possono poiché la nautica è fatta di tecnica e di capitali.
(Cfr,
l’ajcrhmativa di, I, 11. Inficiava
la grandezza e la potenza della flotta contro Troia).
Non
importa se i campi verranno danneggiati; basta che si salvino le vite umane,
poiché sono gli uomini ad acquistare le cose, non le cose gli uomini. Grande
cosa è il dominio sul mare: “mevga ga;r to;
th̃ς qalavsshς
kratoς (I, 143, 3).
Un
discorso in antitesi rispetto a questo lo fa l’oligarca della Costituzione
degli Ateniesi: “ad Atene la canaglia ha preso il potere perché è il
popolo che fa andare le navi: “oJ ejlauvnwn
ta;ς naũς”
Pericle conclude il primo discorso ricordando che i loro padri che pure non
avevano tante risorse e anzi abbandonarono quelle che possedevano, affrontarono
i Medi con l’intelligenza (gnwvmh/)
più che con la fortuna (plevoni h] tuvch/),
con il coraggio più grande della potenza (tovlmh/
meivzoni h] dunavmei) I, 144, 4. Si vede che entra anche l’elemento
irrazionale.
Gli
Ateniesi votarono come lui volle.
Secondo discorso è il lovgoς
ejpitavfioς
Essere cittadino. Il torneo oratorio di Sparta
I
Corinzi parlano degli Ateniesi con l’acume dell’odio alla I assemblea non
plenaria dei delegati della lega Peloponnesiaca tenutasi a Sparta nel 432
Per
tutta la vita essi si affaticano tra prove e pericoli-meta;
povnwn kai; kinduvnwn mocqoũsi
e godono pochissimo di quello che hanno, perché sempre acquistano-dia;
to; aijei; ktãsqai, e non
considerano una festa altro che fare ta;
devonta, quello che devono, e una sventura non meno una tranquillità
inattiva che un’attività penosa ( I, 70)
Anche nella tecnica prevale la scoperta più recente. Così nella politica, che
è una tecnic, ci vogliono sempre innovazioni:
pollh̃ς
th̃ς ejpitecnhvsewς
deĩ (I, 71).
Voi
Spartani non vi rinnovate.
Quindi parlarono gli Ateniesi. Rivendicano i loro meriti nelle guerre
persiane: ci misero il maggio numero di navi, lo stratego più intelligente e
l’impegno più risoluto proqumivan
ajoknotavthn (I. 74).
C’è
una logica del potere
Al
nostro successivo potenziamento siamo stati costretti.
kathnagkavsqhmen dal timore (malivsta
uJpo; devouς) , dall’onore (e[peita
kai; timh̃ς) e dall’utile (u{steron
kai; wjfelivaς).
E’
stabilito da sempre che il più debole sia sopraffatto da più forte (aijei;
kaqestw̃toς
to;n h{ssw ujpo; toũ dunatwtevrou
kateirgesqai, I, 76) e noi ne siamo degni. Noi esercitiamo la supremazia
con moderazione metriavzomen.
I processi
Abbiamo fama di amare i processi: filodikeĩn
dokoũmen (I, 77), e lo
riconosciamo: quelli che possono fare violenza infatti non hanno bisogno di
processi biavzesqai ga;r oi|ς
a}n ejxh̃/ , dikavzesqai oujde;n
prosdevontai (I, 77).
Lovgoς
ejpitavfioς (II, 35-46) tenuto nell’inverno 431-430.
La
lode dei caduti sta nelle loro gesta, non nelle parole dell’oratore che deve
solo trovare parole adeguate ai fatti.
Sono i pepaideuomevnoi capaci di
farlo.
Chi
parla è spesso portato a straparlare: è difficile infatti parlare con misura (calepo;n
ga;r to; metrivwς eijpeĩn,
II, 35, 2). Di chiacchierare sono capaci tutti, ma come dice Pelasgo nelle
Supplici di Eschilo: “makra;n ge me;n
dh; rJh̃sin ouj stevrgei povliς
(273).
Gli
ascoltatori provare invidia e non credere a ciò che supera la loro mediocrità.
Pericle cercherà comunque di seguire la tradizione e di incontrare le
aspettative degli uditori.
Pericle del resto poteva pure permettersi di contraddire i gusti del suo popolo
e provocarlo fino all’ira pro;ς
ojrghvn in quanto era chiaramente incorruttibile riguardo al denaro: “
diafanw̃ς
ajdwrovtatoς genovmenoς
kateĩce to; plh̃qoς
ejleuqevrwς” (II, 65).
Torniamo al lovgoς. Gli abitanti
dell’Attica sono autoctoni da sempre.
I
loro padri hanno conquistato l’impero (ajrchvn)
non senza fatica (oujk ajpovnwς) e i
figli lo hanno accresciuto (II, 35, 2) rendendo Atene
aujtarkestavthn, assolutamente in
grado di badare a se stessa.
Ma
l’autarchia assoluta non è possibile come capisce il
Duvskoloς di Menandro quando cade
in un pozzo (credevo di essere aujtavrkhς)
(713 ss.)
La
grandezza di Atene è dovuta e alla sua costituzione (politeiva)
e ai suoi costumi (trovpoi), detto
in breve, poiché Pericle non vuole
makrhgoreĩn, parlare
prolissamemente. Polibio ripeterà queste formule siccome Tucidide
ejnomoqevthse, legiferò (cfr.
Luciano)
La
tragedia mette in rilievo anche l’accoglienza dei supplici da parte della polis
ateniese: negli Eraclidi, Demofonte, figlio di Teseo e di Fedra, accoglie
i supplici perseguitati da Euristeo. Nella parodo ol coro dice che è empio per
una città trascurare la supplice preghiera di stranieri (107-108)
La
terra ateniese da sempre vuole contribuire con la giustizia ad aiutare chi è
privo di risorse: “ajei; poq j h{de gaĩa
toĩς ajmhcavnoiς
su;n tw̃/ dikaivw/ bouvletai
proswfeleĩn” (329-330).
Arriano fa dire a Callistene che un fuggitivo poteva salvarsi presso gli
Ateniesi che avevano combattuto Euristeo il quale perseguitava gli Eraclidi e
allora tiranneggiava la Grecia: “turrannoũnta
ejn tw̃/ tovte th̃ς
JEllavdoς (Anabasi di
Alessandro, 4, 10, 4).
Nelle Supplici, Etra, la madre di Teseo incoraggia il figlio ad aiutare
le donne argive le quali pregano Atene di soccorrere le madri: tu non lasci
spazio all’ingiustizia e proteggi i disgraziati ( 379-380)
Nell’ Edipo a Colono il protagonista
dice che Atene è la città più pia, la sola capace di aiutare lo straniero
maltrattato (266-267)
Quindi Isocrate nel Panegirico , un caldo elogio di Atene, dove l’autore
dice che prima della guerra di Troia andarono nella città di Pallade gli
Eraclidi e Adrasto re di Argo
Nella Tebaide di Stazio Giunone si muove verso le mura di Atene per
convincere Pallade e aprire Atene bendisposta verso i supplici pii (supplicibusque
piis faciles aperiret Athenas (XII, 294)
L’articolo 10 della nostra Costituzione dice: “Lo straniero al quale sia
impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche
garantite dalla costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della
Repubblica. Non è ammessa l’estradizione per motivi politici.
Quindi il paragrafo 2, 37, 1 che riceve un’altra eco dalla nostra costituzione
Noi, dice Pericle abbiamo una costituzione esemplare (paravdeigma)
e degna di essere imitata. Si chiama democrazia è c’è una condizione di
uguaglianza (to; i[son) per tutti.
Si viene eletti alle cariche pubbliche secondo la stima del valore (kata;
de; th;n ajxiwvsin) né uno viene preferito alle cariche pubbliche per il
partito di provenienza (oujk ajpo; mevrouς)
più che per il valore (to; plevon ejς
ta; koina; h] ajp j ajreth̃ς), né del resto secondo il criterio della
povertà (oujd j au\ kata; penivan)
se può fare qualche cosa di buono per la città, ne è stato impedito per
l’oscurità della sua posizione sociale (ajxiwvmatoς
ajfaneiva/ kekwvlutai).
Sentiamo allora la nostra Costituzione.
Articolo 1: L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro. La
sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della
Costituzione”.
L’articolo 3 è forse il più noto: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale
e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di
religione, di condizioni personali e sociali
Comma B. E’ compito della repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico
e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini,
impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione
di tutti i lavoratori alla organizzazione politica, economica e sociale del
paese.
Nel
Menesseno di Platone, Aspasia dice che nessuno è stato escluso per
povertà (peniva/), né per oscurità
dei padri, né d’altra parte per condizioni opposte è stato ritenuto degno di
onore (238d)
Sarebbe stata Aspasia a comporre questo discorso per Pericle.
Senofonte indica invece l’esemplarità dell Costituzione spartana: Licurgo non ha
imitato altre costituzioni ma ha scelto l’opposto rispetto alla maggior parte di
esse (Costituzione degli Spartani, I).
Polibio individua la prima Costituzione mista (mikth; politeiva) nella
rJhvtra di Licurgo (VI, 3, 8).
C’erano i re, la gerousiva, l’Apella
e gli Efori che sindacavano l’operato dei potenti.
Isocrate nell’Areopagitico, il principale scritto di politica interna,
del 356, scrive che la Costituzione non è altro che l’anima dello Stato (e[sti
ga;r yuch; povlewς oujde; e{tereon
h} politeiva (14)
Il
liberal conservatore Tocqueville voleva ridurre al minimo le scuole classiche in
quanto c’è il rischio che producano giacobini e rivoluzionari (La democrazia in
America, 1840). Mentre il comunista Gramsci sosteneva che il latino e il greco
sono il più efficace strumento di disciplina intellettuale.
Giovanni Ghiselli
P.
S. Il blog è arrivato a 153992 lettori
Esporrò questo percorso il 24 giugno alle 19, in piazza Verdi a Bologna
[1] Del 98 d. C.
[2]
D. Lanza, Il tiranno e il suo pubblico., p. 47.
[3] De Catilinae coniuratione , 7.
[4] a[rcein..
xu;n fovboisi (v. 585) ndr.
[5]
C. M. Bowra, Mito E Modernità Della Letteratura Greca
, p. 170.
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