Essere cittadino III parte 14 giugno 2014
Tucidide II, 40, 2
Il cittadino-polivthς,
non può non partecipare alla vita della
povliς.
Solo noi consideriamo (nomivzomen)
non pacifico ( oujk ajpravgmona)
ma inutile (ajll j ajcreĩon)
chi non prende parte alla vita politica (tov
te mhde;n tw̃nde metevconta).
Plutarco ricorda che tra le leggi di Solone
era sorprendente quella che sanciva l’ajtimiva,
la perdita dei diritti per chi in caso di sedizione non si fosse schierato da
nessuna parte (Vita di Solone, 20, 1)
Alla direttiva del
mevtecein
gli oligarchici contrapposero l’esaltazione della vita privata con il
ta; eJautoũ
pravttein
I professori fascisti dicevano: a scuola non
si deve fare politica.
Anche Euripide polemizza contro questa
tendenza all’astensionismo politico. Il Ciclope del suo dramma satiresco afferma
che il suo dio è la pancia e biasima i legislatori che con le leggi hanno
complicato la vita umana ( oiJ de;
tou;ς novmouς-
e[qento poikivllonteς ajnqrwvpwn
bivon, Ciclope, 338-339)
II, 40, 2
Non riteniamo i discorsi un danno per le
azioni (ouj tou;ς
lovgouς toĩς
e[rgoiς blavbhn),
ma piuttosto è un danno non essere informati con la parola prima di agire
II, 40, 3
Calcoliamo i rischi in maniera molto precisa,
eppure osiamo . Anche in questo ci distinguiamo dagli altri (diaferovntwς
kai; tovde e[comen).
C’è l’orgoglio della propria diversità
““Ma
ecco, non bisogna essere come gli altri”. suggerisce Alioscia Karamazov allo
studente Kolia
[1]. “Continuate, dunque, a
essere diverso dagli altri; anche se doveste rimanere solo, continuate lo
stesso”[2].
"Della
nostra esistenza dobbiamo rispondere a noi stessi, di conseguenza vogliamo agire
come i reali timonieri di essa e non permettere che assomigli ad una casualità
priva di pensiero…E' così provinciale obbligarsi a delle opinioni che, qualche
centinaio di metri più in là già cessano di obbligare…Al mondo vi è un'unica via
che nessuno oltre a te può fare: dove porta? Non domandare, seguila"
[3].
II, 40, 3
Conosciamo lucidamente gli aspetti terribili
e quelli piacevoli della vita e non per questo ci tiriamo indietro dai pericoli
ta; te deina; kai; hJdeva safevstata
gignwvskonteς kai; dia; taũta
mh; ajpotrepovmenoi ejk tw̃n
kinduvnwn”.
Viene in
mente il dionisiaco e pure l’apollineo di Nietzsche
"Con il termine "dionisiaco" si
esprime: un impulso verso l'unità, un dilagare al di fuori della persona, della
vita quotidiana, della società, della realtà, come abisso dell'oblio…un'estatica
accettazione del carattere totale della vita…la grande e panteistica
partecipazione alla gioia e al dolore, che approva e santifica anche le qualità
più terribili e problematiche della vita…
Con il termine apollineo si
esprime: l'impulso verso il perfetto essere per sé, verso l'"individuo" tipico,
verso tutto ciò che semplifica, pone in rilievo, rende forte… Lo sviluppo
ulteriore dell'arte è legato all'antagonismo di queste due forze artistiche
della natura così necessariamente come lo sviluppo ulteriore dell'umanità è
legato all'antagonismo dei sessi. La pienezza della potenza e la moderazione, la
più alta affermazione di sé in una bellezza fredda, aristocratica, ritrosa: l'apollinismo
della volontà ellenica"
[4].
Tucidide II, 40, 4
Siamo il contrario dei più anche per quanto riguarda l’ajrethv:
infatti ci procuriamo gli amici non ricevendo il bene, ma facendolo (
ouj ga;r pavsconteς
eu\ , ajlla; drw̃nteς).
Cfr. Edipo l’eroe della passività e Prometeo dell’attività (Nietzsche)
Chi fa del bene conserva cavrin,
gratitudine, mentre chi lo riceve è lento a contraccambiare e teme di non potere
farlo.
La cavriς
è un valore molto forte della cultura greca (cfr. Teognide, l’Eracle di
Euripide dove Teseo dice “cavrin de;
ghravskousan ejcqaivrw fivlwn” 1223.
Oppure il Giulio Cesare di
Shakespeare: “ ingratitude more strong than traitor’s arms/quite vanquished
him: then …great Caesar fell” (III, 2)
O il Tito Andronico dove Tamora ex regina dei Goti dice a Saturnino di
prendere tempo prima di annientare Tito che lo ha aiutato nell’ascesa al trono:
rischierebbe troppo: “for ingratitude/which Rome reputes to be a heinous sin
(I, 1), un peccato odioso.
II, 40, 5
Noi siamo i soli che portiamo aiuto a uno senza timore (ajdew̃ς
tina; wjfeloũmen)
non più per il calcolo dell’utile (ouj
toũ xumfevrontoς
mãllon logismw̃̃/)
che per fiducia nella liberalità.
II, 41, 1
Riassumendo dico che l’intera città è scuola dell’Ellade (xunelwvn
te levgw thvn te pãsan povlin th̃ς
j Ellavdoς paivdeusin ei\nai),
una città dove ciascuno può conservare la propria persona indipendente a (to;
swvma au[tarkeς, una specie di
habeas corpus) con la massima eleganza (meta;
carivtwn malist
j
) e con versatilità (eujtrapevlwς)
aperta a molti generi di formazione.
II, 42, 2
Questo non è un vanto di parole (ouJ
lovgwn kovmpoς) ma verità di fatti (e[rgwn
ajlhvqeia). Lo dimostra la potenza
stessa della città (aujth; hJ
duvnamiς povlewς
shmaivnei).
La
ajlhvqeia, “non latenza” e la “non
dimenticanza” dei fatti è la potenza della città.
II, 41, 3
La nostra è l’unica città che arriva alla prova più forte della fama –ajkoh̃ς
kreivsswn- e non viene biasimata né dai
nemici né dai sudditi poiché non è mai indegna del suo ruolo.
Un ruolo di comando
Caratteristiche e doveri di chi comanda
Senofonte nella Ciropedia (I, 3, 1) sostiene che il capo di buona natura
si distingue per la rapidità nell’apprendere e per l’eleganza e il coraggio con
cui agisce.
Platone nella Repubblica fa
dire a Socrate che un capo vero e genuino ("tw'/
o[nti ajlhqino;" a[rcwn", 347d) deve cercare non il proprio utile, bensì
quello dei governati.
Manzoni ne I Promessi Sposi
afferma la persuasione "di ciò che nessuno il quale professi cristianesimo può
negar con la bocca, non ci esser giusta superiorità d'uomo sopra gli uomini, se
non in loro servizio ( XXII cap.).
Così in effetti aveva insegnato un
discepolo di Zenone ad Antigono Gonata re di Macedonia (276-239) cui "il
regnare apparve un "onorevole servire", e[ndoxo"
douleiva (Eliano, Var. hist. II 20)"
[5].
Seneca nel De Clementia
sostiene che la tanto celebrata felicità del principe consiste nel dare salvezza
a molti, nel richiamare la vita dalla morte stessa e nel meritare la corona
civica con la clemenza:"Felicitas illa multis salutem dare et vitam ab ipsa
morte revocare et mereri clementia civicam "(III, 24, 5).
Tra i moderni, in E. Fromm troviamo una
posizione simile a quella, già indicata, di Manzoni:"Il capo non è soltanto la
persona tecnicamente più qualificata, come deve essere un dirigente, ma è anche
l'uomo che è un esempio, che educa gli altri, che li ama, che è altruista, che
li serve. Obbedire a un cosiddetto capo senza queste qualità sarebbe viltà"
[6].
Non proprio questo però era il ruolo di Atene
nei confronti dei sudditi.
II, 41, 4. Siamo e saremo dai posteri
senza avere bisogno né di un Omero elogiatore (oujde;n
prosdeovmenoi ou[te JOmhvrou ejpainevtou) né di chiunque altro che
diletterà con i versi sul momento ( ou[te
o{stiς e[pesi me;n to; aujtivka
tevryei).
( Cfr. cfr
to; mh; muqw'de" di I, 22, 4"
e la mancanza del favoloso di questi fatti , verosimilmente, apparirà meno
piacevole all'ascolto".-) e, subito dopo, “infatti
come un possesso per l'eternità più che come declamazione da udire per il
momento di una gara, essa è composta”.
La verità metterà nudo quanto è solo presunto
e noi saremo ammirati per avere reso il mare e la terra accessibile
(ejsbatovn) alla nostra audacia
avendo edificato ovunque
II, 41, 5
Per una tale città dunque, perché non venisse
loro tolta, i nostri concittadini morirono combattendo nobilmente
gennaivwς
,
II, 42,1
Mi sono dilungato per insegnarvi –didaskalivan
te poiouvmenoς- che il nostro agone per una tale città non è lo stesso
che hanno altri. Componente didascalica e agonistica.
Nietzsche scrive:"Indizi di una natura
aristocratica: non degradare mai i propri doveri, pensando che siano i doveri di
tutti; non voler rinunciare mai alla propria responsabilità e non volere
dividerla con nessuno"[7].
II, 42, 2
Il valore dei morti ha reso belle le mie
parole. Il discorso corrisponde ai fatti.
II, 42, 3
Quei morti possono avere compiuto anche azioni
meno belle ma hanno fatto sparire il male con il bene recando pubblico vantaggio
più di quanto abbiano danneggiato con i loro vizi privati
II, 42, 4
Nessuno di loro si rammollì (ejmalakivsqh)
godendo della ricchezza, né rimandò il pericolo, ma stimò questo cimento il più
nobile dei rischi (kinduvnon kavlliston)
.
Preferirono soffrire che salvarsi cedendo (h]
ejndovnteς sw/vzesqai) e
nella brevissima occasione offerta dal destino se ne andarono al colmo della
gloria.
Vediamo qui l’ideale eroico del non
cedere (Achille nell’Iliade, Callino e Tirteo (VII secolo). Il guerriero
piantato in prima fila è xuno;n ejsqlovn,
un bene comune per la città e il popolo. Muore combattendo in prima fila con i
piedi ben fissati al suolo e mordendo il labbro con i denti
ceĩloς
ojdoũsi dakwvn (Tirteo, fr.
10 W. 32)
Pindaro nell’Olimpica I scrive
oJ mevgaς
de; kivndunoς a[nalkin ouj fw̃ta
lambavnei (vv. 82-83)
L’Achilleide di Stazio racconta
l’educazione del Pelide da parte di Chitone che spingeva il ragazzo a battere
nella corsa i cervi veloci e i cavalli dei Lapiti (II, 111-113)
L’eroe non cede (Achille in Iliade XIX,
423 ouj lhvxw, non cederò) e Pericle
nel terzo discorso della fine estate del 430 dice che Atene ha grandissima
rinomanza tra gli uomini dia; to; taĩς
xumforaĩς mh; ei[kein, (II,
64, 3) per il fatto che non cede alle disgrazie.
Platone nel Fedro dice che hanno vinto
una delle tre gare veramente olimpiche quelli che fanno prevalere la parte
migliore dell’anima: l’auriga aiutata dal cavallo bianco.
Ma Leopardi nello Zibaldone
sostiene che “l’eroismo e la perfezione sono cose contraddittorie. Ogni eroe è
imperfetto” (471). Enea è meno bello di Achille.
II, 43, 1
Questi caduti furono tali da convenire alla
città (proshkovntwς
th̃/ povlei ejgevnonto)
Le hanno dato un vantaggio. I vivi devono
seguire il loro esempio
II, 43, 2
Dando la loro vita per il bene comune hanno
ricevuto una lode che non invecchia (ajghvrwn
e[painon ejlavmbanon) e una tomba dove la gloria rimane indimenticabile.
Nell’Eracle di Euripide, il Coro dei
vecchi Tebani dice: il valore delle imprese nobili è l’ornamento dei morti (“gennaivwn
d j ajretai; povnwn toĩς qanoũsin
a[galma” (357-358)
La loro tomba è un’ara, come quella dei caduti
alle Termopili cantati da Simonide (bwmo;~
d j oJ
tavfo~, fr. 26 P., v. 3) che
riaffiora nella Canzone all’Italia di Leopardi (“La vostra tomba è
un’ara”, v. 125)
II, 43, 3
Ogni terra è tomba degli uomini insigni il cui
ricordo aleggia ovunque.
II, 43, 4
Considerate felicità la libertà e la libertà
coraggio e non abbiate paura della guerra.
Felicità è la coincidenza tra il nostro essere
in potenza e il nostro essere in atto. L’infelicità è lo squilibrio tra la
potenza e l’atto.
II, 43, 5-6
Più dolorosa della morte è la sventura con la
debolezza morale.
II 44, 1
Morire può coincidere con essere felici. Quei
morti hanno compiuto la vita felicemente.
Cfr. La sapienza silenica
II, 44, 2-3-4
I genitori dei morti devono consolarsi
pensando alla gloria. I più giovani possono avere la speranza di altri figli. La
gloria non invecchia ed essere onorati è il guadagno più grande
II 45, 1-2
I morti hanno lasciato un grande esempio e una
grande gara ai figli e ai fratelli (oJrw̃
mevgan to;n ajgw̃na)
Il vanto delle donne sarà non essere inferiori
alla loro natura, e buona sarà la reputazione di quella la cui rinomanza in
lode o biasimo sarà minima tra gli uomini.
II, 46, 1-2
I sepolti sono stati onorati e i loro figli
saranno mantenuti a spese pubbliche. Ora che avete pianto abbastanza, andate a
casa.
II, 47, 1
Tale discorso cadde nell’inverno (431-430) e
passato questo finiva il primo anno di guerra.
Ultimo discorso di Pericle (II. 60-64) e
giudizio di Tucidide sull’uomo
Nel 430 ci fu la seconda invasione dell’Attica
da parte di Archidamo e la peste,
Pericle ricorda di essere
filovpoliς
te kai; crhmavtwn kreivsswn (II, 60, 5) amante della città e superiore
al denaro.
Un’identità che non cambia, mentre talora muta
quella del popolo.
Dovete imparare a non cedere alle disgrazie (taĩς
xumforaĩς mh; ei[kein)
Tucidide apprezza Pericle: la sua
provnoia, gli faceva prevedere che
bisognava curarsi della flotta e non correre rischi (II, 65, 6-7).
Nella veduta tucididea la politica è l’arte
della previsione.
Dopo la sua morte, gli Ateniesi vennero
fuorviati dai demagoghi
Tucidide fa l'elogio finale di Pericle dicendo lo statista, per il fatto
di essere chiaramente e assolutamente incorruttibile dal denaro (crhmavtwn
te diafanw'~ ajdwrovtato~
[8]
genovmeno~ ,
II, 65, 8) , teneva in pugno la massa
lasciandola libera ("katei'ce to;
plh'qo" ejleuqevrw"").
“plh`qo~
sono i cittadini che formano la massa dell’assemblea popolare, la parte più
“democratica” del popolo, in contrapposizione con correnti più conservatrici o
anche oligarchiche”
[9].
Confronto
tra Pericle e Alcibiade che non realizzò i piani del suo predecessore.
Verso la
fine delle Storie di Tucidide si legge che Alcibiade, quando (nel 411) la flotta
di Samo si accingeva a navigare contro Atene, fermò i marinai nel momento in cui
nessun altro sarebbe stato capace di trattenere la folla:"kai;
ejn tw'/ tovte a[llo" me;n oujd j a]n ei\~ iJkano;" ejgevneto katascei'n to;n
o[clon"(VIII, 86, 5); egli però fu
responsabile dell'impresa fallimentare di Sicilia che, a giudizio di Tucidide,
fu "peggio di qualsiasi delitto; fu un errore politico o meglio una serie
d'errori"
[10].
Sulla vita
privata non irreprensibile di Alcibiade, Tucidide afferma che aveva desideri
troppo grandi rispetto alle sue ricchezze, sia per l'allevamento di cavalli sia
per le altre spese:" ejpiqumivai"
meivzosin h] kata; th;n uJpavrcousan oujsivan ejcrh'to e[" te ta;" iJppotrofiva"
kai; ta;" a[lla" dapavna""(VI 15, 3);
e, per questo essendo criticabile, non poteva permettersi a lungo l'arroganza
con cui diceva:"Kai; proshvkei moi
ma'llon eJtevrwn, w\ jAqhnai'oi, a[rcein"(VI
16, 1), spetta a me Ateniesi, più che ad altri comandare.
Pericle poteva contrastare il dh'mo"
fino a spingerlo all'ira (kai; pro;"
ojrghvn, II, 65, 8) poiché era
inattaccabile nelle questioni di denaro:"ciò gli dava l'autorità di dire al
popolo la verità, anziché piaggiarlo. Egli ebbe sempre le redini in pugno: se la
moltitudine voleva romper la cavezza, egli sapeva imporlesi e intimidirla; se
era abbattuta, sapeva rianimarla. Così Atene sotto di lui, "non era più una
democrazia che di nome, ma in realtà era l'imperio del primo uomo"
[11].
Tucidide usa un'espressione ( "
ejgivgnetov te lovgw/ me;n dhmokrativa, e[rgw/ de; uJpo; tou' prwvtou ajndro;"
ajrchv", II, 65, 9) per la quale Jaeger
nota che "la teoria filosofica posteriore, della costituzione mista quale ottima
forma di Stato, è qui anticipata da Tucidide. La "democrazia" ateniese non è per
lui la realizzazione di quell'esteriore eguaglianza meccanica che gli uni
esaltano quale apice della giustizia, gli altri condannano quale suo opposto"
[12].
La
democrazia ateniese del tempo di Pericle, nel discorso epitafico di Aspasia
riferito da Socrate nel Menesseno di Platone è un’aristocrazia con il
consenso della massa: “met j
eujdoxiva~ plhvqou~ ajristokrativa”
(238d).
E’ quello
che Canfora chiama “ Il meccanismo della circolarità masse-capi….Il demo
crede di imporre il proprio volere ma è il capo che lo pilota, anche attraverso
i “retori minori”…Quella circolarità riemerge, sulla scala dei millenni, ogni
volta che un moto di popolo, un ridestarsi del “popolo”, prende corpo e dà forma
a uno Stato”[13].
Alexis De
Tocqueville nota che “Atene, con il suo suffragio universale, non era dunque,
dopotutto, che una repubblica aistocratica in cui tutti i nobili avevano eguale
diritto di governo”[14].
Era insomma una aristocrazia democratica, e, per certi versi, socialista.
“Pericle è
considerato in particolare come colui che “reggeva saldamente la folla, pur
nella libertà, e la guidava più di quanto non fosse da essa guidato” (II 65, 8),
colui che aveva trasformato, quasi insensibilmente e senza pregiudizio alcuno
per i cittadini, la democrazia vigente ad Atene in una sorta di regime
personale: “a parole si trattava dunque di una democrazia, ma in realtà del
governo del primo cittadino” (II 65, 9). Approvare in pieno e con entusiasmo la
politica periclea, per un ateniese del tempo di Tucidide, significava
sostanzialmente accettare le due realtà che ne costituivano le emanazioni più
dirette: il regime democratico e l’impero. Qualche riserva, tuttavia, Tucidide
esprime sia sulla politeia democratica, sia sul ruolo imperiale della
città. Per quanto riguarda la democrazia, la questione è abbastanza semplice: lo
storico manifesta con insistenza giudizi negativi e talvolta vero e proprio
disprezzo nei confronti delle masse, che gli appaiono incompetenti, incostanti e
volubili (cfr. II 65, 4; IV 28, 3; VIII 97, 2); di conseguenza, la sua adesione
ad un regime che prevedeva e consentiva di fatto la partecipazione di tutti i
cittadini al governo dello Stato era necessariamente subordinata alla esistenza
di una qualche forma di controllo delle forze popolari. Uno dei grandi meriti di
Pericle era stato appunto quello di avere esercitato una funzione di controllo
sulla massa.
Il giudizio
espresso a proposito del governo dei Cinquemila instaurato nel 411 a. C.
costituisce un preciso riscontro a questa interpretazione della posizione
politica di Tucidide: “allora per la prima volta, almeno per quanto riguarda
i miei tempi, gli Ateniesi risultarono retti da un governo assai buono. Si ebbe,
infatti, una moderata combinazione fra gli oligarchici e la massa e ciò
contribuì più di ogni altra cosa a sollevare la città da una situazione che era
diventata brutta” (VIII 97, 2).
Morto
Pericle , vennero alla ribalta personaggi che non solo non erano in grado di
esercitare alcuna funzione di controllo, ma subivano anche forti condizionamenti
dalla massa ed erano più inclini a compiacerla per soddisfare le ambizioni
personali che a contrastarla per salvaguardare i superiori e generali interessi
dello Stato (II 65, 10).
“Soltanto
un regime di democrazia moderata o di oligarchia allargata, che comportava
l’estromissione dalla vita politica di una parte consistente della cittadinanza
sulla base dell’assenza della necessaria qualificazione censitaria, poteva
incontrare l’approvazione e il plauso di Tucidide”[15].
La guerra
dunque fu persa per la mancanza di un uomo simile, il vero capo nell'antico
senso solonico, mentre i suoi successori commisero una serie di sbagli,
soprattutto quello di fare la spedizione in Sicilia:"
hJmarthvqh kai; oJ ej" Sikelivan plou'""(II
65, 11) senza avere assegnato a chi partiva i mezzi sufficienti. Per giunta
seguirono calunnie e discordie tra gli Ateniesi. Eppure, dopo la catastrofe
siciliana, Atene resistette per dieci anni ai tanti nemici, a quelli di prima, e
a quelli che si aggiunsero in seguito alla sconfitta, compreso il figlio del re
di Persia, Ciro:" o}" parei'ce
crhvmata Peloponnhsivoi" ej" to; nautikovn"
(Tucidide, II 65, 12) il quale forniva ai Peloponnesiaci il denaro per la
flotta, fatto che segnò la fine della guerra e, dal punto di vista della
letteratura, che è il nostro, provocò la chiamata a raccolta di tutte le energie
contro i Persiani da parte di Euripide nell'Ifigenia in Aulide in
particolare, quando la ragazza proclama la necessità della guerra santa contro i
barbari di Oriente (vv. 1397-1401 che vedremo più avanti).
(Esporrò
questo percorso il 24 giugno alle 18, 30, a Bologna, in piazza Verdi)
Giovanni Ghiselli
note:
[1] Quello che rifiutava i classici. Evidentemente
glieli facevano male.
[2] F.
Dostoevskij, I fratelli Karamazov, p. 668. Cito spesso questo
romanzo, tante volte quante l’Odissea, o quasi. Mi conforta in
questa scelta l’amico Piero Boitani: “Per il mio compleanno, sul finire
di quell’anno 1’anno 1968…mi feci regalare da una coppia di amici l’Odissea
greca nell’edizione oxoniense dell’Allen: la conservo ancora,
naturalmente, con il loro biglietto di auguri per segnalibro. Da allora,
e per almeno dieci anni, ho riletto il poema, nell’originale e in
traduzione italiana o inglese, ogni anno: insieme ai Fratelli
Karamazov, era il mio libro-e lo è rimasto” (P. Boitani, L’ombra
di Ulisse, p. 45).
[3] F. Nietzsche, Considerazioni inattuali III
(1874), Schopenhauer come educatore, p 167.
[4] F. Nietzsche, Frammenti postumi, Primavera
1888-14, p. 216.
[5] Pohlenz, La Stoa , p. 33.
[6] Psicanalisi Della Società Contemporanea ,
p. 299.
[7] Di là dal
bene e dal male , Che cosa è aristocratico, 272
[8]
Si pensi ai
basilh'~ dwrofavgoi,
i re divoratori di doni, cui Esiodo chiede di raddrizzare i giudizi (Opere,
263-264).
[9] Avezzù, Guidorizzi, Edipo a Colono, p. 216.
[10] Jaeger, Paideia , I
vol., p. 677.
[11] Jaeger, op. cit., p. 680.
[12]
Op. cit. p. 684. La
costituzione è un nutrimento di uomini (trofh;
ajnqrwvpwn), di persone
buone, se è buona, di individui
malvagi se è cattiva.
Quella ateniese ha nutrito uomini di valore.
p.
198
Essa
non esclude nessuno per debolezza sociale, né per povertà, né per
oscurità dei padri; e neppure preferisce alcuno per i motivi contrari. I
medesimi pregi vengono attribuiti alla “sua” democrazia dallo stesso
Pericle nel discorso che gli attribuisce Tucidide in Storie II 35
sgg. quando lo stratego fa l’encomio dei caduti nel primo anno di guerra
e l’elogio di Atene, la scuola dell’Ellade (II, 41)
[13] Luciano Canfora, Legge o natura? In
NOMOS BASILEUS, p. 59
[14] La democrazia in America, p. 479
[15] Mauro Moggi, Op. cit., p. 2303-2304.
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