affresco pompeiano |
Introduzione alla metodologia dell’insegnamento delle lingue e
letterature greca e latina con taglio europeo e topologico
Presenterò questo percorso a Pesaro, nella libreria Il
catalogo il 24 marzo alle 18, 30
L'uomo che non
conosce il latino somiglia a colui che si trova in un bel posto, mentre
il tempo è nebbioso: il suo orizzonte è assai limitato; egli vede con chiarezza
solamente quello che gli sta vicino, alcuni passi più in là tutto diventa
indistinto. Invece l'orizzonte del latinista si stende assai lontano,
attraverso i secoli più recenti, il Medioevo e l'antichità. - Il greco o
addirittura il sanscrito allargano certamente ancor più l'orizzonte. - Chi non
conosce affatto il latino, appartiene al volgo, anche se fosse un grande
virtuoso nel campo dell'elettricità e avesse nel crogiuolo il radicale
dell'acido di spato di fluoro"[1].
Perché studiare il greco e il latino, potrebbe chiederci un giovane, a
che cosa servono? Alcuni rispondono: "a niente; non sono servi di nessuno;
per questo sono belli"[2].
Non è questa la nostra risposta. Se è vero che le culture classiche non si
asserviscono alla volgarità delle mode, infatti non passano mai di moda, è pure
certo che la loro forza è impiegabile in qualsiasi campo. La conoscenza del
classico potenzia la natura peculiare dell'uomo che è animale linguistico. Il
greco e il latino servono all'umanità: accrescono le capacità comunicative che
sono la base di ogni studio e di ogni lavoro non esclusivamente meccanico.
Chi conosce il greco e il latino sa parlare la lingua italiana più e
meglio di chi non li conosce[3].
Sa anche pensare più e meglio di chi non li conosce.
Parlare male non solo è una
stonatura in sé, ma mette anche del male nelle anime.
Lo afferma Socrate nel Fedone: " euj ga; r i[sqi…a[riste Krivtwn, to; mh; kalw'" levgein ouj movnon eij"
aujto; tou'to plhmmelev", ajlla; kai; kakovn ti ejmpoiei' tai'"
yucai'"" (115 e), sappi bene…ottimo Critone che il non parlare
bene non è solo una stonatura in sé, ma mette anche del male nelle anime.
Don Milani insegnava che
"bisogna sfiorare tutte le materie un po' alla meglio per arricchire la
parola. Essere dilettanti in tutto e specialisti nell'arte della parola"[4].
Per essere specialisti in quest’arte bisogna saper parlare in mondo
preciso e conciso, e per raggiungere questo scopo ci vuole ricchezza, vastità e
proprietà di lingua.
“Quanto una lingua è più ricca e più vasta, tanto ha bisogno
di meno parole per esprimersi, e viceversa quanto è più ristretta, tanto più le
conviene largheggiare in parole per comporre un’espressione perfetta. Non si dà
proprietà di parole e modi senza ricchezza e vastità di lingua, e non si dà
brevità di espressione senza proprietà” (Zibaldone,
1822).
Alfieri cercava di trovare per i suoi drammi “un fraseggiare
di brevità e di forza”, traducendo “i giambi di Seneca” (Vita, 4, 2).
Il sicuro possesso della
parola è utile in tutti i campi, da quello liturgico a quello erotico: "Non
formosus erat, sed erat facundus Ulixes/et tamen aequoreas torsit amore deas
", bello
non era, ma era bravo a parlare Ulisse, e pure fece struggere d'amore le dee
del mare, scrive Ovidio nell'Ars amatoria [5].
Kierkegaard cita questi due versi nel Diario del seduttore [6].
Nei versi precedenti Ovidio consiglia di imparare bene il
latino e il greco, per potenziare lo spirito e controbilanciare l'inevitabile
decadimento fisico della vecchiaia: "Iam molire animum qui duret, et
adstrue formae: /solus ad extremos permanet ille rogos. /Nec levis ingenuas
pectus coluisse per artes/cura sit et linguas edidicisse duas" (Ars
amatoria II, vv. 119 - 122), oramai prepara il tuo spirito a durare, e
aggiungilo all'aspetto: solo quello rimane sino al rogo finale. E non sia
leggero l'impegno di coltivare la mente attraverso le arti liberali, e di
imparare bene le due lingue.
Il latino e il greco ovviamente. Senza con questo
disprezzare altre lingue.
Le lingue studiate, tutte le lingue, ma in particolare il
greco e il latino che non si parlano, vanno coltivate con uno studio privo di
interruzioni.
II pericolo della dealfabetizzazione, il vocabolo stesso lo
dice, è soprattutto incombente sul greco. Ma riguarda ogni studio che venga
interrotto e trascurato. Cito a questo proposito alcune righe di una
pregevolissima ricerca di Tullio De Mauro. L’illustre linguista ricava da “due
grandi indagini internazionali, fatte nel 2001 e nel 2006, promosse da
Statistics Canada e dal Federal Bureau of Statistics degli Stati Uniti” che
“29% è l’accertata percentuale di italiane e di italiani con piena padronanza
alfabetica e numerica”. E continua: “Il nostro paese non è l’unico a conoscere
la dealfabetizzazione di adulti anche scolarizzati a livelli alti. Essa in
parte è fisiologica: sappiamo che se non si esercitano le competenze acquisite
da giovani a scuola, in età adulta regrediamo mediamente di cinque anni
rispetto ai livelli massimi raggiunti. E’ la regola detta del “meno cinque”. Ogni
adulto può comodamente verificarla su se stesso…dopo cinque anni di greco,
quanto ce ne resta se non facciamo i professori della materia e i classicisti?”.
De Mauro nota che “in tutti i paesi sviluppati esistono
strutture e centri per l’educazione permanente degli adulti, che consentono a
percentuali consistenti di popolazione di rientrare in formazione. L’esperienza
dice che un ciclo anche breve è prezioso per riattivare buona parte delle
competenze smarrite. Ottenere che come altri paesi europei anche l’Italia si
doti di un sistema nazionale di lifelong
learning, di apprendimento per tutta la vita, è per ora un miraggio”[7].
Il consiglio che posso riproporre è quello già dato da
Ovidio che la cura di queste due
lingue, come di tutte le altre competenze acquisite a scuola, non sia levis.
Non si può essere veramente bravi a usare la parola,
utilizzabile sempre e per molti fini, tutti sperabilmente buoni, se non si
conoscono le lingue e le civiltà classiche, ossia quelle dei primi della classe.
Il termine classicus designava il cittadino che
apparteneva alla classis più elevata dei contribuenti fiscali; "solo
per traslato uno scrittore del II secolo d. C., Aulo Gellio, definisce "classicus scriptor, non proletarius"
uno scrittore "di prim'ordine", non della massa" (Noctes Atticae 19. 8. 15; cfr. 6. 13. 1
e 16. 10. 2 - 15), o (forse meglio) "buono da essere letto dai classici (i
contribuenti più ricchi), e non dal popolo"; classicus è
ulteriormente definito come adsiduus (altra designazione di censo,
"contribuente solido e frequente") e antiquior ; l'anteriorità
al presente è dunque requisito della "classicità"[8].
Noi vorremmo che tutti potessero conoscere i classici
attraverso una scuola che fosse nello stesso tempo popolare e di alta qualità.
Il greco e il latino infatti, tanto come lingue
quanto come culture, sono utili non solo a scuola, e il loro impiego non è
confinato nei licei e nella Accademie.
Si può pensare a una sceneggiatura cinematografica,
o alla redazione di un articolo di giornale, o a una recensione, a una
diagnosi, a una prognosi medica, a qualunque attività insomma che richieda un
impiego non banale, non volgare della parola: la civiltà classica dota chi la
conosce di una miniera di topoi,
frasi, metafore, immagini, idèe preziose che valorizzano il tessuto verbale e
allargano la visione d’insieme fino a renderla panoramica.
I topoi o loci sono argomenti utilizzabili in molte occorrenze e necessità Nel
De inventione[9]
il giovane Cicerone aveva definito i loci communes: "argumenta
quae transferri in multas causas possunt" (2, 48), argomenti che si
possono utilizzare per molte cause. Sono strumenti del parlare e dello scrivere.
Sul vocabolo argumentum aggiungo una riflessione di
Bettini: "Argumentum è qualcosa che realizza il processo dell'arguere,
produce quella rivelazione che il verbo implica…Una buona via per scendere più
in profondità nel significato di queste parole è costituita dagli usi dell'aggettivo
argutus che ad arguo è ugualmente correlato. In molti casi
infatti l'aggettivo argutus indica ciò che va a colpire i sensi con
particolare forza[10]
(…) Parole come arguo, argumentum, argutus, non possono che ricollegarsi
a una forma *argus che significa "chiarità" o
"chiarezza". Si tratta infatti della stessa radice *arg - che
ritroviamo nel greco ajrgov"
"chiaro, brillante" e nell'ittita hargi " chiaro,
bianco". In latino, da questa stessa radice derivano anche argentum
(metallo brillante) argilla "("terra bianca")"[11].
Quindi argumentari latino e
argomentare italiano, discutere portando argomenti a sostegno.
Possiamo anche ricordare il verbo inglese to argue, “discutere” e “provare”.
I tovpoi
costituiscono le essenze non solo della retorica ma anche della letteratura e
dell'arte in genere.
I tovpoi sono argumenta
che, ricorrendo nella cultura europea, ne rivelano l'unità.
Io intendo e impiego i topoi
come idee, frasi, versi belli e pieni di forza, tanto estetica quanto etica,
comunque una forza rivelatrice.
I ragazzi provano interesse e gioia nel sentire parole belle
e vere, insomma parole che sono tasselli di opere d’arte: " l'arte è il
fatto più reale, la più austera scuola di vita, e il vero Giudizio finale"[12].
Perfino i criminali provano gioia per le parole belle,
finanche gli animali.
Erodoto racconta di un grandissimo prodigio (qw`ma mevgiston[13])
capitato ad Arione, il primo fra gli uomini che compose un ditirambo, gli diede
il nome e lo fece rappresentare a Corinto, al tempo del tiranno Periandro.
Questo poeta dunque viaggiava su una nave corinzia per
tornare da Taranto a Corinto. Ma i marinai in alto mare complottarono per
gettarlo in acqua e prendersi le sue ricchezze. Arione li pregò di non
ammazzarlo almeno, ma quei farabutti gli concessero solo di uccidersi da solo,
saltando in mare se voleva. Allora Arione chiese di poter cantare stando in
piedi tra i banchi della nave jen th`/ skeuh`/ pavsh/, con tutta la sua
acconciatura, promettendo che dopo il canto si sarebbe ucciso.
Allora quelli si
sentirono invadere da senso di gioia (kai; toi'si
ejselqei'n hJdonhvn[14])
al pensiero che stavano per udire il migliore di tutti i cantori, e si
ritirarono, dalla prua, verso il centro della nave. Arione, indossato tutto il
suo abbigliamento, ritto tra i banchi, eseguì il canto nel tono elevato (novmon to; n o[[rqion), quindi si gettò in
mare, vestito com’era. A questo punto intervenne un delfino che, evidentemente
affascinato anch’esso dal canto del poeta, lo prese sopra di sé e lo portò fino
a capo Tenaro (to; n delfi``na levgousi
uJpolabovnta ejxenei`kai ejpi; Taivnaron).
Orfeo con il suo canto riusciva a commuovere addiritture le
tenui ombre dei morti e le loro dimore, le Eumenidi, e Cerbero, e a fermare la
ruota di Issione[15].
Tale è l’incanto delle parole, in questi casi accompagnate dalla musica, ma non
dimentichiamo che la civiltà dei Greci e dei Latini è logocentrica e, nel
rapporto tra parola e musica, questa è ancilla
verbi.
Quindi, tornando a noi, credo che ricordare le sentenze
belle degli auctores, e
citarne brani delle opere mostrandone la carne viva, significhi imparare a
esprimersi trovando e riconoscendo qualche cosa di bello in noi stessi.
Questo per quanto riguarda il campo dell’efficacia e
della bellezza.
Ma c’è pure, e forse anche prima, la categoria
dell’etica.
Non si può essere del tutto morali se non si
conoscono a fondo i princìpi e i valori dell’etica classica. Questa non
penalizza la felicità, che anzi deve essere associata alla moralità.
Essere felici secondo Strabone, geografo dell'età di Augusto, è un atto di pietas:
"gli uomini imitano benissimo gli dèi quando fanno del bene, ma si
potrebbe dire ancor meglio quando sono felici (o{tan eujdaimonw'si)"[16].
C’è una interdipendenza
tra etica e felicità: " sostengo che non vi è profonda felicità senza
morale profonda"[17].
Felicità è anche
coscienza di sé, realizzazione e compimento della propria natura, identità di
potenza e atto. Per ottenere tali risultati è necessario comprendere a fondo
che cosa essenzialmente siamo.
Per autorizzare questa
mia convinzione, utilizzo Eraclito che scrive: “ho indagato me stesso”[18],
e pure Sofocle i cui personaggi affrontano ogni difficoltà e qualunque rischio
per sapere chi sono, quindi per non smentire la propria identità. Il “conosci
te stesso”[19]
scritto sul tempio di Delfi e il “diventa quello che sei” di Pindaro[20]
esprimono il medesimo pensiero.
Oggi, in questo
guazzabuglio di idiomi mal conosciuti e parlati male, si rischia di perdere
l’dentità, linguistica e umana, di non sapere più parlare bene nemmeno una sola
lingua, e, quello che è peggio, di non sapere più chi siamo.
Le due lingue classiche con le loro
letterature, ci danno un ancoraggio sicuro, al riparo dal fluttuare nella
indeterminatezza amorfa o deforme del parlare di uso comune, una chiacchiera,
spesso uno sproloquio, che riflette una scarsa aderenza persino alle realtà più
evidenti.
E’ necessario salire di qualche gradino per uscire dal
pantano della parola incolore, o addirittura insensata, del luogo comune trito
che molti usano per nascondere la propria ignoranza, mentre invece la rivela, e
denuncia la pochezza mentale di chi rumina il sentito dire senza sottoporlo a
giudizio critico.
Autorizzo questa mia conclusione attraverso Seneca: "nulla res nos maioribus malis implicat quam
quod ad rumorem componimur " (De
vita beata, 1, 3), nessuna cosa ci avviluppa in mali maggiori del fatto di
regolarci secondo il "si dice".
Riporto una espressione di O. Wilde nella cui filigrana si
può leggere Seneca: “La morale moderna consiste nell’accettare i luoghi comuni
della nostra epoca, ed io credo che per un uomo colto l’accettare i luoghi
comuni della propria epoca sia la più rozza forma di immoralità”[21].
La conoscenza della paideia
classica è anche una difesa dal veleno della pubblicità che cerca di
colonizzare e intossicare i nostri cervelli.
Un altro antidoto a tanto veleno può essere la natura: osservare
il cielo splendente, guardare le sorgenti dei fiumi, notare l’innumerevole sorriso delle onde marine e
amare terra madre di tutti noi[22].
I miti sono quasi sempre racconti sulle origini e spesso
danno forma, per dirla con Nietzsche a “un’immagine concentrata del mondo”[23],
un’immagine che può essere spiegata e attualizzata fino a darci chiarimenti su
eventi cui assistiamo o partecipiamo ogni giorno.
A proposito della pubblicità, il più effimero e fastidioso
degli eventi, la prima réclame
scritta è quella di inviata da Aconzio a Cidippe.
Bettini afferma che "anche i pubblicitari sono degli
Aconzi"[24].
Il giovane Aconzio obbligò Cidippe a sposarlo scrivendo delle parole e
facendole leggere alla ragazza che era sul punto di maritarsi con un altro.
"La scrittura di
Aconzio è il seme di tutte le scritture astute, e l'unico modo per sottrarsi
alla sua trappola sarebbe quello di non leggerla. Ma è possibile?"[25].
Nella festa di Apollo a Delo, Aconzio di Ceo si innamora di Cidippe di Nasso e
la vincola a sé gettandole un pomo su cui aveva scritto: “Lo giuro per Artemide:
io sposerò Aconzio”.
Questo racconto si trova negli Aitia di Callimaco. Febo rivelò a Ceuce, il padre di Cidippe che la
ragazza in procinto di sposare il fidanzato si ammalava a morte poiché un
giuramento grave (baru; ~ o{rko~, Aitia fr. 75 Pf., v. 22) impediva le
nozze alla fanciulla la quale fu sentita da Artemide in visita a Delo quando
giurò che avrebbe avuto come sposo Aconzio e non altri ( jAkovntion oJppovte sh; pai`~ - w[mosen, oujk a[llon, numfivon
ejxemevnai[26]
(vv. 26 - 27).
La storia è narrata anche da Ovidio nelle Heroides. Aconzio scrive a Cidippe e le
ricorda “volubile malum - verba ferens
doctis insidiosa notis” (211 - 212), la mela che rotolava portando parole
insidiose in formule dotte. Queste furono lette nella sacra presenza di Diana e
la fides di Cidippe ne rimase vincta.
Cidippe risponde ad
Aconzio che sta morendo, si sente sballottata come una nave, ipsa velut navis iactor (v. 43), veneficiis tuis (54) per le tue parole
avvelenate. Ricorda che navigava verso Delo impaziente di arrivare. Aconzio ne
vide la semplicità e gli sembrò che potesse essere facile preda: “visaque simplicitas est mea posse capi”
(v. 106). Le venne gettata davanti ai piedi una mela con quei versi che Cidippe
non vuole ripetere “mittitur ante pedes
malum cum carmine tali ” (v. 109). La
nutrice raccolse l’ingannevole frutto e lo fece leggere alla ragazza: “insidias legi, magne poeta, tuas” (112). Aconzio non deve essere fiero di avere
preso con ‘inganno una fanciulla poco esperta: “ sumque parum prudens capta puella dolis” (v. 124). E’ stata ingannata come Atalanta da Ippòmene. Aconzio
avrebbe dovuto convincerla more bonis
solito (v. 129), come fanno i galantuomini, non ingannarla costringendola a
proferire sine pectore vocem (143),
una voce senza anima. Ora, invece della fiaccola di nozze c’è quella di morte: “et face pro thalami fax mihi mortis adest”
(v. 174). “mirabar quare tibi nomen
Acontius esset” (v. 211), mi domandavo con stupore perché ti chiamassi
Aconzio, ora lo so[27]:
“quod faciat longe vulnus, acumen habes”
(v. 212), hai una punta che provoca ferite anche da lontano. La ragazza ferita
sta morendo: “concidimus macie, color est
sine sanguine, qualem/in pomo refero mente fuisse tuo” (vv. 217 - 218),
sono estenuata dalla magrezza, il colore è senza sangue, quale, come ricordo,
era il tuo pomo.
Ecco dunque pronto un antidoto non banale al tossico
pubblicitario, alle “parole avvelenate” della pubblicità malefica.
Le voci di questi auctores,
veri e propri accrescitori della nostra anima, della nostra capacità di
intendere il mondo, conservano la loro eco attraverso i secoli e tutta la
letteratura europea forma un corpo, del quale, come scrisse T. S, Eliot, il
latino e il greco sono il sangue.
"Il latino e il greco[28]
costituiscono la corrente sanguigna della letteratura europea: e come un solo,
non già due distinti sistemi di circolazione; giacché è attraverso Roma che
possiamo ritrovare la nostra parentela con la Grecia "[29].
giovanni ghiselli
continua
[1] A. Schopenhauer, Parerga e
paralipomena, Tomo II, p. 772.
[2]
Il greco e il latino, la religione e la matematica “Erano - e l’insegnante lo
faceva notare spesso - del tutto inutili apparentemente ai fini degli studi
futuri e della vita, ma solo apparentemente. In realtà erano importantissimi,
più importanti addirittura di certe materie principali, perché sviluppano la
facoltà di ragionare e costituiscono la base di ogni pensiero chiaro, sobrio ed
efficace” (H. Hesse, Sotto la ruota
(del 1906), p. 24.
[3]
Vittorio Alfieri nella sua Vita
(composta tra il 1790 e il 1803) racconta di avere impiegato non poco tempo
dell’inverno 1776 - 1777 traducendo dopo Orazio, Sallustio, un lavoro “più
volte rifatto mutato e limato…certamente con molto mio lucro sì
nell’intelligenza della lingua latina, che nella padronanza di maneggiar
l’italiana” (IV, 3).
[5] II, 123 - 124. Bello non era ma
era bravo a parlare Ulisse e pure fece struggere d'amore le dee del mare.
[6]
3 giugno (p. 75).
[7]
Tullio De Mauro, La scuola italiana in sette punti in Italia, Italie. Lezioni
sulla storia dell’Italia unita, p. 125. Edizioni Polistampa, Regione Toscana,
2013
[8]
S. Settis, Futuro del "classico", p. 66.
[9]
Trattato in due libri, dell'84 a. C.
[10] Cfr. Thesaurus linguae latinae,
II, 557, 48 sgg,
[11]
M. Bettini, Le orecchie di Hermes, p. 297 e p. 299.
[12]
M. Proust, Il tempo ritrovato (uscito postumo nel 1927), p. 211.
[13]
Erodoto, Storie I, 23.
[14]
I, 24, 5.
[15]
Cfr. Virgilio, Georgica IV, vv. 472 -
484
[16]
Strabone (64 ca a. C. - 24 ca d. C. ), Geografia, X, 3, 9.
[17]R.
Musil, L'uomo senza qualità, p. 846.
[18]
ejdizhsavmhn ejmewutovn", fr126
Diano
[19]
Gnw`qi seautovn.
[20]
gevnoio oi|o~ ejssiv" Pitica II v. 72.
[21]
Il ritratto di Dorian Gray, p. 88.
[22]
Cfr. Eschilo, Prometeo incatenato, vv
- 88 - 90
[23]
La nascita della tragedia, cap. 22.
[25]M. Bettini, op. cit., p. 10.
[26]
Infinito futuro epico di e[cw.
[27]
ajkovntion significa dardo
[28] Io metterei prima il greco.
[29] Che cos’è un classico? In T. S. Eliot, Opere, p. 975.
La tua metodologia e' sempre bellissima!
RispondiEliminaAlessandro
Non mi permetto di criticare Don Milani,ma i tempi cambiano e se, in passato,era necessario dare la possibilità al giovane studente di" toccare un poco tutto" adesso si fanno troppe materie. Tante e non sempre quelle giuste. Difendo lo studio della seconda lingua alle elementari e depreco lo smantellamento dell'insegnante specializzato,Ma la terza lingua alle medie dove non sanno ancora l'italiano mi rimane indigesta. Non riesco a capire perchè è stato tolto il latino...davvero l'America è così potente da aver imposto l'inglese invece del latino? Bisognerebbe ripristinare lo studio del latino alle medie ...e quello dell'italiano alle primarie...mi sento di aggiungere.Troppe materie fatte male e in fretta. Ho proprio goduto questa tua metodologia ,carissimo Gianni...condivido con Alessandro e ,sono sicura, tanti altri. Giovanna Ttocco
RispondiEliminae' la parola che scritta o pronunciata, segue le regole del cuore , il greco ed il latino continuano questo canto ... sublimando l'essenza del nostro essere e l'armonia del vivere ... grazie allo studio , mi si è aperto un vero immenso universo ....
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