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martedì 10 marzo 2015

Bellezza e utilità del latino e del greco

affresco pompeiano

Introduzione alla metodologia dell’insegnamento delle lingue e letterature greca e latina con taglio europeo e topologico

Presenterò questo percorso a Pesaro, nella libreria Il catalogo il 24 marzo alle 18, 30


L'uomo che non conosce il latino somiglia a colui che si trova in un bel posto, mentre il tempo è nebbioso: il suo orizzonte è assai limitato; egli vede con chiarezza solamente quello che gli sta vicino, alcuni passi più in là tutto diventa indistinto. Invece l'orizzonte del latinista si stende assai lontano, attraverso i secoli più recenti, il Medioevo e l'antichità. - Il greco o addirittura il sanscrito allargano certamente ancor più l'orizzonte. - Chi non conosce affatto il latino, appartiene al volgo, anche se fosse un grande virtuoso nel campo dell'elettricità e avesse nel crogiuolo il radicale dell'acido di spato di fluoro"[1].

Perché studiare il greco e il latino, potrebbe chiederci un giovane, a che cosa servono? Alcuni rispondono: "a niente; non sono servi di nessuno; per questo sono belli"[2]. Non è questa la nostra risposta. Se è vero che le culture classiche non si asserviscono alla volgarità delle mode, infatti non passano mai di moda, è pure certo che la loro forza è impiegabile in qualsiasi campo. La conoscenza del classico potenzia la natura peculiare dell'uomo che è animale linguistico. Il greco e il latino servono all'umanità: accrescono le capacità comunicative che sono la base di ogni studio e di ogni lavoro non esclusivamente meccanico.
Chi conosce il greco e il latino sa parlare la lingua italiana più e meglio di chi non li conosce[3]. Sa anche pensare più e meglio di chi non li conosce.
 Parlare male non solo è una stonatura in sé, ma mette anche del male nelle anime.
Lo afferma Socrate nel Fedone: " euj ga; r i[sqia[riste Krivtwn, to; mh; kalw'" levgein ouj movnon eij" aujto; tou'to plhmmelev", ajlla; kai; kakovn ti ejmpoiei' tai'" yucai'"" (115 e), sappi bene…ottimo Critone che il non parlare bene non è solo una stonatura in sé, ma mette anche del male nelle anime.

 Don Milani insegnava che "bisogna sfiorare tutte le materie un po' alla meglio per arricchire la parola. Essere dilettanti in tutto e specialisti nell'arte della parola"[4].
Per essere specialisti in quest’arte bisogna saper parlare in mondo preciso e conciso, e per raggiungere questo scopo ci vuole ricchezza, vastità e proprietà di lingua.
“Quanto una lingua è più ricca e più vasta, tanto ha bisogno di meno parole per esprimersi, e viceversa quanto è più ristretta, tanto più le conviene largheggiare in parole per comporre un’espressione perfetta. Non si dà proprietà di parole e modi senza ricchezza e vastità di lingua, e non si dà brevità di espressione senza proprietà” (Zibaldone, 1822).
Alfieri cercava di trovare per i suoi drammi “un fraseggiare di brevità e di forza”, traducendo “i giambi di Seneca” (Vita, 4, 2).

Il sicuro possesso della parola è utile in tutti i campi, da quello liturgico a quello erotico: "Non formosus erat, sed erat facundus Ulixes/et tamen aequoreas torsit amore deas ", bello non era, ma era bravo a parlare Ulisse, e pure fece struggere d'amore le dee del mare, scrive Ovidio nell'Ars amatoria [5].
 Kierkegaard cita questi due versi nel Diario del seduttore [6].
Nei versi precedenti Ovidio consiglia di imparare bene il latino e il greco, per potenziare lo spirito e controbilanciare l'inevitabile decadimento fisico della vecchiaia: "Iam molire animum qui duret, et adstrue formae: /solus ad extremos permanet ille rogos. /Nec levis ingenuas pectus coluisse per artes/cura sit et linguas edidicisse duas" (Ars amatoria II, vv. 119 - 122), oramai prepara il tuo spirito a durare, e aggiungilo all'aspetto: solo quello rimane sino al rogo finale. E non sia leggero l'impegno di coltivare la mente attraverso le arti liberali, e di imparare bene le due lingue.
Il latino e il greco ovviamente. Senza con questo disprezzare altre lingue.
Le lingue studiate, tutte le lingue, ma in particolare il greco e il latino che non si parlano, vanno coltivate con uno studio privo di interruzioni.

II pericolo della dealfabetizzazione, il vocabolo stesso lo dice, è soprattutto incombente sul greco. Ma riguarda ogni studio che venga interrotto e trascurato. Cito a questo proposito alcune righe di una pregevolissima ricerca di Tullio De Mauro. L’illustre linguista ricava da “due grandi indagini internazionali, fatte nel 2001 e nel 2006, promosse da Statistics Canada e dal Federal Bureau of Statistics degli Stati Uniti” che “29% è l’accertata percentuale di italiane e di italiani con piena padronanza alfabetica e numerica”. E continua: “Il nostro paese non è l’unico a conoscere la dealfabetizzazione di adulti anche scolarizzati a livelli alti. Essa in parte è fisiologica: sappiamo che se non si esercitano le competenze acquisite da giovani a scuola, in età adulta regrediamo mediamente di cinque anni rispetto ai livelli massimi raggiunti. E’ la regola detta del “meno cinque”. Ogni adulto può comodamente verificarla su se stesso…dopo cinque anni di greco, quanto ce ne resta se non facciamo i professori della materia e i classicisti?”.
De Mauro nota che “in tutti i paesi sviluppati esistono strutture e centri per l’educazione permanente degli adulti, che consentono a percentuali consistenti di popolazione di rientrare in formazione. L’esperienza dice che un ciclo anche breve è prezioso per riattivare buona parte delle competenze smarrite. Ottenere che come altri paesi europei anche l’Italia si doti di un sistema nazionale di lifelong learning, di apprendimento per tutta la vita, è per ora un miraggio”[7].

Il consiglio che posso riproporre è quello già dato da Ovidio che la cura di queste due lingue, come di tutte le altre competenze acquisite a scuola, non sia levis.

Non si può essere veramente bravi a usare la parola, utilizzabile sempre e per molti fini, tutti sperabilmente buoni, se non si conoscono le lingue e le civiltà classiche, ossia quelle dei primi della classe.
Il termine classicus designava il cittadino che apparteneva alla classis più elevata dei contribuenti fiscali; "solo per traslato uno scrittore del II secolo d. C., Aulo Gellio, definisce "classicus scriptor, non proletarius" uno scrittore "di prim'ordine", non della massa" (Noctes Atticae 19. 8. 15; cfr. 6. 13. 1 e 16. 10. 2 - 15), o (forse meglio) "buono da essere letto dai classici (i contribuenti più ricchi), e non dal popolo"; classicus è ulteriormente definito come adsiduus (altra designazione di censo, "contribuente solido e frequente") e antiquior ; l'anteriorità al presente è dunque requisito della "classicità"[8].
Noi vorremmo che tutti potessero conoscere i classici attraverso una scuola che fosse nello stesso tempo popolare e di alta qualità.

Il greco e il latino infatti, tanto come lingue quanto come culture, sono utili non solo a scuola, e il loro impiego non è confinato nei licei e nella Accademie.
Si può pensare a una sceneggiatura cinematografica, o alla redazione di un articolo di giornale, o a una recensione, a una diagnosi, a una prognosi medica, a qualunque attività insomma che richieda un impiego non banale, non volgare della parola: la civiltà classica dota chi la conosce di una miniera di topoi, frasi, metafore, immagini, idèe preziose che valorizzano il tessuto verbale e allargano la visione d’insieme fino a renderla panoramica.
I topoi o loci sono argomenti utilizzabili in molte occorrenze e necessità Nel De inventione[9] il giovane Cicerone aveva definito i loci communes: "argumenta quae transferri in multas causas possunt" (2, 48), argomenti che si possono utilizzare per molte cause. Sono strumenti del parlare e dello scrivere.
Sul vocabolo argumentum aggiungo una riflessione di Bettini: "Argumentum è qualcosa che realizza il processo dell'arguere, produce quella rivelazione che il verbo implica…Una buona via per scendere più in profondità nel significato di queste parole è costituita dagli usi dell'aggettivo argutus che ad arguo è ugualmente correlato. In molti casi infatti l'aggettivo argutus indica ciò che va a colpire i sensi con particolare forza[10] (…) Parole come arguo, argumentum, argutus, non possono che ricollegarsi a una forma *argus che significa "chiarità" o "chiarezza". Si tratta infatti della stessa radice *arg - che ritroviamo nel greco ajrgov" "chiaro, brillante" e nell'ittita hargi " chiaro, bianco". In latino, da questa stessa radice derivano anche argentum (metallo brillante) argilla "("terra bianca")"[11]. Quindi argumentari latino e argomentare italiano, discutere portando argomenti a sostegno.
Possiamo anche ricordare il verbo inglese to argue, “discutere” e “provare”.
I tovpoi costituiscono le essenze non solo della retorica ma anche della letteratura e dell'arte in genere.
I tovpoi sono argumenta che, ricorrendo nella cultura europea, ne rivelano l'unità.
Io intendo e impiego i topoi come idee, frasi, versi belli e pieni di forza, tanto estetica quanto etica, comunque una forza rivelatrice.
I ragazzi provano interesse e gioia nel sentire parole belle e vere, insomma parole che sono tasselli di opere d’arte: " l'arte è il fatto più reale, la più austera scuola di vita, e il vero Giudizio finale"[12].
Perfino i criminali provano gioia per le parole belle, finanche gli animali.
Erodoto racconta di un grandissimo prodigio (qw`ma mevgiston[13]) capitato ad Arione, il primo fra gli uomini che compose un ditirambo, gli diede il nome e lo fece rappresentare a Corinto, al tempo del tiranno Periandro.
Questo poeta dunque viaggiava su una nave corinzia per tornare da Taranto a Corinto. Ma i marinai in alto mare complottarono per gettarlo in acqua e prendersi le sue ricchezze. Arione li pregò di non ammazzarlo almeno, ma quei farabutti gli concessero solo di uccidersi da solo, saltando in mare se voleva. Allora Arione chiese di poter cantare stando in piedi tra i banchi della nave jen th`/ skeuh`/ pavsh/, con tutta la sua acconciatura, promettendo che dopo il canto si sarebbe ucciso.
 Allora quelli si sentirono invadere da senso di gioia (kai; toi'si ejselqei'n hJdonhvn[14]) al pensiero che stavano per udire il migliore di tutti i cantori, e si ritirarono, dalla prua, verso il centro della nave. Arione, indossato tutto il suo abbigliamento, ritto tra i banchi, eseguì il canto nel tono elevato (novmon to; n o[[rqion), quindi si gettò in mare, vestito com’era. A questo punto intervenne un delfino che, evidentemente affascinato anch’esso dal canto del poeta, lo prese sopra di sé e lo portò fino a capo Tenaro (to; n delfi``na levgousi uJpolabovnta ejxenei`kai ejpi; Taivnaron).
Orfeo con il suo canto riusciva a commuovere addiritture le tenui ombre dei morti e le loro dimore, le Eumenidi, e Cerbero, e a fermare la ruota di Issione[15]. Tale è l’incanto delle parole, in questi casi accompagnate dalla musica, ma non dimentichiamo che la civiltà dei Greci e dei Latini è logocentrica e, nel rapporto tra parola e musica, questa è ancilla verbi.
Quindi, tornando a noi, credo che ricordare le sentenze belle degli auctores, e citarne brani delle opere mostrandone la carne viva, significhi imparare a esprimersi trovando e riconoscendo qualche cosa di bello in noi stessi.
Questo per quanto riguarda il campo dell’efficacia e della bellezza.
Ma c’è pure, e forse anche prima, la categoria dell’etica.

Non si può essere del tutto morali se non si conoscono a fondo i princìpi e i valori dell’etica classica. Questa non penalizza la felicità, che anzi deve essere associata alla moralità.
 Essere felici secondo Strabone, geografo dell'età di Augusto, è un atto di pietas: "gli uomini imitano benissimo gli dèi quando fanno del bene, ma si potrebbe dire ancor meglio quando sono felici (o{tan eujdaimonw'si)"[16].
C’è una interdipendenza tra etica e felicità: " sostengo che non vi è profonda felicità senza morale profonda"[17].
Felicità è anche coscienza di sé, realizzazione e compimento della propria natura, identità di potenza e atto. Per ottenere tali risultati è necessario comprendere a fondo che cosa essenzialmente siamo.
Per autorizzare questa mia convinzione, utilizzo Eraclito che scrive: “ho indagato me stesso”[18], e pure Sofocle i cui personaggi affrontano ogni difficoltà e qualunque rischio per sapere chi sono, quindi per non smentire la propria identità. Il “conosci te stesso”[19] scritto sul tempio di Delfi e il “diventa quello che sei” di Pindaro[20] esprimono il medesimo pensiero.
Oggi, in questo guazzabuglio di idiomi mal conosciuti e parlati male, si rischia di perdere l’dentità, linguistica e umana, di non sapere più parlare bene nemmeno una sola lingua, e, quello che è peggio, di non sapere più chi siamo.
 Le due lingue classiche con le loro letterature, ci danno un ancoraggio sicuro, al riparo dal fluttuare nella indeterminatezza amorfa o deforme del parlare di uso comune, una chiacchiera, spesso uno sproloquio, che riflette una scarsa aderenza persino alle realtà più evidenti.
E’ necessario salire di qualche gradino per uscire dal pantano della parola incolore, o addirittura insensata, del luogo comune trito che molti usano per nascondere la propria ignoranza, mentre invece la rivela, e denuncia la pochezza mentale di chi rumina il sentito dire senza sottoporlo a giudizio critico.
Autorizzo questa mia conclusione attraverso Seneca: "nulla res nos maioribus malis implicat quam quod ad rumorem componimur " (De vita beata, 1, 3), nessuna cosa ci avviluppa in mali maggiori del fatto di regolarci secondo il "si dice".
Riporto una espressione di O. Wilde nella cui filigrana si può leggere Seneca: “La morale moderna consiste nell’accettare i luoghi comuni della nostra epoca, ed io credo che per un uomo colto l’accettare i luoghi comuni della propria epoca sia la più rozza forma di immoralità”[21].
La conoscenza della paideia classica è anche una difesa dal veleno della pubblicità che cerca di colonizzare e intossicare i nostri cervelli.
Un altro antidoto a tanto veleno può essere la natura: osservare il cielo splendente, guardare le sorgenti dei fiumi, notare l’innumerevole sorriso delle onde marine e amare terra madre di tutti noi[22].
I miti sono quasi sempre racconti sulle origini e spesso danno forma, per dirla con Nietzsche a “un’immagine concentrata del mondo”[23], un’immagine che può essere spiegata e attualizzata fino a darci chiarimenti su eventi cui assistiamo o partecipiamo ogni giorno.
A proposito della pubblicità, il più effimero e fastidioso degli eventi, la prima réclame scritta è quella di inviata da Aconzio a Cidippe.

Bettini afferma che "anche i pubblicitari sono degli Aconzi"[24]. Il giovane Aconzio obbligò Cidippe a sposarlo scrivendo delle parole e facendole leggere alla ragazza che era sul punto di maritarsi con un altro.
 "La scrittura di Aconzio è il seme di tutte le scritture astute, e l'unico modo per sottrarsi alla sua trappola sarebbe quello di non leggerla. Ma è possibile?"[25]. Nella festa di Apollo a Delo, Aconzio di Ceo si innamora di Cidippe di Nasso e la vincola a sé gettandole un pomo su cui aveva scritto: “Lo giuro per Artemide: io sposerò Aconzio”.
Questo racconto si trova negli Aitia di Callimaco. Febo rivelò a Ceuce, il padre di Cidippe che la ragazza in procinto di sposare il fidanzato si ammalava a morte poiché un giuramento grave (baru; ~ o{rko~, Aitia fr. 75 Pf., v. 22) impediva le nozze alla fanciulla la quale fu sentita da Artemide in visita a Delo quando giurò che avrebbe avuto come sposo Aconzio e non altri ( jAkovntion oJppovte sh; pai`~ - w[mosen, oujk a[llon, numfivon ejxemevnai[26] (vv. 26 - 27).
La storia è narrata anche da Ovidio nelle Heroides. Aconzio scrive a Cidippe e le ricorda “volubile malum - verba ferens doctis insidiosa notis” (211 - 212), la mela che rotolava portando parole insidiose in formule dotte. Queste furono lette nella sacra presenza di Diana e la fides di Cidippe ne rimase vincta.
 Cidippe risponde ad Aconzio che sta morendo, si sente sballottata come una nave, ipsa velut navis iactor (v. 43), veneficiis tuis (54) per le tue parole avvelenate. Ricorda che navigava verso Delo impaziente di arrivare. Aconzio ne vide la semplicità e gli sembrò che potesse essere facile preda: “visaque simplicitas est mea posse capi” (v. 106). Le venne gettata davanti ai piedi una mela con quei versi che Cidippe non vuole ripetere “mittitur ante pedes malum cum carmine tali ” (v. 109). La nutrice raccolse l’ingannevole frutto e lo fece leggere alla ragazza: “insidias legi, magne poeta, tuas” (112). Aconzio non deve essere fiero di avere preso con ‘inganno una fanciulla poco esperta: “ sumque parum prudens capta puella dolis” (v. 124). E’ stata ingannata come Atalanta da Ippòmene. Aconzio avrebbe dovuto convincerla more bonis solito (v. 129), come fanno i galantuomini, non ingannarla costringendola a proferire sine pectore vocem (143), una voce senza anima. Ora, invece della fiaccola di nozze c’è quella di morte: “et face pro thalami fax mihi mortis adest” (v. 174). “mirabar quare tibi nomen Acontius esset” (v. 211), mi domandavo con stupore perché ti chiamassi Aconzio, ora lo so[27]: “quod faciat longe vulnus, acumen habes” (v. 212), hai una punta che provoca ferite anche da lontano. La ragazza ferita sta morendo: “concidimus macie, color est sine sanguine, qualem/in pomo refero mente fuisse tuo” (vv. 217 - 218), sono estenuata dalla magrezza, il colore è senza sangue, quale, come ricordo, era il tuo pomo.
Ecco dunque pronto un antidoto non banale al tossico pubblicitario, alle “parole avvelenate” della pubblicità malefica.

Le voci di questi auctores, veri e propri accrescitori della nostra anima, della nostra capacità di intendere il mondo, conservano la loro eco attraverso i secoli e tutta la letteratura europea forma un corpo, del quale, come scrisse T. S, Eliot, il latino e il greco sono il sangue.
"Il latino e il greco[28] costituiscono la corrente sanguigna della letteratura europea: e come un solo, non già due distinti sistemi di circolazione; giacché è attraverso Roma che possiamo ritrovare la nostra parentela con la Grecia"[29].


giovanni ghiselli

continua



[1] A. Schopenhauer, Parerga e paralipomena, Tomo II, p. 772.
[2] Il greco e il latino, la religione e la matematica “Erano - e l’insegnante lo faceva notare spesso - del tutto inutili apparentemente ai fini degli studi futuri e della vita, ma solo apparentemente. In realtà erano importantissimi, più importanti addirittura di certe materie principali, perché sviluppano la facoltà di ragionare e costituiscono la base di ogni pensiero chiaro, sobrio ed efficace” (H. Hesse, Sotto la ruota (del 1906), p. 24.
[3] Vittorio Alfieri nella sua Vita (composta tra il 1790 e il 1803) racconta di avere impiegato non poco tempo dell’inverno 1776 - 1777 traducendo dopo Orazio, Sallustio, un lavoro “più volte rifatto mutato e limato…certamente con molto mio lucro sì nell’intelligenza della lingua latina, che nella padronanza di maneggiar l’italiana” (IV, 3).
[4]Lettera a una professoressa, p. 95.
[5] II, 123 - 124. Bello non era ma era bravo a parlare Ulisse e pure fece struggere d'amore le dee del mare.
[6] 3 giugno (p. 75).
[7] Tullio De Mauro, La scuola italiana in sette punti in Italia, Italie. Lezioni sulla storia dell’Italia unita, p. 125. Edizioni Polistampa, Regione Toscana, 2013
[8] S. Settis, Futuro del "classico", p. 66.
[9] Trattato in due libri, dell'84 a. C.
[10] Cfr. Thesaurus linguae latinae, II, 557, 48 sgg,
[11] M. Bettini, Le orecchie di Hermes, p. 297 e p. 299.
[12] M. Proust, Il tempo ritrovato (uscito postumo nel 1927), p. 211.
[13] Erodoto, Storie I, 23.
[14] I, 24, 5.
[15] Cfr. Virgilio, Georgica IV, vv. 472 - 484
[16] Strabone (64 ca a. C. - 24 ca d. C. ), Geografia, X, 3, 9.
[17]R. Musil, L'uomo senza qualità, p. 846.
[18] ejdizhsavmhn ejmewutovn", fr126 Diano
[19] Gnw`qi seautovn.
[20] gevnoio oi|o~ ejssiv" Pitica II v. 72.
[21] Il ritratto di Dorian Gray, p. 88.
[22] Cfr. Eschilo, Prometeo incatenato, vv - 88 - 90
[23] La nascita della tragedia, cap. 22.
[24]Con i libri, p. 9.
[25]M. Bettini, op. cit., p. 10.
[26] Infinito futuro epico di e[cw.
[27] ajkovntion significa dardo
[28] Io metterei prima il greco.
[29] Che cos’è un classico? In T. S. Eliot, Opere, p. 975. 

5 commenti:

  1. La tua metodologia e' sempre bellissima!
    Alessandro

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  2. Non mi permetto di criticare Don Milani,ma i tempi cambiano e se, in passato,era necessario dare la possibilità al giovane studente di" toccare un poco tutto" adesso si fanno troppe materie. Tante e non sempre quelle giuste. Difendo lo studio della seconda lingua alle elementari e depreco lo smantellamento dell'insegnante specializzato,Ma la terza lingua alle medie dove non sanno ancora l'italiano mi rimane indigesta. Non riesco a capire perchè è stato tolto il latino...davvero l'America è così potente da aver imposto l'inglese invece del latino? Bisognerebbe ripristinare lo studio del latino alle medie ...e quello dell'italiano alle primarie...mi sento di aggiungere.Troppe materie fatte male e in fretta. Ho proprio goduto questa tua metodologia ,carissimo Gianni...condivido con Alessandro e ,sono sicura, tanti altri. Giovanna Ttocco

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  3. e' la parola che scritta o pronunciata, segue le regole del cuore , il greco ed il latino continuano questo canto ... sublimando l'essenza del nostro essere e l'armonia del vivere ... grazie allo studio , mi si è aperto un vero immenso universo ....

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