Heinrich Friedrich Füger, Didone implora la morte |
Passiamo al VI canto (dell’Eneide)
La regina si trova nei Campi del pianto (lugentes Campi,
v. 441) tra coloro "quos durus amor
crudeli tabe perēdit " (442) che un amore spietato divorò con
consunzione crudele. Neanche la morte basta a dissolvere la sofferenza d'amore
degli umani: "curae non ipsa in
morte relinquont " (v. 444), gli affanni neppure nella morte li
lasciano. In questi luoghi ci sono altre donne morte per amore (Fedra, Procri, Erifile,
Evadne, Pasife, Laodamia, Ceneo) e finalmente la fenicia Didone: "Inter
quas Phoenissa recens a volnere
Dido-errabat silva in magna " (VI, 450-451), errava nella gran selva, con
la ferita fresca.
Vediamo che il volnus
della regina cartaginese non si cicatrizza nemmeno dopo il suicidio. La iunctura
"recens vulnus" è utilizzata da Seneca nella Consolazione
indirizzata Ad Helviam Matrem (del 42 d. C. ) dall'esilio in Corsica: "Gravissimum
est ex omnibus quae umquam in corpus tuum descenderunt recens vulnus, fateor
" (III, 1), la più grave tra tutte quelle che sono mai penetrate nel tuo
corpo, lo ammetto, è la ferita recente.
Enea vede l'ex amante suicida come immagine sfocata: "Quam
Troïus heros/ut primum iuxta stetit adgnovitque per umbras/obscuram, qualem
primo qui surgere mense/aut videt aut vidisse putat per nubila lunam, /demisit
lacrimas dulcique adfatus amorest " (vv. 451-455), appena l'eroe
troiano si trovò accanto a lei e la riconobbe in mezzo alle ombre, oscura, come
chi all'inizio del mese vede sorgere o crede di avere visto la luna fra le
nuvole, fece cadere le lacrime e le parlò con dolce amore. L'immagine ha il suo
modello nel poema di Apollonio Rodio quando Linceo che aveva grande acume
visivo, credette di vedere Eracle in lontananza, come uno che ha visto o ha
creduto di vedere la luna offuscata nel primo giorno del mese ( Argonautiche,
IV, 1478-1480). Eracle è l'eroe tradizionale del poema, contrapposto
all'irresoluto Giasone: ebbene questa immagine "che verrà splendidamente
reimpiegata da Virgilio…suggella definitivamente l'irrecuperabilità di Eracle
all'universo argonautico"[1].
Altrettanto irrecuperabile è Didone per il Troiano.
Enea cerca di scusarsi dicendo che non è stato lui a volere
la catastrofe (invitus, v. 460) ma
furono gli ordini degli dèi (iussa deum, v. 461 ), gli stessi che lo
costringono (cogunt, v. 462 ) ad attraversare le ombre, a spingerlo con la loro autorità
suprema (imperiis egēre[2] suis, v. 463); egli del resto non
avrebbe potuto credere di arrecarle tanto dolore con la partenza. L'eroe fa un
discorso imbarazzato (456-466) con il quale tenta di mitigare la donna ancora
ardente, e cerca di spengere quel fuoco con le proprie lacrime: "Talibus Aeneas ardentem et torva[3] tuentem/lenibat dictis animum lacrimasque
ciebat ", vv. 467-468), con tali parole Enea cercava di placare
l'animo infiammato che biecamente guardava, e faceva cadere le lacrime.
"L'humanitas di
Enea ha nel IV libro dei forti limiti che solo nell'incontro con Didone
nell'oltretomba... saranno superati: solo allora Enea comprenderà fino in fondo
ciò che l'amore significava per la donna; ma ciò avverrà in una situazione in
cui l'humanitas sarà tanto profonda
quanto inutile, giacché il tentativo di mutare un destino ormai compiuto per
l'eternità non sarà allora neppure pensabile... l'estraneità fra i due perdura
anche in questo episodio, salvo che le parti sono come invertite: questa volta
è Enea che prega e piange, come nel IV libro era stata Didone. E come egli
allora non si era arreso a Didone, così ora Didone è irremovibile, quasi per
una specie di contrappasso"[4].
La donna "che
s'ancise amorosa"[5]
non perdona l'amante che l'ha abbandonata; anzi manifesta il suo sdegno col non
rispondergli e non rivolgergli lo sguardo: "Illa solo fixos oculos
aversa tenebat/nec magis incepto voltum
sermone movetur, /quam si dura silex aut stet Marpesia[6] cautes". ", vv. 469-471), quella
teneva gli occhi fissi al suolo, girata dall'altra parte, né, iniziato il
discorso, il volto si muove di più che se là stesse una dura pietra o una roccia
del Marpeso. Altrettanto fa la Medea di Euripide conscia del tradimento di
Giasone: " E non solleva lo sguardo né stacca il volto/ da terra; e come
rupe o marina/onda ascolta gli amici consigliata" (vv. 27-29).
Riporto alcuni
suggerimenti di Maurizio Bettini sul voltus o vultus, "una
faccia interiore" e sugli oculi. Partiamo dal vultus.
Il professore senese riporta una definizione del De
legibus ciceroniano: "Is, qui appellatur vultus, qui nullo in
animante esse praeter hominem potest[7], indicat mores, cuius
vim Graeci norunt, nomen omnino non habent [8]
(quello che è chiamato vultus, e che non può esistere in alcun essere
animato tranne l'uomo, indica il carattere: (di vultus) i Greci hanno sì
la nozione, ma assolutamente non hanno la parola corrispondente…il latino vultus,
secondo quanto ci viene detto da Cicerone, ricopre uno spazio semantico e
culturale molto specifico "vultus (…) indicat mores"…nella
configurazione culturale presupposto dalla parola vultus, la faccia
assume valore decisamente semiotico, funziona come un insieme di segni
che, di volta in volta, rimandano alle singole affezioni della coscienza o ai
tratti specifici di una personalità"[9].
Le due parti più significative del viso sono la bocca, os, di cui si è
già detto, e gli occhi, oculi. Nel voltus determinanti sono gli
occhi. "Possiamo quindi ritenere che, quando dicono vultus, i
Romani concentrino il senso della faccia non nella parte bassa del viso, come
nel caso di os, ma in quella alta. Alla faccia/bocca, sembra dunque
contrapporsi una faccia/occhi"[10].
Quindi Bettini cita " il celebre passo in cui Plinio descrive le virtù
degli occhi negli animali, e soprattutto nell'uomo". Ne riporto solo le
parole essenziali: "Profecto in oculis animus habitat"[11],
certamente l'animo abita negli occhi.
"Che siano proprio gli occhi che, nel vultus, svolgono
questa funzione di finestra dell'animo, ci è del resto confermato
esplicitamente anche da Quintiliano: "In ipso vultu plurimum valent oculi,
per quos maxime animus emanat"[12]
(nel vultus hanno particolare importanza gli occhi, attraverso i quali
l'animo soprattutto si esprime)"[13].
Petronio utilizza alcuni di questi
versi con intenti parodici dopo che Encolpio ha lanciato un'invettiva contro la
mentula contumax: "erectus igitur in cubitum hac fere
oratione contumacem vexavi: "quid dicis-inquam-omnium hominum deorumque
pudor? nam nec nominare quidem te inter res serias fas est. " (Satyricon,
132, 9-10), drizzatomi dunque sul gomito strapazzai il renitente con queste
parole più o meno: " che cosa dici-faccio- vergogna degli uomini tutti e
degli dèi? Infatti sarebbe un sacrilegio perfino nominarti tra le cose serie.
La
risposta silenziosa della mentula mortificata è un centone virgiliano
composto di tre esametri: "illa solo fixos oculos aversa tenebat, /nec
magis incepto vultum sermone movetur/quam lentae salices lassove papavera collo"
(132, 11), quello teneva gli occhi fissi
al suolo, girato dall'altra parte, né, iniziato il discorso, il volto si muove più dei flessibili
salici o dei papaveri dal morbido stelo. I primi due versi corrispondono ai due
esametri dell'Eneide (VI, 469-470) che descrivono il silenzio di Didone.
Virgilio però continua con "quam si dura silex aut stet Marpesia[14] cautes".
(v. 471) che se là stesse una dura
pietra o una roccia del Marpeso, una durezza lapidea che non può essere
paragonata alla mentula di Encolpio. Il terzo esametro è formato da due
emistichi tratti da Bucolica 5, 16 e Eneide 9, 436.
"Non c'è dubbio
che Virgilio sia il poeta latino preferito da Petronio: al di là del gran
numero di puntuali reminiscenze e dell'analogia che non di rado si scorge fra
le vicissitudini di Encolpio e quelle di Enea, lo dimostrano le non poche
citazioni virgiliane disseminate nel Satyricon (c'è da tener presente
che Petronio è molto parco in vere e proprie citazioni). Particolarmente
istruttivi, per capire il meccanismo della citazione virgiliana in funzione
degradante, sono i tre esametri con cui Encolpio commenta il mutismo
dell'inerte sua pars corporis di fronte ai suoi aspri rimproveri (132
11). Essi, infatti, costituiscono un centone di esametri virgiliani: l'ultimo
combina un emistichio di buc. 5 16 con Aen. IX 436, dove il
parallelo è fra Eurialo morente e un papavero dalla chioma languidamente
reclinata; ancor più dissacratorio è il tono dei primi due esametri, che
finiscono per stabilire un parallelo fra il mutismo del membro inerte di
Encolpio e il silenzio di Didone, che negli Inferi si rifiuta di rispondere
alle esortazioni di Enea"[15].
Eliot nel silenzio di Didone riconosce
"il più espressivo rimprovero di tutta la storia della poesia" e
"non soltanto uno dei brani più commoventi, ma anche uno dei più civili
che si possano incontrare in poesia"[16].
Possiamo accostare a questo rancore silente quello del suicida Aiace nei
confronti di Ulisse nell'XI canto dell'Odissea (vv. 542-564).
Il personaggio muto della tragedia è come l'Apollo delfico
di Eraclito[17]:
non parla e non nasconde, ma significa.
Nelle Trachinie di Sofocle, Iole, la giovane amante
di Eracle condotta a Trachis, non risponde alle domande di Deianira, la moglie
attempata e negletta dell'eroe dorico. Ebbene "la necessità scenica qui
diventa felice idea drammatica. Il mutismo di Iole, di fronte a Deianira che la
interroga, è un effetto potente: è la traduzione più felice di una nobiltà
percorsa dal dolore"[18].
Nell'Antigone di Sofocle Euridice in procinto di
uccidersi copre il dolore e lo sdegno con un silenzio eccessivo: "kai; th'" a[gan ga; r ejsti; pou'
sigh'" bavro" " (v. 1257), in effetti in qualche maniera
c'è un'oppressione anche nel silenzio eccessivo.
Non si può manifestare un'ostilità più radicale e
nello stesso tempo più educata che opporre il silenzio ai vani tentativi
giustificatòri di quanti ci hanno inflitto i danni più gravi.
fine Didone.
giovanni ghiselli
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[1] M. Fusillo, Lo spazio
letterario della Grecia antica, Vol. I, Tomo II,, p. 129.
[2]
= egerunt.
[3]
Neutro plurale con valore avverbiale.
[4]A. La Penna-C. Grassi, op. cit., p.
359 e p. 561
[5]Dante, Inferno, V, 61.
[6]
Il Marpeso è un monte dell'isola di Paro famosa per i suoi marmi.
[8]
Cicerone, De legibus, I, 9, 27.
[9]
M. Bettini, Le orecchie di Hermes, p. 323 sgg..
[10]
M. Bettini, Le orecchie di Hermes, p. 328.
[11]
Plinio, Naturalis historia, 11, 145.
[12]
Quintiliano, Insitutio oratoria, 11, 3, 75.
[13]
M. Bettini, Le orecchie di Hermes, p. 329.
[14]
Il Marpeso è un monte dell'isola di Paro famosa per i suoi marmi.
[15]
P. Fedeli, Il Romanzo, in Lo spazio letterario di Roma antica, vol. I, p.
345.
[17] Eraclito:
"oJ a[nax, ou'J to; mantei'ovn ejsti
to; ejn Delfoi'", ou[te levgei ou[te kruvptei ajlla; shmaivnei",
fr. 120 Diano.
[18]
U. Albini, Nel nome di Dioniso, Garzanti, Milano, 1991, p. 18.
Questo dolore che non finisce mai,anzi si prolunga oltre la morte mi fa pensare.In fondo,quando il sentimento finisce rimane la sua assenza .
RispondiEliminaSi sostituisce l'oggetto dell'amore con il dolore o l'odio perchè qualunque cosa è meglio del vuoto,della mancanza , della solitudine.
L'uomo moderno ha perso la dignità di essere capace di rimanere solo con se stesso,anzi la solitudine viene vissuta come un marchio da cui sottrarsi ad ogni costo. Didone non rimane sola,ma in simbiosi con il suo dolore;in un silenzio che definirei assordante,Didone non ha più necessità di interlocutori se non la propria sofferenza. Giovanna Tocco