NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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giovedì 5 marzo 2015

La storia di Didone, XV parte

Heinrich Friedrich Füger, Didone implora la morte


Passiamo al VI canto (dell’Eneide)

La regina si trova nei Campi del pianto (lugentes Campi, v. 441) tra coloro "quos durus amor crudeli tabe perēdit " (442) che un amore spietato divorò con consunzione crudele. Neanche la morte basta a dissolvere la sofferenza d'amore degli umani: "curae non ipsa in morte relinquont " (v. 444), gli affanni neppure nella morte li lasciano. In questi luoghi ci sono altre donne morte per amore (Fedra, Procri, Erifile, Evadne, Pasife, Laodamia, Ceneo) e finalmente la fenicia Didone: "Inter quas Phoenissa recens a volnere Dido-errabat silva in magna " (VI, 450-451), errava nella gran selva, con la ferita fresca.
Vediamo che il volnus della regina cartaginese non si cicatrizza nemmeno dopo il suicidio. La iunctura "recens vulnus" è utilizzata da Seneca nella Consolazione indirizzata Ad Helviam Matrem (del 42 d. C. ) dall'esilio in Corsica: "Gravissimum est ex omnibus quae umquam in corpus tuum descenderunt recens vulnus, fateor " (III, 1), la più grave tra tutte quelle che sono mai penetrate nel tuo corpo, lo ammetto, è la ferita recente.
Enea vede l'ex amante suicida come immagine sfocata: "Quam Troïus heros/ut primum iuxta stetit adgnovitque per umbras/obscuram, qualem primo qui surgere mense/aut videt aut vidisse putat per nubila lunam, /demisit lacrimas dulcique adfatus amorest " (vv. 451-455), appena l'eroe troiano si trovò accanto a lei e la riconobbe in mezzo alle ombre, oscura, come chi all'inizio del mese vede sorgere o crede di avere visto la luna fra le nuvole, fece cadere le lacrime e le parlò con dolce amore. L'immagine ha il suo modello nel poema di Apollonio Rodio quando Linceo che aveva grande acume visivo, credette di vedere Eracle in lontananza, come uno che ha visto o ha creduto di vedere la luna offuscata nel primo giorno del mese ( Argonautiche, IV, 1478-1480). Eracle è l'eroe tradizionale del poema, contrapposto all'irresoluto Giasone: ebbene questa immagine "che verrà splendidamente reimpiegata da Virgilio…suggella definitivamente l'irrecuperabilità di Eracle all'universo argonautico"[1]. Altrettanto irrecuperabile è Didone per il Troiano.

Enea cerca di scusarsi dicendo che non è stato lui a volere la catastrofe (invitus, v. 460) ma furono gli ordini degli dèi (iussa deum, v. 461 ), gli stessi che lo costringono (cogunt, v. 462 ) ad attraversare le ombre, a spingerlo con la loro autorità suprema (imperiis egēre[2] suis, v. 463); egli del resto non avrebbe potuto credere di arrecarle tanto dolore con la partenza. L'eroe fa un discorso imbarazzato (456-466) con il quale tenta di mitigare la donna ancora ardente, e cerca di spengere quel fuoco con le proprie lacrime: "Talibus Aeneas ardentem et torva[3] tuentem/lenibat dictis animum lacrimasque ciebat ", vv. 467-468), con tali parole Enea cercava di placare l'animo infiammato che biecamente guardava, e faceva cadere le lacrime.
"L'humanitas di Enea ha nel IV libro dei forti limiti che solo nell'incontro con Didone nell'oltretomba... saranno superati: solo allora Enea comprenderà fino in fondo ciò che l'amore significava per la donna; ma ciò avverrà in una situazione in cui l'humanitas sarà tanto profonda quanto inutile, giacché il tentativo di mutare un destino ormai compiuto per l'eternità non sarà allora neppure pensabile... l'estraneità fra i due perdura anche in questo episodio, salvo che le parti sono come invertite: questa volta è Enea che prega e piange, come nel IV libro era stata Didone. E come egli allora non si era arreso a Didone, così ora Didone è irremovibile, quasi per una specie di contrappasso"[4].
 La donna "che s'ancise amorosa"[5] non perdona l'amante che l'ha abbandonata; anzi manifesta il suo sdegno col non rispondergli e non rivolgergli lo sguardo: "Illa solo fixos oculos aversa tenebat/nec magis incepto voltum sermone movetur, /quam si dura silex aut stet Marpesia[6] cautes". ", vv. 469-471), quella teneva gli occhi fissi al suolo, girata dall'altra parte, né, iniziato il discorso, il volto si muove di più che se là stesse una dura pietra o una roccia del Marpeso. Altrettanto fa la Medea di Euripide conscia del tradimento di Giasone: " E non solleva lo sguardo né stacca il volto/ da terra; e come rupe o marina/onda ascolta gli amici consigliata" (vv. 27-29).


Riporto alcuni suggerimenti di Maurizio Bettini sul voltus o vultus, "una faccia interiore" e sugli oculi. Partiamo dal vultus.
Il professore senese riporta una definizione del De legibus ciceroniano: "Is, qui appellatur vultus, qui nullo in animante esse praeter hominem potest[7], indicat mores, cuius vim Graeci norunt, nomen omnino non habent [8] (quello che è chiamato vultus, e che non può esistere in alcun essere animato tranne l'uomo, indica il carattere: (di vultus) i Greci hanno sì la nozione, ma assolutamente non hanno la parola corrispondente…il latino vultus, secondo quanto ci viene detto da Cicerone, ricopre uno spazio semantico e culturale molto specifico "vultus (…) indicat mores"…nella configurazione culturale presupposto dalla parola vultus, la faccia assume valore decisamente semiotico, funziona come un insieme di segni che, di volta in volta, rimandano alle singole affezioni della coscienza o ai tratti specifici di una personalità"[9]. Le due parti più significative del viso sono la bocca, os, di cui si è già detto, e gli occhi, oculi. Nel voltus determinanti sono gli occhi. "Possiamo quindi ritenere che, quando dicono vultus, i Romani concentrino il senso della faccia non nella parte bassa del viso, come nel caso di os, ma in quella alta. Alla faccia/bocca, sembra dunque contrapporsi una faccia/occhi"[10]. Quindi Bettini cita " il celebre passo in cui Plinio descrive le virtù degli occhi negli animali, e soprattutto nell'uomo". Ne riporto solo le parole essenziali: "Profecto in oculis animus habitat"[11], certamente l'animo abita negli occhi.
"Che siano proprio gli occhi che, nel vultus, svolgono questa funzione di finestra dell'animo, ci è del resto confermato esplicitamente anche da Quintiliano: "In ipso vultu plurimum valent oculi, per quos maxime animus emanat"[12] (nel vultus hanno particolare importanza gli occhi, attraverso i quali l'animo soprattutto si esprime)"[13].

Petronio utilizza alcuni di questi versi con intenti parodici dopo che Encolpio ha lanciato un'invettiva contro la mentula contumax: "erectus igitur in cubitum hac fere oratione contumacem vexavi: "quid dicis-inquam-omnium hominum deorumque pudor? nam nec nominare quidem te inter res serias fas est. " (Satyricon, 132, 9-10), drizzatomi dunque sul gomito strapazzai il renitente con queste parole più o meno: " che cosa dici-faccio- vergogna degli uomini tutti e degli dèi? Infatti sarebbe un sacrilegio perfino nominarti tra le cose serie.
La risposta silenziosa della mentula mortificata è un centone virgiliano composto di tre esametri: "illa solo fixos oculos aversa tenebat, /nec magis incepto vultum sermone movetur/quam lentae salices lassove papavera collo" (132, 11), quello teneva gli occhi fissi al suolo, girato dall'altra parte, né, iniziato il discorso, il volto si muove più dei flessibili salici o dei papaveri dal morbido stelo. I primi due versi corrispondono ai due esametri dell'Eneide (VI, 469-470) che descrivono il silenzio di Didone. Virgilio però continua con "quam si dura silex aut stet Marpesia[14] cautes". (v. 471) che se là stesse una dura pietra o una roccia del Marpeso, una durezza lapidea che non può essere paragonata alla mentula di Encolpio. Il terzo esametro è formato da due emistichi tratti da Bucolica 5, 16 e Eneide 9, 436.
"Non c'è dubbio che Virgilio sia il poeta latino preferito da Petronio: al di là del gran numero di puntuali reminiscenze e dell'analogia che non di rado si scorge fra le vicissitudini di Encolpio e quelle di Enea, lo dimostrano le non poche citazioni virgiliane disseminate nel Satyricon (c'è da tener presente che Petronio è molto parco in vere e proprie citazioni). Particolarmente istruttivi, per capire il meccanismo della citazione virgiliana in funzione degradante, sono i tre esametri con cui Encolpio commenta il mutismo dell'inerte sua pars corporis di fronte ai suoi aspri rimproveri (132 11). Essi, infatti, costituiscono un centone di esametri virgiliani: l'ultimo combina un emistichio di buc. 5 16 con Aen. IX 436, dove il parallelo è fra Eurialo morente e un papavero dalla chioma languidamente reclinata; ancor più dissacratorio è il tono dei primi due esametri, che finiscono per stabilire un parallelo fra il mutismo del membro inerte di Encolpio e il silenzio di Didone, che negli Inferi si rifiuta di rispondere alle esortazioni di Enea"[15].
 Eliot nel silenzio di Didone riconosce "il più espressivo rimprovero di tutta la storia della poesia" e "non soltanto uno dei brani più commoventi, ma anche uno dei più civili che si possano incontrare in poesia"[16]. Possiamo accostare a questo rancore silente quello del suicida Aiace nei confronti di Ulisse nell'XI canto dell'Odissea (vv. 542-564).
Il personaggio muto della tragedia è come l'Apollo delfico di Eraclito[17]: non parla e non nasconde, ma significa.
Nelle Trachinie di Sofocle, Iole, la giovane amante di Eracle condotta a Trachis, non risponde alle domande di Deianira, la moglie attempata e negletta dell'eroe dorico. Ebbene "la necessità scenica qui diventa felice idea drammatica. Il mutismo di Iole, di fronte a Deianira che la interroga, è un effetto potente: è la traduzione più felice di una nobiltà percorsa dal dolore"[18].
Nell'Antigone di Sofocle Euridice in procinto di uccidersi copre il dolore e lo sdegno con un silenzio eccessivo: "kai; th'" a[gan ga; r ejsti; pou' sigh'" bavro" " (v. 1257), in effetti in qualche maniera c'è un'oppressione anche nel silenzio eccessivo.
 Non si può manifestare un'ostilità più radicale e nello stesso tempo più educata che opporre il silenzio ai vani tentativi giustificatòri di quanti ci hanno inflitto i danni più gravi.
fine Didone.


giovanni ghiselli

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[1] M. Fusillo, Lo spazio letterario della Grecia antica, Vol. I, Tomo II,, p. 129.
[2]egerunt.
[3] Neutro plurale con valore avverbiale.
[4]A. La Penna-C. Grassi, op. cit., p. 359 e p. 561
[5]Dante, Inferno, V, 61.
[6] Il Marpeso è un monte dell'isola di Paro famosa per i suoi marmi. 
[8] Cicerone, De legibus, I, 9, 27.
[9] M. Bettini, Le orecchie di Hermes, p. 323 sgg..
[10] M. Bettini, Le orecchie di Hermes, p. 328.
[11] Plinio, Naturalis historia, 11, 145.
[12] Quintiliano, Insitutio oratoria, 11, 3, 75.
[13] M. Bettini, Le orecchie di Hermes, p. 329.
[14] Il Marpeso è un monte dell'isola di Paro famosa per i suoi marmi.
[15] P. Fedeli, Il Romanzo, in Lo spazio letterario di Roma antica, vol. I, p. 345.
[16] Che cos'è un classico?, in T. S. Eliot, Opere, p. 966.
[17] Eraclito: "oJ a[nax, ou'J to; mantei'ovn ejsti to; ejn Delfoi'", ou[te levgei ou[te kruvptei ajlla; shmaivnei", fr. 120 Diano.
[18] U. Albini, Nel nome di Dioniso, Garzanti, Milano, 1991, p. 18. 

1 commento:

  1. Questo dolore che non finisce mai,anzi si prolunga oltre la morte mi fa pensare.In fondo,quando il sentimento finisce rimane la sua assenza .
    Si sostituisce l'oggetto dell'amore con il dolore o l'odio perchè qualunque cosa è meglio del vuoto,della mancanza , della solitudine.
    L'uomo moderno ha perso la dignità di essere capace di rimanere solo con se stesso,anzi la solitudine viene vissuta come un marchio da cui sottrarsi ad ogni costo. Didone non rimane sola,ma in simbiosi con il suo dolore;in un silenzio che definirei assordante,Didone non ha più necessità di interlocutori se non la propria sofferenza. Giovanna Tocco

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