IV. 1.
Lo studio della storia presenta varie possibilità di
approccio: da quello politico ed economico, al sociologico, all’antropologico,
allo psicologico. Rostovzev. Auerbach. S. Mazzarino su Tucidide e Tacito con la
crisi dell’agricoltura italica. La storia degli anelli d’oro in Plinio il
Vecchio e nel Satyricon. La necessità
della conoscenza dei contenuti. La storia esemplare con modelli e
contromodelli. Tito Livio, Tacito e la grandezza del passato rispetto alla
sopravvenuta decadenza.
Il filum di tradizionalismo
che unisce Catone - Sallustio - Livio e Tacito. Polibio: la storia come
correzione (diovrqwsi").
Posidonio e Diodoro: gli storiografi quali benefattori
dell’umanità.
Tucidide
e la maggiore grandezza del presente. Plutarco e i suoi estimatori: Montaigne,
Shakespeare, Vittorio Alfieri, Foscolo, Nietzsche e la storia monumentale.
Machiavelli e Guicciardini. Le interpretazioni contrastive della Storia
inducono il giovane a pensare. Vite composite e variopinte. Proust. Le Vite di Demetrio Poliorcete e di Antonio
secondo Plutarco. Luciano e la processione della Tuvch.
Dalla storia si possono ricavare tanti e vari argomenti: l'economia,
la politica istituzionale, la psicologia, secondo i gusti di chi la insegna e
di chi deve impararla. Ci furono anni, quando era di moda il marxismo, nei
quali era obbligatorio il discorso economico - strutturale; ora che Marx è
stato messo in soffitta, si preferiscono le sovrastrutture. Sono passati in
secondo piano i "severi/economici studi" e vale più "il proprio
petto/esplorar"[1].
Se una volta, dietro richiesta dei ragazzi, si studiava Rostovzev[2]
prima ancora di leggere Tacito, ora si cerca piuttosto l'approccio
antropologico, o si studia la psicologia della fanciulla Ottavia, che era
costretta a celare i propri sentimenti, o si fa notare il determinismo
geografico.
La storiografia antica si presta comunque a letture diverse.
Auerbach sostiene che gli antichi "non vedono forze, bensì vizi e virtù,
successi ed errori; la loro impostazione del problema non è evoluzionistica né
nei riguardi dello spirito né in quelli della materia; è invece
moralistica"[3].
S. Mazzarino invece ritiene che al pensiero storico classico
non manchi un'ampia e approfondita considerazione dei fatti economici: "Basta
pensare, per es., all'archeologia di Tucidide, tutta fondata su aJcrhmativa[4]
e crhmavtwn th;n kth'sin[5]; concetti che lì sono fondamentali, non
già semplici riferimenti. Tacito (…) Plinio il Vecchio (…) hanno interpretato
con acutezza i fatti sociali dell'epoca giulio - claudia"[6].
Per quanto riguarda l’autore degli Annales[7]: "Questa idea della crisi
economica dell'Italia domina il pensiero di Tacito, e dà ad esso toni di
tristezza profonda: infatti, la ritroviamo in un passo degli Annali,
XII, 43, meritatamente celebre”[8]:
"at hercule olim Italia legionibus longiquas in provincias commeatus
portabat, nec nunc infecunditate laboratur, sed Africam potius et Aegyptum
exercemus, navibusque et casibus vita populi Romani permissa est ",
eppure, per Ercole, una volta l'Italia mandava vettovaglie per le legioni in
province lontane, né oggi la terra soffre di sterilità, ma noi preferiamo far
coltivare l'Africa e l'Egitto, e la vita del popolo romano è affidata ai rischi
della navigazione.
Lo storico si riferisce all’ultimo periodo del principato di
Claudio (41 - 54), ma già Ottaviano Augusto temeva che le campagne rimanessero
non coltivate a causa dell'ozio della plebe, e decise di abolire le
distribuzioni frumentarie: "quod earum fiduciā cultură agrorum cessaret " [9],
poiché, confidando in queste, la gente trascurava la coltivazione dei campi.
Tuttavia l'imperatore non perseverò nel proponimento. Poi "Una grande
crisi scoppiò nel 33 d. C.: i latifondi coltivati da schiavi rendevano impossibile
una qualunque concorrenza da parte di piccoli proprietari; questi si erano
indebitati, ricorrendo a prestiti di latifondisti senatori, sebbene ai senatori
fosse proibita l'usura…Ne derivò la rovina di molti piccoli proprietari, i
quali svendevano i campi per pagare i debiti"[10].
Per quanto riguarda l’estendersi dei latifondi e la rovina
dell’agricoltura, si può ricordare Plinio
il Vecchio che scrive: “
latifundia perdidere Italiam"[11].
Durante il I sec. d. C. sotto gli imperatori Giulii e
Claudii: " anche in Italia le grandi tenute divennero sempre più estese e
a poco a poco assorbirono le fattorie di media estensione e i poderetti
contadineschi… Le tenute di media estensione furono a poco a poco rovinate
dalla mancanza di vendita e vennero acquistate a buon mercato da grandi
capitalisti. Questi ultimi naturalmente desideravano di semplificare la
gestione delle loro proprietà, e, paghi di ottenerne un reddito sicuro se pur
basso, preferivano dare la loro terra ad affittuari e produrre prevalentemente grano"[12].
La "mancanza di vendita" di molti prodotti italici
era dovuta anche alla emancipazione economica delle province: “le condizioni
del mercato peggioravano di giorno in giorno a misura che si svolgeva la vita
economica delle province occidentali…A questo mutamento s'accompagnò il
crescente raccogliersi della proprietà rurale nelle mani di pochi ricchi
proprietari"[13].
Nello stesso tempo della crisi dilagavano, tra i ricchi e
gli arricchiti, il lusso e lo spreco. La politica finanziaria di Tiberio cercò,
molto blandamente, di porvi un freno. Ecco la tendenza: "lotta contro il
rialzo dei prezzi; e d'altra parte, proprio per quella sua moderatio nei
riguardi degli ottimati, esitazione e anzi rinunzia a prendere rigidi
provvedimenti contro il lusso delle dites familiae nobilium aut claritudine
insignes[14].
Dalle nuove esigenze fu particolarmente incoraggiato il commercio con l'India,
come chiaramente attestano i reperti numismatici di questa regione. In queste
condizioni, il lamento che la moneta pregiata prendesse la via dei mercati
stranieri (pecuniae nostrae ad externas aut hostiles gentes transferuntur
[15]
) restava una protesta platonica, e denunziava un "drenaggio di oro"
a cui Tiberio stesso dichiarava di non poter porre rimedio"[16].
Torniamo a Plinio il Vecchio e vediamo “un interessante
squarcio di storia sociale scritta da un autore antico”.
“Questo cavaliere dell’Italia settentrionale, freddo e
saggio, ci ha descritto (naturalmente con disdegno) le ambizioni e la luxuria dei nuovi ricchi dell’epoca Claudia…Come
esponente dell’altissima borghesia equestre, egli si intendeva di fatti
economici. Nella travagliata epoca giulio - claudia, gli sembrava dominante
l’ambizione di tutti, di portar anuli
aurei, che in verità sono distintivi dei cavalieri: sotto Tiberio si era
stabilito che solo i nati liberi e di libero avo, con censo equestre e facoltà
di sedere nei 14 ordines al teatro
(vale a dire, solo i veri e propri cavalieri), potessero portare anuli aurei ; con Caligola, anche i
liberti avevano quegli ornamenta,
“ciò che prima non era avvenuto mai”; all’epoca di Claudio (che era stato anche
censore), ben 400 persone furono accusate per questo abuso. Nonostante i
provvedimenti di Tiberio, i liberti erano dunque decisi a “sfondare”, anche
contro la legge; e, al solito, il principato di Caligola aveva aperto ad essi
la strada; “l’ordine equestre”, commentava Plinio, “si voleva distinguere dal
resto dei liberi, e doveva subire l’intrusione dei liberti!” Oppure: quelli che
non appartengono all’ordine equestre non si fanno scrupolo di firmare con
l’anulus, dalla parte dove è l’oro: “una trovata dell’epoca di Claudio”; “ed
anche i servi portano anuli coperti,
all’esterno, di oro” (la stessa nota troviamo nel Satyricon di Petronio)” [17].
Entrato nella sala
del banchetto, addobbato di rosso, Trimalchione ostenta gli anelli portati
nella mano sinistra: uno grande placcato d'oro (anulum grandem subauratum
32, 3) e uno d'oro massiccio, ma tutto come costellato di pezzetti di ferro ( totum
aureum, sed plane ferreis veluti stellis ferruminatum), quindi
l’arricchito denuda il braccio destro armilla aurea cultum et eboreo circulo
lamina splendente conexo (32, 4), ornato da un bracciale d'oro e di un
cerchio d'avorio intrecciato con una lamina luccicante; infine si cincischiò i
denti con uno stuzzichino d'argento (pinnā argenteā dentes perfōdit,
33). E' un monumento classico, aere perennius, al cattivo gusto, alla
volgarità dell'eterno cafone arricchito.
"La storia
degli anelli d'oro: il più interessante capitolo di storia del costume
dell'epoca imperiale, particolarmente dell'epoca giulio - claudia…Claudio
eredita da Caligola, ed affina e organizza, il predominio dei liberti imperiali
nella corte. Ma dietro questi tre potentissimi liberti[18]
c'è la grande massa di tutti i liberti, imperiali o non, in tutto l'impero.
Sono una borghesia affaristica e prepotente. Affrontano talora i rischi della
legge, pur di portare l' anulus aureus, gabellandosi per cavalieri. La
pressione di questa borghesia significa soprattutto una cosa: l'intensificazione
dell'economia monetaria…burocrazia (questa burocrazia dei liberti imperiali)
significa economia monetaria, intensità di circolazione dei mezzi legali di
pagamento. L'economia naturale delle grosse domus senatorie è colpita a
morte"[19].
“L’economia non
conosce tradizioni, o, se ne ha, non esita un solo istante a distruggerle nel
caso che non gli siano più utili”[20].
Come si vede non è impossibile l’approccio “economico” e
sociologico ai testi classici. Uno dei tanti.
Qualunque sia l’approccio, in ogni caso è necessario
conoscere i contenuti, le parole e le idèe contenute, appunto, in un libro,
anzi in tanti libri, per insegnare, con un taglio o con un altro, una materia o
anche solo un argomento.
La storia comunque fornisce esempi, modelli e contromodelli.
Secondo Tito Livio[21]
la conoscenza della tradizione storica è necessaria per l'educazione delle
persone: essa fornisce a chi la possiede il grande strumento dei modelli
positivi da imitare, e di quelli negativi da respingere: "Hoc illud est
praecipue in cognitione rerum salūbre ac frugiferum, omnis te exempli documenta
in inlustri posita monumento intueri: inde tibi tuaeque rei publicae quod
imitēre capias, inde foedum inceptu, foedum exitu quod vites"[22],
questo soprattutto è salutare e produttivo nella conoscenza della storia: che
tu consideri attentamente esempi di ogni tipo situati in una tradizione
illustre: di qui puoi prendere quanto c'è da imitare per te e per il tuo Stato,
di qui quello che c'è da evitare in quanto turpe nel movente, turpe nel risultato.
Esemplare, secondo lo storiografo padovano è il passato
remoto, quello della grandezza: "nulla
umquam res publica nec maior nec sanctior nec bonis exemplis ditior fuit "[23],
mai nessuno Stato fu più grande né più virtuoso né più ricco di buoni esempi.
I fatti antichi lo
commuovono al punto che, nel raccontarli, scrive più avanti, il mio animo
diviene, misteriosamente, antico: "Ceterum
et mihi vetustas res scribenti nescio quo pacto anticus fit animus "(XLIII,
13, 2).
Il conflitto più grande, per i mezzi e le energie impiegate,
è stato quello annibalico. Nel proemio alla seconda guerra punica Livio scrive:
"Nam neque validiores opibus ullae
inter se civitates gentesque contulerunt arma, neque his ipsis tantum umquam
virium aut roboris fuit "(XXI, 1), infatti né alcune altre città e
popoli più possenti per i mezzi combatterono, né mai queste stesse ebbero tanta
forza e vigore.
“Livio: nella cui praefatio
domina l’esaltazione della storia romana, argomento proprio dell’opera sua: nulla umquam res publica nec maior nec
sanctior…( Liv. Praef. 11); ed
anzi, per ciò, la storia antica è da Livio - a differenza di Tucidide - di gran
lunga preferita alla moderna (Liv. praef.
5)”[24].
Anche Tacito, negli Annales,
antepone la storia e la storiografia antica, quella della repubblica, ricca di
grandi personaggi e grandi avvenimenti, alla recente, di minor levatura: "
Pleraque eorum quae rettuli quaeque
referam parva forsitan et levia memoratu videri non nescius sum "( IV,
32), mi rendo conto che la maggior parte degli avvenimenti che ho riferito e
riferirò appaiono forse piccoli e indegni di ricordo; mentre chi espose il
passato narrò "ingentia
bella...expugnationes urbium, fusos captosque reges ", grandi guerre,
città espugnate, re sbaragliati e fatti prigionieri, per quanto riguarda la
politica estera, e nell'interna"discordias
consulum adversum tribunos, agrarias frumentariasque leges, plebis et
optimatium certamina libero egressu memorabant ", raccontavano
conflitti tra consoli e tribuni, leggi agrarie e frumentarie, lotte tra plebei
e patrizi, spaziando liberamente. Quindi la fatica dei contemporanei si occupa
di un campo ristretto ed è senza gloria: " nobis in arto et inglorius labor" . Lo stesso contenuto della
storia si restringe nel passaggio dalla repubblica all'impero.
“Come Sallustio[25],
anche Tacito pensava spesso in termini di antica grandezza e di sopravvenuta
decadenza”[26].
“Ma soprattutto: c’è una linea unitaria, come un filum, che nella storiografia romana
conduce da Catone a Sallustio a Tacito. Questi tre storici insistono
particolarmente sulla disciplina et vita
dell’Italia (Catone), sulla cura
degli antichi pro Italica gente
(Sallustio), sulla necessità di conservare l’antiquus mos italico e di impedire - per una malintesa tendenza
provinciale - il decadimento economico dell’Italia (Tacito)…il filum Catone - Sallustio - Tacito è per
eccellenza significativo nella storia della storiografia romana”[27].
Aggiungerei che questo filum
passa anche per Tito Livio che celebra gli antiqui
mores e lamenta il decadere della disciplina e il dilagare dei vizi con
l’avvento della ricchezza e del lusso: “ad
illa mihi pro se quisque acriter intendat animum, quae vita, qui mores fuerint,
per quos viros quibusque artibus domi militiaeque et partum et auctum imperium
sit; labente deinde paulatim disciplina velut desidentes primo mores sequatur
animo, deinde ut magis magisque lapsi sint, tum ire coeperint praecipites,
donec ad haec tempora , quibus nec vitia nostra nec remedia pati possumus,
perventum est” (Praefatio, 9), a
quegli aspetti ciacuno rivolga attenzione con acutezza, quale tipo di vita,
quali sono stati i costumi, gli uomini e le capacità attraverso i quali
l’impero è stato creato e ingrandito; poi mi si segua con attenzione per vedere
come, decadendo poi un poco alla volta la disciplina, rilassandosi in un primo
tempo i costumi, siano poi scivolati sempre più in basso, poi abbiano preso a
cadere a precipizio, finché si è giunti a questi tempi, nei quali si è giunti
al punto che non possiamo sopportare né i vizi né i rimedi.
Polibio[28]
nel Proemio delle sue Storie afferma che per gli uomini non c'è nessuna
correzione (diovrqwsi") più
disponibile che la conoscenza dei fatti passati (th'"
tw'n progegenhmevnwn pravxewn ejpisthvmh" , 1, 1).
Gli storiografi insomma possono essere educatori e perfino
benefattori del genere umano
Le Storie dopo Polibio
di Posidonio (andavano dal 143 al 70) non sono conservate, ma ve ne è
traccia notevole nella benemerita Biblioteca
di Diodoro[29]:
e soprattutto nel proemio diodoreo sono sviluppati pensieri che sembrano
risalire appunto al proemio posidoniano. Innanzi tutto l'idea stoica della
storia universale come proiezione della fratellanza universale che collega in
un nesso solidale - come membra di un unico corpo, secondo l'espressione
senechiana - tutti gli esseri umani. La storia universale "riconduce ad
un'unica compagine gli uomini, divisi tra loro nello spazio e nel tempo, ma
partecipi di un'unica reciproca parentela" (Diodoro, I, 1, 3). Oltre che
"strumento della provvidenza (uJpourgoi;
th'" qeiva" pronoiva") ", perciò gli storici sono
anche benefattori del genere umano: e la storiografia - prosegue Diodoro - oltre
ad essere profh'ti" th'"
ajlhqeiva" è anche "madrepatria della filosofia (mhtrovpoli" th'" filosofiva")"
(I, 2, 2) )”[30].
Diodoro
aggiunge che bisogna supporre (uJpolhptevon)
che la storia abbia il potere di attrezzare i caratteri per la kalokajgaqiva. La storia ha immortalato le qualità degli eroi.
Gli altri monumenti durano poco tempo, mentre la forza della storia ha nel
tempo un custode che veglia della sua eterna trasmissione ai posteri. L’arte
della parola è divisa in più parti e accade che l’arte poetica allieti più che
giovare (sumbaivnei
th;n me;n poihtikh;n tevrpein ma'llon h[per w'felei'n, I, 2, 7), la legislazione punisca, ma non educhi,
e altri generi non contribuiscono alla felicità, altri mescolano il danno al
vantaggio, altri falsificano la verità, mentre la storia, siccome in essa le
parole si accordano ai fatti (sumfwnouvntwn ejn aujth'/ tw'n lovgwn toi'~ e[rgoi~) comprende nei suoi scritti tutti gli altri
vantaggi. Essa esorta gli uomini alla giustizia, denunciando le persone
ignobili ed encomiando quelle di valore e fornisce una grandissima esperienza
ai lettori (8).
Anche una città o una costituzione può essere esemplare: è
il caso della politeivva ateniese
secondo il Pericle di Tucidide[31]
il quale viceversa privilegia la vicinanza nel tempo poiché "faceva
dell'esperienza diretta il primo requisito di una storiografia seria"[32].
Diversamente dagli autori ricordati sopra, lo storiografo
ateniese considera più grande l'importanza dell'ultimo conflitto rispetto a
tutti i precedenti per la maggior quantità delle forze economiche e militari
entrate in campo.
"Crwvmeqa ga;r
politeiva/ ouj zhlouvsh/ tw'n pevla" novmou", paravdeigma de; ma'llon
aujtoi; o[nte" h] mimouvmenoi eJtevrou"" (II, 37, 1),
infatti ci avvaliamo di una costituzione che non invidia le leggi dei vicini,
poiché siamo noi esemplari piuttosto che imitatori di altri. Il modello
pericleo è quello della democrazia diretta: una governo retto da un uomo colto
scelto da un popolo colto che si lasciava guidare[33]
, che andava a teatro a vedere i drammi di Eschilo, Sofocle, Euripide,
Aristofane e altri autori di tale livello.
Plutarco[34]
rileva l’esemplarità delle sue biografie quando suggerisce di utilizzare le Vite
parallele quali modelli positivi o negativi: infatti si dà catarsi non solo
assimilando il valore, ma anche respingendo i vizi; questo accade ponendosi di
fronte alla storia come davanti a uno specchio (w{sper
ejn ejsovptrw/), sia imitando la virtù degli uomini grandi e buoni, il
cui esempio aiuta a respingere quella dose eventuale di pochezza (" ei[ ti
fau'lon") o malvagità ("h]
kakovhqe"") o volgarità ("
h] ajgennev"" ), che le compagnie di coloro con i quali si deve
vivere vi insinuano ("aiJ tw'n
sunovntwn ejx ajnavgkh" oJmilivai prosbavllousin"), sia
prendendo quali contromodelli uomini grandi e cattivi[35].
Queste parole indicano, tra l’altro, gli antivalori della malvagità e della
volgarità.
"E' una concezione che ha qualche punto in comune con
l'idea aristotelica della catarsi - commenta Canfora[36]
- , dell'analogia che lo spettatore (in questo caso il lettore) istituisce tra
se medesimo ed i paqhvmata dell'eroe
al quale si accosta".
Così del resto faceva
Machiavelli quando leggeva leggendo. Lo racconta nella Lettera a Francesco Vettori : "Venuta la sera, mi ritorno in
casa et entro nel mio scrittoio; et in su l'uscio mi spoglio quella veste
cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e, rivestito
condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui uomini, dove, da loro
ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo, che solum è mio, e che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno
parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni. E quelli per
loro umanità mi rispondono; e non sento per quattro ore di tempo alcuna noia,
sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto
mi tranferisco in loro...Die 10 Decembris
1513 ".
La lettura dei classici dunque per il segretario fiorentino
aveva un valore catartico. Lo stesso significato positivo ha per Plutarco lo
scrivere biografie: nella medesima prefazione infatti l'autore afferma anche: il mio lavoro mi appare proprio
come un conversare, un vivere quotidianamente in intimità con costoro, quando,
per narrarne le vicende, io li ricevo quasi e li accolgo a turno come ospiti
uno per uno, e considero quanto grande e quale sia (" o{sso" e[hn oi|ov" te"[37]),
scegliendo fra le loro azioni quelle che furono le più importanti e le belle
per la conoscenza: "ta; kuriwvtata
kai; kavllista pro;" gnw'sin ajpo; tw'n pravxewn lambavnonte"".
Quindi Plutarco cita un frammento di Sofocle[38]:
"feu' feu', tiv touvtou cavrma mei'zon
a]n lavboi"", ah, ah, quale gioia potresti prendere maggiore
di questa, e, aggiunge, kai; pro;~
ejpanovrqwsin hjqw'n ejnergovteron ; (I, 4) quale più efficace per il
raddrizzamento dei costumi? Lo studio della Storia allora infonde gioia in chi
lo coltiva, come la poesia: Erodoto narra che in attesa del canto di Arione,
nel cuore dei pur spietati marinai corinzi che lo avevano condannato a morte
per derubarlo, si insinuò il piacere [39].
"Che profitto
trarrà dalla lettura delle Vite del nostro Plutarco? La mia guida si
ricordi a che cosa mira il suo compito; e imprima nella mente del suo discepolo
non tanto la data della distruzione di Cartagine, quanto piuttosto i costumi di
Annibale e di Scipione"[40].
“Per l'uomo moderno, Plutarco significa Shakespeare"[41],
e viceversa.
Alcune tragedie di
Shakespeare (il Giulio Cesare, l'Antonio
e Cleopatra, il Coriolano ) dipendono da Plutarco che il drammaturgo
inglese leggeva nella traduzione (del 1579) di Thomas North fatta su quella francese
(del 1559) del vescovo Amyot il quale tradusse pure i Moralia (1572)[42].
Nonostante la doppia traduzione ci sono, soprattutto nel Coriolano , situazioni e frasi che riproducono gli originali di
Plutarco, tanto che Elias Canetti in un passo[43]
di La provincia dell'uomo , afferma
che " Plutarco non è affatto schizzinoso. Nelle sue pagine accadono cose
terribili, come nelle pagine del suo seguace Shakespeare".
Plutarco, biografo di eroi, fu oggetto di culto da parte di Vittorio
Alfieri: "Ma il libro dei libri per me, e che in quell' inverno mi fece
veramente trascorrere dell'ore di rapimento e beate, fu Plutarco, le vite dei
veri Grandi. Ed alcune di quelle, come Timoleone, Cesare, Bruto, Pelopida,
Catone, ed altre, sino a quattro e cinque volte le rilessi con un tale
trasporto di grida, di pianti, e di furori pur anche, che chi fosse stato a
sentirmi nella camera vicina mi avrebbe certamente tenuto per impazzato.
All'udire certi gran tratti di quei sommi uomini, spessissimo io balzava in
piedi agitatissimo, e fuori di me, e lagrime di dolore e di rabbia mi
scaturivano al vedermi nato in Piemonte e in tempi e governi ove niuna alta
cosa non si poteva né fare né dire, ed inutilmente appena forse ella si poteva
sentire e pensare"[44].
“ Aspettando i cavalli in Savona, gli capitò un Plutarco.
Qui sentì qualche cosa di più che il racconto, gli batté il cuore: quelle
immagini colossali non lo sbigottivano, anzi suscitavano la sua emulazione: - Non
potrei essere anch’io come loro? - E il potere c’era, perché le sue forze non
erano da meno”[45].
Foscolo nelle Ultime lettere di Iacopo Ortis scrive: "Col
divino Plutarco potrò consolarmi de' delitti e delle sciagure della umanità
volgendo gli occhi ai pochi illustri che quasi primati dell'umano genere
sovrastano a tanti secoli e a tante genti"[46].
“La storia occorre
innanzitutto all’attivo e al potente, a colui che combatte una grande
battaglia, che ha bisogno di modelli, maestri e consolatori, e che non può
trovarli fra i suoi compagni e nel presente…Che i grandi momenti nella lotta
degli individui formino una catena, che attraverso essi si formi lungo i millenni
la cresta montuosa dell’umanità, che per me le vette di tali momenti da lungo
tempo trascorsi siano ancora vive, chiare e grandi - è questo il pensiero
fondamentale di una fede nell’umanità che si esprime nell’esigenza di una
storia monumentale”[47].
"Nella mancanza di dominio su se stessi, in ciò che i
romani chiamano impotentia , si
rivela la debolezza della personalità moderna"[48].
Un ajntifavrmako"
, un ottimo contravveleno rispetto all’ impotenza, può essere Plutarco: "Se
invece rivivrete in voi la storia dei grandi uomini, imparerete da essa il
supremo comandamento di diventare maturi e di sfuggire al fascino paralizzante
dell'educazione del tempo, che vede la sua utilità nel non lasciarvi maturare per
dominare e sfruttare voi, gli immaturi. E se desiderate biografie, allora che
non siano quelle col ritornello "Il signor Taldeitali e il suo
tempo". Saziate le vostre anime con Plutarco ed osate credere in voi
stessi, credendo ai suoi eroi. Con un centinaio di uomini educati in tal modo
non moderno, ossia divenuti maturi e abituati all'eroico, si può oggi ridurre
all'eterno silenzio tutta la chiassosa pseudocultura di questo tempo"[49].
Machiavelli dà questo consiglio: “debbe uno uomo prudente
intrare sempre per vie battute da uomini grandi e quelli che sono stati
eccellentissimi imitare” (Il Principe,
VI).
Anche Guicciardini
ricava insegnamenti dalla storia e dagli storiografi: “Insegna molto bene
Cornelio Tacito a chi vive sotto a’ tiranni el modo di vivere e governarsi
prudentemente, così come insegna a’ tiranni e modi di fondare la tirannide”[50].
Tuttavia in un altro dei Ricordi (110)
scrive: “Quanto si ingannano coloro che a ogni parola allegano e Romani!
Bisognerebbe avere una città condizionata come era la loro, e poi governarsi
secondo quello essemplo: el quale a chi ha le qualità disproporzionate è tanto
disproporzionato, quanto sarebbe volere che uno asino facessi il corso di uno
cavallo”.
Il criterio deve essere quello della discrezione: “E’ grande
errore parlare delle cose del mondo indistintamente e assolutamente e, per dire
così, per regola: perché quasi tutte hanno distinzione e eccezione per la
varietà delle circostanze, le quali non si possono fermare con una medesima
misura: e queste distinzione e eccezione non si truovano scritte in su’ libri,
ma bisogna le insegni la discrezione”[51].
Questi giudizi contrastanti possono indurre il giovane a
pensare criticamente e a giudicare (krivnein)
secondo il proprio orientamento psicologico.
Molte vite del resto sono composite e variopinte. Nel secondo
volume della Recherche di Proust il
pittore Elstir dice a Marcel: "Le vite che ammirate, le attitudini che
giudicate nobili, non sono state predisposte dal padre di famiglia o dal
precettore; sono state precedute da esordi ben diversi, hanno subito l'influsso
del male o della banalità che regnavano intorno a loro. Rappresentano una lotta
e una vittoria"[52].
In effetti le parti sostenute durante la pur breve esistenza
di un uomo possono mutare o alternarsi.
Plutarco nota questa alternanza dell’umana sorte nella
prefazione alle Vite di Demetrio e
Antonio. Personaggi, entrambi compositi, comunque adatti piuttosto a fare
da paradigmi negativi che positivi: le loro grandi nature portavano grandi
virtù, come grandi vizi: entrambi furono dediti alle passioni dell’amore e del
vino, furono uomini di guerra, munifici, sontuosi, insomma uJbristaiv , eccessivi. Ebbero grandi
successi alternati a grandi cadute e chiusero in modo simile la loro vicenda
terrena.(Prefazione alle Vite di Demetrio
e Antonio, 1, 8). Più avanti, raccontando la Vita del Poliorcete, Plutarco
aggiunge: ”Sembra che non ci sia stato altro re cui la Fortuna abbia imposto
rivolgimenti così grandi e improvvisi come a Demetrio, e che essa in altre
vicende, non divenne altrettante volte piccola e di nuovo grande, né umile da
splendida , e poi di nuovo forte da misera . Perciò dicono pure che Demetrio
nei più gravi sconvolgimenti apostrofasse la Fortuna con il verso di Eschilo: "Tu davvero
mi rendi tronfio, tu sembri bruciarmi[53]"
( Vita di Demetrio, 35, 3 - 4).
Di Antonio si può mettere in evidenza la teatralità[54].
Luciano[55]
paragona la nostra vita a una processione in costume guidata dalla
Fortuna che attribuisce le parti agli umani e spesso cambia maschere e ruoli di
alcuni durante il corteo: " Pollavki"
de; kai; dia; mevsh" th'" pomph'" metevbale ta; ejnivwn schvmata"[56].
[1]
Leopardi, Palinodia al Marchese Gino Capponi, del 1835, vv. 233 - 235.
[2] M. Rostovzev, Storia economica e sociale
dell'impero romano. La prima edizione (in inglese) è del 1926.
[3]
Mimesis (del 1946), p. 45.
[4]
Tucidide, Storie, I, 11, 3. Significa
scarsità di risorse, senza le quali non si possono allestire grandi flotte né
fare guerre grandi come quella del Peloponneso.
[5]I,
13, 1. E' l'accumulo di ricchezze necessari allo sviluppo di una grande
potenza.
[6]
S. Mazzarino, L'impero
romano, (del 1974) vol.I, p. 214, n. 4.
[7]
Gli Annales, composti da Tacito negli anni successivi al 111 d. C.,
dovevano continuare l'opera di Livio: il titolo dei manoscritti Ab excessu
divi Augusti echeggia il liviano Ab urbe condita. Dell'opera che
doveva andare dalla morte di Augusto a quella di Nerone ci sono arrivati i
libri I - IV, un frammento del V e parte del VI con gli avvenimenti dalla morte
di Augusto (14 d. C.) a quella di Tiberio (con una lacuna per gli anni 29 - 31);
inoltre i libri XI - XVI con il regno di Claudio, dal 47, e quello di Nerone
fino al 66.
[8]
S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, III, p. 458.
[9]
Svetonio, Vita di Augusto, 42.
[10]
S. Mazzarino, L'impero romano I, p. 148.
[11]
Naturalis historia, XVIII, 7.
[12]M.
Rostovzev, Storia economica e sociale dell'impero romano, p.115 ,
[13]M.
Rostovzev, Storia economica e sociale dell'impero romano, p. 114.
[14]
Tacito, Annales , III, 55, le famiglie ricche dei nobili o distinte nel
segnalarsi.
[15]
Annales, III, 53.
[16]
S. Mazzarino, L'impero romano I, p. 147.
[17]
S. Mazzarino, L'impero romano, 1, pp. 214 - 215.
[18]
Callisto, Pallante e Narcisso.
[19]
S. Mazzarino, L'impero romano, 1, pp. 215 - 216.
[20]
P.P: Pasolini, Saggi sulla letteratura e
sull’arte, p. 2695.
[21] 59 a . C. - 17 d. C. Ha scritto
Ab Urbe condita libri. L’opera
comprendeva 142 libri che partivano dalle origini mitiche e arrivavano al 9 a . C. Ci sono arrivati i
primi dieci, poi quelli dal 21 al 45 e frammenti degli altri.
[22] Storie , Praefatio,
10.
[23]
Praefatio 11
[24]
S. Mazzarino, Il pensiero storico
classico, 3, p. 14
[25]
Cfr. cap. 40 e cap. 48 (ndr).
[26]
S. Mazzarino, Il pensiero storico
classico, 2, p. 464.
[27]
S. Mazzarino, Il pensiero storico
classico, 2, p. 459 e p. 460.
[28]
200 ca - 118 ca a. C. Scrisse Storie
che trattavano il periodo compreso tra il 264 e il 146 a . C. Ci sono arrivati i
primi 5 integrali; degli altri possediamo epitomi e frammenti, anche
consistenti (in particolare quelli dei libri VI - XVIII).
[29]Vissuto
nel I sec. a. C. è autore della Biblioteca storica, una grande
compilazione di storia universale. Andava dalle origini all’età di Giulio
Cesare. Constava di 40 libri. Ce ne sono arrivati i primi cinque e frammenti
degli altri (n. d. r.).
[30]
Canfora, Storia Della Letteratura Greca
, p. 528
[31] Ateniese, visse tra il il 460 ca e il 400 ca a. C. Scrisse
la Storia
della Guerra del Peloponneso in 8
libri che raccontano, dopo una breve introduzione, con proemio, capitoli
metodologici, archeologia, pentecontaetia, gli anni dal 431 all’autunno del 411.
Gli anni successivi della grande guerra tra i Greci si trovano nelle Elleniche di Senofonte probabilmente
composte su carte tucididèe.
[32]A.
Momigliano, Lo sviluppo della biografia
greca , p. 51
[33] Tucidide fa l'elogio finale di Pericle dicendo che
era incorruttibile al denaro e teneva in pugno la massa lasciandola libera
("katei'ce to;
plh'qo" ejleuqevrw"") e
non si faceva condurre più di quanto la conducesse ( Storie, II, 65, 8).
[34] 50 d. C. ca - 120 d. C. ca.
[35] Prefazione alle Vite di
Emilio Paolo e Timoleonte
[36]Storia Della Letteratura Greca ,
Laterza, Bari, 1994, p. 562.
[38]Fr.
579 Nauck, v. 1.
[39]
I, 24: "kai; toi'si ejselqei'n ga;r
hjdonh;n eij mevvlloien ajkouvsesqai tou' ajrivstou ajnqrwvpou ajoidou'".
[40]
Montaigne , Saggi, (del 1588), p. 206.
[41]Mazzarino,
op. cit., p. 138. L 'autore
continua così: "significa Robespierre e Verginaud e Danton; solo uno
storico di razza (sia pure uno storico moralista, storico dell' ethos di grandi individui) poteva
trasmetterci l'eredità classica, in quanto eredità di tradizione storica, in
maniera così rilevante e decisiva.
[42]Traduzioni
approvate, da Montaigne che, qualche anno più tardi, scrive nei Saggi : " Io do giustamente, mi
sembra, la palma a Jacques Amyot su tutti i nostri scrittori francesi, non solo
per la semplicità e la purezza del linguaggio, nella quale supera tutti gli
altri, né per la costanza di un così lungo lavoro, né per la profondità del suo
sapere, poiché ha potuto volgarizzare così felicemente un autore tanto
spinoso...ma soprattutto gli sono grato di aver saputo discernere e scegliere
un libro tanto degno e tanto appropriato per farne dono al suo paese. Noialtri
ignoranti saremmo stati perduti se questo libro non ci avesse sollevato dal
pantano; grazie a lui, osiamo ora e parlare e scrivere; le signore ne dànno
lezione ai maestri di scuola; è il nostro breviario"(II, 4, pp. 467 - 468).
[43]In
Opere 1932 - 1973 , trad. it.
Bompiani, Milano, 1990, p. 1812.
[44]Vita , Epoca terza, cap. VII. Siamo nel
1769; Alfieri è “ripatriato per un mezz’anno” .
[45] F. De Sanctis, Storia
della letteratura italiana, 2, p. 371.
[47]
F. Nietzsche, Sull'utilità e il danno della storia per la vita (del
1874), in Considerazioni inattuali,
II, p. 92 e p. 93.
[48]
F. Nietzsche, Sull'utilità e il danno della storia per la vita, in Considerazioni inattuali, II, p. 116.
[49]
F. Nietzsche, Sull'utilità e il danno della storia per la vita, in Considerazioni inattuali, II, p. 125.
[50]
Ricordi, 18. La redazione definitiva
dei Ricordi è del 1530.
[51]
Ricordi, 6.
[52]
M. Proust, All'ombra delle fanciulle in fiore, p. 468.
[53] (fr. 259 N. 2)
[54] Nella Vita di
Antonio, accoppiata con quella di Demetrio, Plutarco cita due versi dell’Edipo re (il quarto leggermente modificato
e il quinto senza ritocchi poli~ …) per significare la
dissolutezza pestifera di Antonio: quando il triumviro si recò in Oriente,
l’Asia intera, come quella famosa città di Sofocle (Tebe) era piena di fumi di
incenso, e insieme di peani e di gemiti (24, 3).
Subito dopo Plutarco racconta
che Antonio entrò in Efeso preceduto da donne vestite come le Baccanti e da
uomini e fanciulli abbigliati da Satiri e da Pan; la città era piena di edera,
tirsi, zampogne e flauti e la gente acclamava Antonio come Dioniso che dà gioia
e amabile. Per alcuni sarà stato tale, ma per i più era
j
Wmhsth;~ kai; jAgriwvnio~ (24, 4 - 5),
Dioniso Crudivoro e Selvaggio.
Quando Cleopatra si recò da
lui risalendo il fiume Cidno, con teatralità ancora più vistosa, si diffuse
dappertutto la voce che Afrodite con il suo corteo andava da Dioniso per il
bene dell’Asia (wJ~
hJ jAfrodivth kwmavzoi pro;~ to;n Diovnuson ejp j ajgaqw`/ th`~ jAsiva~, 26, 5). Quindi Plutarco racconta alcune buffonate che
i due amanti compivano divertendo gli Alessandrini i quali dicevano che Antonio
con i
Romani usava la maschera
tragica e con loro quella comica ( levgonte~ wJ~ tw`/ tragikw`/ pro;~ tou;~ JRomaivou~
crh`tai proswvpw/, tw`/ de; kwmikw/` pro;~ aujtouv~, 29, 4).
[55]
120 ca. d. C. 180 ca.
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